Omosessualità e sacerdozio. Il nodo gordiano dei cattolici?

di Andrzej Kobyliński 1
Università Cardinale Stefan Wyszyński di Varsavia
da Poznań Theological Studies 31(2017), p. 117-143

Riassunto. Questo paper offre uno sguardo sintetico sul rapporto esistente tra l’omosessualità e il sacerdozio cattolico. L’analisi rivela che il fenomeno dell’omosessualità divide sempre più il mondo cristiano. La comprensione dell’omosessualità richiede delle analisi interdisciplinari serie ed approfondite. La domanda cruciale per i cattolici, di carattere piuttosto ontologico che morale, riguarda la visione del sacerdote che agisce «nella persona di Cristo» (in persona Christi). La comprensione degli elementi essenziali della conformità del prete cattolico a Cristo, sembra essere determinante per interpretare correttamente il rapporto tra l’omosessualità e il sacerdozio.

(le note al presente testo sono state riportate nella pagina https://www.paginecattoliche.it/omosessualita-e-sacerdozio-il-nodo-gordiano-dei-cattolici-note/ per necessità tecniche)

1. Introduzione

A novembre del 2015 sono passati 10 anni dalla pubblicazione di un documento dottrinale della Santa Sede che, oggi, viene spesso contestato in diversi ambienti cattolici. Si tratta dell’Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica, approvata dal Santo Padre Benedetto XVI, che ha vietato l’ordinazione dei preti con tendenze omosessuali. Purtroppo, questo anniversario importante, è passato quasi totalmente inosservato. Di conseguenza, non sono state organizzate conferenze scientifiche dedicate a questa problematica, non sono usciti nuovi libri, né articoli per approfondire il rapporto esistente tra l’omosessualità e il sacerdozio cattolico dal punto di vista biblico, teologico, filosofico o psicologico.

L’unica voce molto forte e provocatoria, che si è sentita nell’autunno del 2015, e ha toccato, expressis verbis, il problema dell’Istruzione del 2005, è stata quella del monsignore polacco Krzysztof Charamsa. Facendo, a Roma, il suo spettacolare «coming out» del 3 ottobre 2015, alla vigilia del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, Charamsa ha annunciato, in 10 dieci punti, Il nuovo manifesto di liberazione gay. Il punto numero 5 di questa dichiarazione contiene le seguenti parole: «L’immediata cancellazione della discriminatoria istruzione circa la non ammissione delle persone omosessuali al sacerdozio cattolico. Esigiamo che il papa cancelli immediatamente la vergognosa istruzione circa la non ammissione delle persone omosessuali all’ordinazione sacerdotale, firmata da papa Benedetto XVI nel 2005» 2.

In molte interviste, rilasciate nelle settimane successive ai giornalisti di molti Paesi, Charamsa ha ribadito che l’Istruzione del 2005 era stata, per lui, l’episodio più doloroso della sua esperienza nella Congregazione per la Dottrina della Fede, essendo legato alla sua omosessualità. Charamsa ha perfino paragonato questa Istruzione «alle peggiori leggi razziali», che gratuitamente «stigmatizzano e discriminano un intero gruppo sociale». Secondo lui, la decisione del 2005 è disumana – offende e discrimina le persone omosessuali. Va però ricordato che questo divieto è stato confermato dal documento della Congregazione per il Clero, pubblicato l’8 dicembre 2016 (3).

Come valutare le opinioni presentate da Krzysztof Charamsa? Perché, nel 2005, è stato introdotto il divieto di ordinare candidati al sacerdozio che fossero gay, se per 2000 anni nella Chiesa cattolica non esisteva in realtà un documento dottrinale che regolasse l’ammissione di tali candidati al sacramento dell’ordine?

Quale era la lunga storia della preparazione dell’Istruzione del 2005? Come e quando il problema dei preti omosessuali sarà risolto dai cattolici nel Terzo Millennio?

Lo scopo principale di questo articolo è quello di analizzare il processo che ha portato, dopo molti anni di duro dibattito, alla pubblicazione del documento del 2005 e di mostrare possibili scenari futuri nella comprensione del sacerdozio nella Chiesa cattolica.

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Omosessualità e sacerdozio. Il nodo gordiano dei cattolici? (NOTE)

NOTE al Saggio di Andrzej Kobyliński:

Omosessualità e sacerdozio. Il nodo gordiano dei cattolici?

Fonte: https://journals.indexcopernicus.com/api/file/viewByFileId/261531.pdf

1 Andrzej Kobyliński – dopo gli studi compiuti presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, è attualmente professore di Filosofia presso la Facoltà di Filosofia Cristiana dell’Università del Cardinale Stefan Wyszyński di Varsavia. Ha pubblicato in italiano diversi articoli ed un libro sotto il titolo Modernità e postmodernità. L’interpretazione cristiana dell’esistenza al tramonto dei tempi moderni nel pensiero di Romano Guardini (1998). E-mail: a.kobylinski@uksw.edu.pl.

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DOSSETTI E IL DOSSETTISMO. UN APPROCCIO IDEOLOGICO ALLA FEDE

INTRODUZIONE – Ho esitato a lungo prima di scegliere il titolo per questo intervento. Tra l’altro, pensando al titolo avevo immaginato anche quest’altro titolo possibile, cioè Dossetti, ovvero dell’inquietudine cattolica. Perché una ragione psicologica all’attivismo straordinario di questo personaggio deriva proprio dall’irrequietezza con cui ha vissuto il suo impegno politico prima, ed ecclesiale poi, incapace, perché teso certamente alla grandezza della fede, di accettare i limiti con cui questa poteva essere vissuta, praticata e predicata sia nella politica, sia nelle comunità cristiane, sia nella Chiesa. Ed è un limite enorme, questo, che lo ha portato ad un ipercriticismo ea un attivismo dove, in nome del meglio, si è spesso perso il bene possibile. La contrapposizione ideale non deve tuttavia far venir meno l’onestà intellettuale e capisco che con un titolo del genere la dimensione spirituale di un personaggio come Giuseppe Dossetti (1913-1996) sembra venirne inevitabilmente ridotta. Dunque, prima di entrare nel vivo del mio intervento voglio anch’io rendere in qualche modo omaggio a un personaggio che pur distantissimo dalle mie convinzione resta un fratello nella fede, dotato di una intelligenza e di un’acutezza straordinarie, e usando le «parole che il card. Giacomo Biffi (1928) ha speso per lui, pur criticandolo aspramente, si può dire che è stato un autentico uomo di Dio, un asceta esemplare, un discepolo generoso del Signore che ha cercato di spendere totalmente per lui la sua unica vita. Sotto questo profilo egli resta un raro esempio di coerenza cristiana, un modello prezioso seppur non facile da imitare» (G. Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2008, Cantagalli, p. 477).

Resta comunque impossibile tacere dei limiti di quella che è stata non solo la sua opera in campo politico, ma anche e soprattutto in seno alla Chiesa cattolica pensando in particolar modo al suo lascito raccolto e sviluppato dai suoi eredi, riferendomi non solo alla sinistra politica cattolica dei vari Rosy Bindi (1951) e Romano Prodi (1939) ma soprattutto all’opera culturale intrapresa dalla cosiddetta “officina bolognese”, cioè dal Centro di studio da lui fondato a Bologna all’indomani del suo “abbandono” politico oggi trasformato in Istituto superiore di scienze religiose, e divenuto anche Fondazione, che da anni egemonizza l’intellighenzia cattolica soprattutto in relazione alla interpretazione della ricezione conciliare.

PERCHE’ UN APPROCCIO IDEOLOGICO? – Per ideologia intendo una costruzione della mente che intende imporsi sulla realtà, anche quando questa naturalmente gli resiste. Allora occorre qui, ripercorrendo sinteticamente le tappe del percorso politico-culturale di Dossetti vedere che genere di ideologia si sviluppa e in che modo si è venuta formando.

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Storia greca – Cap. X

Alberto Torresani

Storia greca

CAP. 10 – DA ATENE A ROMA

     Da quanto si è detto nel capitolo precedente, dovrebbe risultare chiaro che la fortunata impresa di Alessandro Magno non fu altro che un viaggio armato di esplorazione fino ai confini del mondo conosciuto, non l’inizio di un duraturo impero che solamente la morte del giovane fondatore avrebbe compromesso.

     Con la spedizione di Alessandro Magno si era conclusa una  fase del conflitto tra Asia ed Europa, tra la culla di tutte le culture e il continente in cui la filosofia, la scienza e l’arte avevano raggiunto il grado di astrazione necessario per divenire autonome dalla matrice politica e religiosa.

     L’Asia aveva espresso, come erede di una cultura trimillenaria e come massima espressione della sua concezione politica e spirituale, l’Impero persiano: con la sua caduta veniva meno il maggiore ostacolo alla rapida espansione della cultura greca nell’oriente. Occorre tuttavia ricordare che l’Impero persiano era durato circa due secoli solamente a patto di dividersi in satrapie che in larga misura coincidevano con i confini delle etnie nazionali. Greci e Macedoni non avevano alcuna superiore concezione della politica in grado di tenere unito un insieme tanto vasto di culture e tradizioni diverse che solamente la concezione dello Stato propria di Roma saprà organizzare in modo duraturo. La libertà greca era finita, ma essa viveva nella sua lingua, un mirabile strumento capace di esprimere in modo adeguato le più elevate concezioni morali ed estetiche.

     Col termine “ellenismo” si intende la diffusione della lingua, dei valori e della cultura greca nei paesi che erano stati sottoposti all’Impero persiano e poi anche in tutto l’occidente, nei paesi che stavano per entrare nell’orbita di Roma la cui organizzazione politica superò il limite più grave del mondo greco, ossia l’incapacità di superare i limiti angusti della polis o della lega di città libere e autonome che il ricorso al regime democratico più radicale aveva ridotto all’impotenza di fronte all’esercito macedone prima, e agli eserciti romani più tardi.

     L’ideale passaggio delle consegne tra la Grecia e Roma si può cogliere nel gesto che il console Tito Quinzio Flaminino compì nello stadio di Corinto nel 196 a.C., annunciando ai Greci la libertà riacquistata con le armi dei Romani. Eccolo nel racconto di Polibio: “Sopravvenuto il tempo dei giochi istmici, da quasi tutta la terra convennero gli uomini più illustri in ansiosa aspettativa del futuro. […] Mentre la folla degli spettatori era riunita nello stadio per la gara, l’araldo si fece innanzi e avendo ordinato alla folla di fare silenzio mediante un segnale di tromba lesse il bando: ‘Il Senato romano e il generale Tito Quinzio, dopo aver vinto in battaglia il re Filippo e i Macedoni, lasciano liberi, esenti da guarnigione e da tributi, governati dalle leggi patrie, i Corinzi, i Focesi, i Tessali, i Parrebi’. Si levò da principio un applauso immenso, cosicché alcuni non udirono il bando; altri pur avendolo udito, vollero sentirlo di nuovo”. (altro…)

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Storia greca – Cap. IX

Alberto Torresani

Storia greca

CAP. 9 – LA POTENZA DELLA MACEDONIA

 

Con la morte di Epaminonda, di fatto fu posto termine alla possibilità di unificazione politica della Grecia. Il fallimento in successione di tre tentativi di egemonia lasciò la Grecia aperta alla conquista da parte dei barbari. A metà del IV secolo a.C. l’Impero persiano appariva ancora una realtà temibile e incombente e pochi avrebbero dato credito alla Macedonia, piccola e montuosa, solamente in parte aperta all’influsso culturale greco. Eppure, furono precisamente i sovrani della dinastia Argeade, Filippo II e Alessandro Magno, coloro che ereditarono il grande compito, non assolto da Atene, di sconfiggere la Persia e di estendere su tutto l’oriente la cultura greca. Il vero e proprio creatore della potenza macedone fu Filippo che, mediante l’adozione e il perfezionamento  della nuova tattica di combattimento elaborata da Pelopida ed Epaminonda, dapprima impose la propria egemonia sulla Grecia e poi iniziò a meditare sulla grande spedizione in oriente, considerata una valvola di sfogo delle esuberanti energie della Macedonia e della Grecia.

     Di Filippo ci resta un ritratto laudatorio, opera di Isocrate, oratore ateniese aderente al partito filo macedone. Eccolo: “Io sono convinto che nessun altro potrebbe conciliare queste città, ma per te un tale compito non è affatto arduo. Poiché vedo che tu hai compiuto gesta che ad altri potevano parere insuperabili e incredibili, per la qualcosa non ci si deve stupire che solo tu possa risolvere questa contesa. Gli eroi magnanimi e superiori devono, in verità, porre mano a imprese non accessibili a chiunque, ma a quelle sole che nessun altro sarebbe in grado di compiere, tranne chi abbia a te pari l’animo e la potenza”. Filippo fu ucciso, ma i suoi progetti furono ripresi dal giovanissimo figlio che attraversò come una meteora la storia del mondo antico operando l’impresa ritenuta più meritoria dai Greci, la vendetta dell’offesa arrecata dai Persiani agli dèi della Grecia i cui templi erano stati distrutti. La conquista dell’Asia Minore, della Fenicia e Palestina, dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India fino all’Indo divenne oggetto di numerosi racconti che descrivevano il fantastico viaggio di Alessandro Magno fino ai confini del mondo, dilatato e unificato come mai in precedenza. Ne abbiamo un esempio in Plutarco quando racconta di Alessandro giunto alle rive del Gange: “La battaglia vinta non senza gravi contrasti, aveva affievolito il coraggio dei Macedoni, disamorandoli della conquista della rimanente India. Così essi si opposero con tutte le loro forze ad Alessandro, che li eccitava a passare il Gange la cui larghezza era di trentadue stadi e aveva una profondità di cinquanta braccia. Ancora, si affermava che la riva opposta era difesa da un numero infinito di milizie e da vari battaglioni di elefanti. Nessuno potrebbe descrivere la disperazione di Alessandro di fronte a simile rifiuto. Si chiuse nella sua tenda dove stette coricato per tre giorni sulla terra”. L’improvvisa morte di Alessandro Magno ancor giovanissimo, aggiunse un alone epico al condottiero, dando luogo a uno specifico genere letterario che in un certo senso non è più terminato. (altro…)

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Storia greca – Cap. VIII

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Storia greca

CAP. 8 – LA CIVILTA’ DELLA GRECIA CLASSICA

 

     Tra il VI e il IV secolo fiorì in Grecia una stagione culturale di enorme importanza, rimasta tanto esemplare da divenire il fondamento della civiltà mediterranea. La cultura greca fu accettata a Roma che la diffuse nel resto dell’occidente. Quando, infine, la cultura greco-latina si incontrò col cristianesimo essa assunse una dimensione universale.

    Per quanto riguarda la letteratura occorre ricordare sempre che Omero è stato l’educatore della Grecia e che la sua poesia non deve mai venir dimenticata. Nel VI e V secolo la poesia lirica (monodica e corale) ebbe un enorme sviluppo. In seguito queste forme confluirono nel genere tipicamente greco, il teatro tragico. Verso la metà del V secolo si sviluppò la prosa: la storiografia di Erodoto e di Tucidide; in seguito l’eloquenza di Isocrate e di Demostene, per citare solamente i più noti.

     Anche le arti figurative (architettura, scultura, pittura) conobbero in quei due secoli un mirabile sviluppo. Il tempio in stile dorico e le incantevoli statue in stile arcaico del VI secolo trapassarono durante il V secolo nello stile ionico e nella statuaria di Fidia, Policleto, Prassitele in grado di idealizzare al massimo la figura umana. Ce lo conferma Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia: “Prassitele ha fatto trionfare il marmo fino a superare se stesso. La più bella delle sue statue è la Afrodite. Per andarla a vedere molti e molti si sono recati a Cnido”. Il re Nicomede di Bitinia volle comprare questa statua, obbligandosi a pagare tutto il loro debito pubblico, che era enorme. Ma quei di Cnido preferirono restare poveri; e non ebbero torto che con codesta statua Prassitele ha reso Cnido gloriosa e celebre nei secoli. Il tempietto ov’ella è posata, è aperto da ogni parte, perché la bellissima statua sia perfettamente visibile da qualunque parte viene guardata l’ammirazione è sempre la stessa: grandissima”. Nel IV secolo le arti figurative perdettero un poco della loro serena bellezza assumendo i modi di uno stile manieristico in cui traspare l’abilità tecnica dell’artista.

     La filosofia è forse la creazione più importante del genio greco e non a torto si può ritenere Platone il più grande scrittore greco. La ricerca della verità e l’acquisizione della sapienza furono l’oggetto della sua filosofia. Platone sostenne che “una vita senza ricerca non è degna d’essere vissuta” affermando che un uomo preoccupato solamente dai beni materiali è un uomo-ventre, simile a un’ostrica che trascorre la sua vita afferrata a uno scoglio aprendo le valve per filtrare acqua e trattenere cibo. La filosofia permise ai Greci di raggiungere il necessario grado di astrazione per indagare in modo rigoroso i segreti della natura.

     Nella geometria, nell’astronomia, nella botanica, nella zoologia, nella medicina, ossia nei campi che i Greci definivano filosofia naturale, furono conseguiti mirabili traguardi che hanno formato il patrimonio scientifico dell’umanità rimasto insuperato fino all’inizio del XVI secolo. (altro…)

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Storia greca – Cap. VII

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CAP. 7 – DA SPARTA A TEBE: LA LOTTA PER L’EGEMONIA

     Il mezzo secolo seguito alla sconfitta di Atene continuò ad apparire luminoso sotto il profilo artistico e culturale, ma rimase instabile sotto il profilo politico. La Confederazione del Peloponneso era stata sollecitata dal comune timore nei confronti dell’imperialismo ateniese, non da una reale convergenza d’interessi tra Sparta, Corinto, Megara e Tebe. Distrutte le Lunghe Mura di Atene, i confederati si ripiegarono ciascuno sui propri interessi particolari. Sparta doveva guidare la politica greca nei confronti della Persia, ma la distruzione della grande flotta ateniese rendeva quel compito più difficile, più precario. Inoltre, Sparta aveva accettato grandi aiuti finanziari per sconfiggere Atene e perciò si trovava a competere con la Persia, sul piano diplomatico, da una posizione meno forte di quella tenuta da Atene. La pace di Antalcida, o del Re, come venne chiamata in modo molto significativo, segna un reale aumento di potenza della Persia rispetto alla pace di Callia, concordata al tempo di Pericle. Il segno più clamoroso fu l’assorbimento delle città greche della Ionia nelle satrapie persiane della Frigia e della Caria.

     Racconta Senofonte, nel V libro delle Elleniche: “Gli Spartani, vinti a Cnido dalla flotta guidata da Conone, venuti a sapere che costui col denaro del gran re ricostruiva le mura di Atene, mandarono Antalcida dal satrapo di Sardi, Tiribazo. […] Antalcida, ritornato dall’Asia con Tiribazo disse di aver ottenuto per gli Spartani l’alleanza del gran re, anche se gli Ateniesi e i loro alleati non avessero accettato la pace quale il re desiderava accordare; ed eccone il tenore: ‘Il re Artaserse trova giusto che le città d’Asia e le isole di Cipro e di Clazomene restino sotto il suo dominio e che le altre città greche, grandi e piccole, siano libere ad eccezione di Lemno, Imbro e Sciro che apparterranno, come già un tempo, ad Atene. Quelli che rifiuteranno questa pace saranno da me combattuti, e con quelli che l’avranno accettata saranno da me vessati per terra e per mare, con le mie navi e con i miei tesori’. Gli Spartani, arbitri di questa pace proposta dal re di Persia, rimisero le città in libertà”.

     La ripresa economica di Atene fu molto rapida: non essendo più necessario far fronte a grandi spese militari, il denaro poteva essere investito in attività lucrative: praticando una spregiudicata politica di equilibrio tra i potentati greci che rigettava come inutile qualunque valutazione meramente ideale, Atene raggiunse una notevole prosperità materiale che le permise di dar vita a una nuova Lega navale delle isole dell’Egeo in prevalente funzione economica, una specie di mercato comune dell’Egeo. Con Pelopida ed Epaminonda, Tebe compì una notevole innovazione nell’impiego della fanteria oplitica, ossia introdurre un nuovo tipo di manovra avvolgente nel corso del combattimento. L’egemonia di Tebe risultò effimera e riuscì solamente a indebolire ancor più la Grecia perché la nuova tattica di combattimento fu prontamente imitata dalla falange macedone quando arrivarono al potere due grandi personalità come Filippo II e il figlio Alessandro Magno. (altro…)

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Storia greca – Cap. VI

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CAP. 6 – LA GUERRA DEL PELOPONNESO

     Lo splendore ineguagliato dell’età di Pericle collocò Atene in una posizione di primo piano rispetto alle altre città greche, assegnandole il compito di guidare la resistenza della Grecia contro un possibile ritorno offensivo dell’impero persiano.

     La creazione della Confederazione delio-attica e la trasformazione dei contributi di navi e di opliti in tributi in denaro offrì ad Atene la possibilità di convertire la città in un immenso emporio di ogni genere di merci, di realizzare cantieri navali e altre grandi opere del settore edilizio rendendo l’economia molto forte, con un mercato attivo che aveva a disposizione grandi mezzi finanziari.

     Dal punto di vista sociale, venne realizzato un modello ineguagliato di democrazia radicale col popolo minuto realmente sovrano. Scrive Tucidide: “Noi abbiamo una forma di governo che non imita le leggi altrui, mentre siamo noi, al contrario, modello per taluni; il suo nome è democrazia, perché lo Stato è dei molti e non dei pochi. Per legge ognuno gode ugual diritto pur rispettando l’individualità di ciascuno; ma per quanto riguarda i meriti, se qualcuno ottiene una buona  reputazione, viene scelto alle alte cariche dello Stato non perché appartenga a una classe sociale, ma per le sue virtù. A nessuno che possa essere di beneficio alla patria ciò viene impedito a causa della povertà o dell’oscurità dei suoi natali. Ci regoliamo con moderazione sia nella conduzione degli affari pubblici, sia nella discreta sorveglianza reciproca dei costumi privati dei cittadini senza mai adirarci col vicino che si diverte secondo il suo gusto, evitando anche di mostrarci con lui con volto triste, ben sapendo che questo comportamento offensivo può comunque risultare molesto. All’ordine pubblico non contravveniamo soprattutto per rispetto, obbedendo ai magistrati e alle leggi, soprattutto a quelle che non sono scritte”.

     Tuttavia questo singolare esperimento finì per limitare la libertà, che per i Greci significava autonomia e facoltà di autodeterminarsi, delle altre città greche, in particolare Corinto, Tebe, Megara. Sparta che fin dal VII secolo a.C. aveva mirato a raggiungere la sostanziale egemonia sul Peloponneso, fu costretta a mettersi a capo del partito oligarchico presente in ogni città e a combattere l’imperialismo ateniese che sembrava proiettato verso l’unificazione degli altri Greci, ma tenuti in posizione subordinata agli interessi di Atene.

     La guerra del Peloponneso conferma l’impossibilità per il mondo greco classico di superare la concezione della città-stato che pure era stata messa sotto scacco  fin dal tempo delle guerre persiane: forse fu l’inatteso trionfo sulla Persia a ridare vigore a una concezione politica in gran parte esaurita. Il significato della guerra del Peloponneso fu che la Grecia non sarebbe mai stata unificata da forze interne, come si vide ben presto col declino dell’egemonia spartana e poi dell’egemonia ancora più effimera di Tebe, conclusa  con l’intervento in Grecia della potenza della Macedonia al tempo di Filippo II. (altro…)

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Storia greca – Cap. V

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Storia greca

CAP. 5 – L’EGEMONIA DI ATENE

 

     Le guerre persiane rappresentano uno spartiacque della storia greca: prima c’è la giovinezza radiosa e un po’ svagata potentemente espressa dalla poesia epica, dalla poesia lirica e dallo stile dorico arcaico; dopo viene la maturità espressa dalla poesia tragica, dalla storiografia e  dallo stile classico che trova il suo compendio più felice nel Partenone. Dopo le guerre persiane il mondo greco diviene consapevole della propria originalità, avendo battuto il più grande Impero dell’Asia, erede degli Imperi babilonese ed egiziano, e perciò i Greci ritengono di poter tutto osare, dando vita a una società eminentemente agonistica che premia il più forte, il più abile, il più intelligente, il più audace, il più intraprendente.

     La società greca non fu mai una società opulenta: ciò significa che le virtù più apprezzate non erano il lavoro indefesso, il risparmio, l’investimento del denaro in attività produttive, bensì la magnanimità, il valore, il rischio, il successo e la lode dei propri concittadini.

    Scrive Jacob Burckhardt nella sua Storia della civiltà greca: “L’uomo greco ha una spiccata vita individuale, è libero da influenze di casta o di razza ed è in continua gara con i suoi simili, dai giochi nelle feste fino al predominio nella polis, dall’arena di Olimpia alle piazze e ai portici della città natia, fino ai concorsi di canto e nelle arti figurative. E dove non si tratti di serio gareggiare, ne troviamo uno in forma di scherzo o beffa quotidiana, nella continua critica del prossimo; lo spirito umoristico greco si compiace instancabilmente del contrasto insito nelle cose, fra come sono e come dovrebbero essere. L’Oriente non è agonistico, anzitutto perché l’ordinamento delle caste non tollera gare e i Greci, da parte loro, non ammisero mai un barbaro nelle loro arene”.

     Il perno dell’alleanza vincente contro i Persiani fu Atene ed era naturale che quella città si ponesse a capo del mondo greco per guidarlo nello sfruttamento della vittoria. Atene per prima comprese che i tempi della città-stato erano finiti e che occorreva conservare intatto lo strumento che aveva permesso la vittoria, ossia una potente flotta sempre pronta a prendere il mare per scongiurare ogni ritorno offensivo dei Persiani la cui potenza era stata fermata, ma non distrutta.

     Tuttavia, per mantenere una potente flotta occorrevano molti denari  che si potevano avere solamente sviluppando l’economia di mercato: dal punto di vista sociale ciò significa che occorreva mettere da parte l’antica aristocrazia con i suoi ideali di vita individualisti ed eroici, facendo ascendere ai posti di comando la borghesia industriale e commerciale i cui ideali apparivano più prosaici, più volgari, ma sicuramente più redditizi.

     Il personaggio chiave per operare questa profonda trasformazione del costume fu Pericle che, pur appartenendo alla famiglia più aristocratica dell’Attica, portò al potere i ceti sociali più umili di Atene e riuscì nel difficile compito di far accettare a una parte dei Greci l’egemonia di Atene. (altro…)

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Storia greca – Cap. IV

Alberto Torresani

Storia greca

CAP. 4 – LE GUERRE PERSIANE

     Alla fine del VI secolo a.C. la spinta all’espansione dell’Impero persiano induce Dario a intraprendere l’ingresso in Europa. Egli mirava ad assoggettare la Grecia, ma ne fu impedito dall’inaspettata rivolta delle città greche dell’Asia Minore che a partire dal 499 a.C. tennero in scacco per sei anni le forze persiane.

     Dario non rinuncia al progetto di conquistare la Grecia, anzi, la rivolta delle città della Ionia viene scelta come pretesto per punire le città greche che avevano aiutato gli insorti. La spedizione effettuata nel 490 a.C. si risolve in un parziale insuccesso dei Persiani che, sconfitti a Maratona, non riescono a occupare Atene.

     La morte di Dario e una rivolta nella satrapia d’Egitto assicurano ai Greci dieci anni di tregua, nel corso dei quali emergono le figure del re spartano Cleomene e dell’ateniese Temistocle che trasforma Atene nella maggiore potenza navale greca. Le ostilità riprendono con l’invasione della Grecia settentrionale, per terra e per mare, sotto la guida di Serse, il re persiano succeduto a Dario. Scrive Erodoto: “Mentre Serse si apprestava a guidare la spedizione ebbe nel sonno una visione e i magi, come l’ebbero udita, giudicarono si riferisse al fatto che su tutta la terra sarebbero divenuti suoi schiavi tutti gli uomini […] E così Serse fece compiere il raduno dell’esercito, andando alla ricerca di soldati in ogni città dell’impero. Dopo la sottomissione dell’Egitto, per quattro anni interi preparò la spedizione e nel corso del quinto anno ne assunse il comando, avendo a disposizione un numero di uomini davvero ingente. Delle spedizioni a noi note questa fu di gran lunga quella di dimensioni più grandi, tanto che di fronte a questa sembra nulla sia quella di Dario contro gli Sciti […] sia, secondo ciò che si narra, quella famosa spedizione degli Atridi a Troia”.

Il piano della spedizione fu accuratamente preparato; il concentramento delle truppe avvenne a Sardi, in Asia Minore, da lì mosse un esercito di trecentomila uomini alla volta della Grecia. La reazione greca, pur tra mille difficoltà e incomprensioni tra le città alleate, è pronta anche se, sulle prime, non pienamente efficace. Lo scontro alle Termopili, nel 480 a.C., vinto dai Persiani, consente alla flotta greca di ripiegare e portare in salvo la popolazione di Atene che sfugge così all’aggressore, ridotto a saccheggiare una città vuota.

     A Salamina, sempre nel 480 a.C., la flotta greca sconfigge quella persiana e Serse abbandona il comando della spedizione. La guerra, ripresa l’anno successivo da Mardonio, genero di Serse, si conclude con la vittoria dei Greci a Platea nel 479 a.C. Il successo di terra è completato con la vittoria navale al capo Micale, nei pressi di Mileto,  dove la flotta persiana viene annientata. Con la vittoria sui Persiani si apre una nuova stagione per la Grecia che assisterà alla mirabile espansione della potenza, ma soprattutto della civiltà ateniese. (altro…)

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