Storia greca – Cap. VIII

Alberto Torresani

Storia greca

CAP. 8 – LA CIVILTA’ DELLA GRECIA CLASSICA

 

     Tra il VI e il IV secolo fiorì in Grecia una stagione culturale di enorme importanza, rimasta tanto esemplare da divenire il fondamento della civiltà mediterranea. La cultura greca fu accettata a Roma che la diffuse nel resto dell’occidente. Quando, infine, la cultura greco-latina si incontrò col cristianesimo essa assunse una dimensione universale.

    Per quanto riguarda la letteratura occorre ricordare sempre che Omero è stato l’educatore della Grecia e che la sua poesia non deve mai venir dimenticata. Nel VI e V secolo la poesia lirica (monodica e corale) ebbe un enorme sviluppo. In seguito queste forme confluirono nel genere tipicamente greco, il teatro tragico. Verso la metà del V secolo si sviluppò la prosa: la storiografia di Erodoto e di Tucidide; in seguito l’eloquenza di Isocrate e di Demostene, per citare solamente i più noti.

     Anche le arti figurative (architettura, scultura, pittura) conobbero in quei due secoli un mirabile sviluppo. Il tempio in stile dorico e le incantevoli statue in stile arcaico del VI secolo trapassarono durante il V secolo nello stile ionico e nella statuaria di Fidia, Policleto, Prassitele in grado di idealizzare al massimo la figura umana. Ce lo conferma Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia: “Prassitele ha fatto trionfare il marmo fino a superare se stesso. La più bella delle sue statue è la Afrodite. Per andarla a vedere molti e molti si sono recati a Cnido”. Il re Nicomede di Bitinia volle comprare questa statua, obbligandosi a pagare tutto il loro debito pubblico, che era enorme. Ma quei di Cnido preferirono restare poveri; e non ebbero torto che con codesta statua Prassitele ha reso Cnido gloriosa e celebre nei secoli. Il tempietto ov’ella è posata, è aperto da ogni parte, perché la bellissima statua sia perfettamente visibile da qualunque parte viene guardata l’ammirazione è sempre la stessa: grandissima”. Nel IV secolo le arti figurative perdettero un poco della loro serena bellezza assumendo i modi di uno stile manieristico in cui traspare l’abilità tecnica dell’artista.

     La filosofia è forse la creazione più importante del genio greco e non a torto si può ritenere Platone il più grande scrittore greco. La ricerca della verità e l’acquisizione della sapienza furono l’oggetto della sua filosofia. Platone sostenne che “una vita senza ricerca non è degna d’essere vissuta” affermando che un uomo preoccupato solamente dai beni materiali è un uomo-ventre, simile a un’ostrica che trascorre la sua vita afferrata a uno scoglio aprendo le valve per filtrare acqua e trattenere cibo. La filosofia permise ai Greci di raggiungere il necessario grado di astrazione per indagare in modo rigoroso i segreti della natura.

     Nella geometria, nell’astronomia, nella botanica, nella zoologia, nella medicina, ossia nei campi che i Greci definivano filosofia naturale, furono conseguiti mirabili traguardi che hanno formato il patrimonio scientifico dell’umanità rimasto insuperato fino all’inizio del XVI secolo.

 8.1                                        LA LETTERATURA GRECA

 

Per esigenze di spazio è possibile citare unicamente gli autori più significativi con qualche breve accenno alle loro opere.

Ciò che rimane della letteratura greca     Occorre dire che possediamo un’esigua parte di ciò che è stato prodotto nell’epoca che prendiamo in esame. Per fare un solo esempio, abbiamo meno di una cinquantina di tragedie su una produzione che sicuramente comprendeva diverse centinaia di drammi. Della poesia lirica rimangono alcuni brani citati dai grammatici dell’età ellenistica come esempio di stile. A partire dalla fine del secolo XIX, nei mucchi di rifiuti o nei cartoni formati da molti fogli di carta di papiro incollati insieme, gli archeologi hanno trovato anche alcuni scritti letterari: in qualche caso fortunato può venir fuori una commedia di Menandro o la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele. In ogni caso siamo sicuri di possedere le pagine ritenute perfette, lette con più frequenza., come avviene nelle antologie dei nostri giorni.

Una letteratura che idealizza la vita     Una spiccata caratteristica della letteratura greca e anche delle arti figurative, è di volgersi a ciò che dovrebbe essere, non a ciò che è. Gli artisti greci erano perfezionisti per quanto riguarda lo stile e non miravano a risultati originali a tutti i costi. L’artista greco si pensava come un artigiano che doveva conseguire il più alto livello tecnico, facendo riferimento a modelli riconosciuti da tutti: la forma letteraria rigorosa veniva prima dell’originalità del contenuto o dell’espressione personale (il mondo antico non conosce l’autobiografia).

Periodizzazione della letteratura greca     La letteratura greca viene divisa in tre grandi periodi. Il periodo arcaico giunge fino all’anno 500 a.C.; il periodo classico abbraccia i secoli V e IV; il periodo ellenistico è molto più lungo e giunge fino al termine del mondo antico, quando l’occidente cade in mano ai barbari e l’oriente diviene più propriamente bizantino (VI secolo d.C.).

La poesia lirica     Poesia lirica significa poesia destinata al canto singolo o al canto corale: nel primo caso i metri impiegati sono relativamente semplici, mentre nel caso della lirica corale i metri spesso sono molto complessi. Tutti i popoli hanno sempre cantato, ma i Greci hanno saputo dare grande dignità letteraria ai loro canti tradizionali. Certamente sono stati i primi che li hanno scritti. Un dato singolare della poesia greca è l’esistenza di numerosi miti dell’età eroica (la guerra di Troia, i viaggi di Odisseo, le fatiche d’Ercole, la cupa vicenda della dinastia di Atreo ecc.) conosciuti da tutti e considerati come se fossero storia. Una seconda caratteristica è la tendenza a ricavare la morale da quelle vicende. L’abilità dei poeti greci consiste nel variare all’infinito miti e relativa morale senza stancare l’ascoltatore, introducendo digressioni e paragoni che arricchiscono di vivide immagini il mito.

Saffo e Alceo     Nata a Mitilene nel’isola di Lesbo intorno al 600 a.C., Saffo è la più grande poetessa lirica, insuperata nel tratteggiare con mano leggera sottili sentimenti: così descrive la pena provocata dalla separazione dalla persona amata: “Espero, tutto riporti/ quanto disperse la lucente Aurora:/ riporti la pecora,/ riporti la capra, / ma non riporti la figlia alla madre” (trad. S. Quasimodo). Contemporaneo di Saffo è anche Alceo, l’altro grande poeta lirico vissuto a Lesbo. Ecco il suo invito a bere nel simposio: “Beviamo. Perché aspettare le lucerne? Breve il tempo./ O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte, / perché il figlio di Zeus e di Semele/ diede agli uomini il vino/ per dimenticare i dolori. / Versa due parti d’acqua e una di vino;/ e colma la tazza fino all’orlo:/ e una segua subito l’altra” (trad. S. Quasimodo).  Si osservi con che delicatezza di tocco un rude soldato di ventura come fu Archiloco descrive una fanciulla sul limitare dell’adolescenza: “Con una fronda di mirto giocava/ ed una fresca rosa; / e la sua chioma/ le ombrava lieve e gli omeri e le spalle” (trad. S. Quasimodo).

Pindaro     Il più grande lirico corale è Pindaro, nato a Tebe e vissuto nella prima metà del V secolo. Le liriche di Pindaro venivano cantate da un coro danzante per festeggiare la vittoria di un atleta ai giochi panellenici. La poesia è difficile, spesso elaborato, con audaci trapassi (voli pindarici) da un’idea all’altra: dapprima viene il nome dell’atleta, poi la città fortunato che l’ha visto nascere e la famiglia. Spesso un mito è associato alla città o alla famiglia. L’epinicio che segue è stato scritto per Melisso di Tebe vincitore coi cavalli a Nemea: “Se un uomo che ha successo con le gare gloriose/ e con la potenza dei beni reprime l’esiziale arroganza,/ è degno di essere congiunto alle lodi dei cittadini. / O Zeus, le grandi fortune vengono ai mortali/ da te! Vive di più/ la felicità di chi è timorato: cogli animi storti/ non convive fiorendo sempre ugualmente. / In premio delle imprese gloriose è giusto cantare il valente, / è giusto mentre festeggia celebrarlo con amabili canti. / Di premi addirittura gemelli è capitato a Melisso/ la sorte per volgere a dolci feste / il suo cuore dopo aver ricevuto corone nei bassopiani/ dell’Istmo: di nuovo ha fatto annunziare/ Tebe nella concava valle del leone dall’alto petto, / primeggiando nella corsa ippica. Non smentisce/ l’innato valore degli avi. / Ben conosciuta l’antica / nomea di Cleonimo nelle corse coi carri: / e legati per parte di madre ai Labdacidi/ avevano ricchezze per curarsi delle quadrighe./ Ma la vita, coi giorni che volgono urta per guise/ diverse le cose. Davvero invulnerabili sono i figli di dèi” (Pindaro, Le Istmiche, a cura di G. Aurelio Privitera, Mondadori, Milano 1982).

La tragedia     Verso l’anno 500 un poeta che non conosciamo introdusse la novità di far recitare da un attore, in dialogo col coro, una leggenda tragica: così nacque il dramma. Al tempo di Eschilo, un contemporaneo di Pindaro, la tragedia si sviluppò con l’introduzione di un secondo e poi di un terzo attore. La tragedia fiorì rapidamente con Sofocle ed Euripide, vissuti entrambi nel V secolo, e raggiunse vette mai più superate nel mondo antico. Aristotele considerava l’Edipo re di Sofocle come la tragedia perfetta. Qui ricordiamo l’inizio dell’elogio dell’Attica che si trova nell’Edipo a Colono: “Ai bei cavalli, ai piani/ della più bella delle sedi umane,/ ospite, tu sei giunto: /la candida Colono/ dov’esile continuo / tra i cupi verdi geme/ un canto d’usignolo; / o da un’edera viola / si levi, o dal fogliame/ a mille frutti ombroso/ nella selva del dio, vergine al sole,/ vergine al vento / d’ogni tempesta. / E dove tuttavia con l’ebbra inquieta / gioia Dioniso/ penetra sempre / tra scie di ninfe: / le dee nutrici” (Sofocle, Le tragedie, a cura di G. Lombardo Radice, Einaudi, Torino 1966, p. 128).

La commedia     Un genere molto diverso dalla tragedia fu la commedia. Aristofane fu il maggiore autore della commedia antica, quella del V secolo, di non facile comprensione per noi, perché a quel tempo si mettevano in scena personaggi e fatti contemporanei che solamente gli Ateniesi del tempo conoscevano bene. Nella commedia antica non esistevano limiti di parola o di decenza. I filologi asseriscono che la commedia nacque da riti per propiziare la fertilità dei campi, da feste orgiastiche che sconvolgevano i normali rapporti, come avviene per il nostro carnevale. La commedia metteva in ridicolo sia gli uomini sia gli dèi perché si pensava che anche questi ultimi si divertissero di quelle trasgressioni. In certi casi si arrivava alla vera e propria diffamazione, come avvenne a Socrate,  messo alla berlina nelle Nuvole. Socrate compare dentro una cesta sospesa sulla scena (il pensatoio) in dialogo con un coro abbigliato da nuvole (si è sempre pensato che i filosofi vivono sulle nuvole). Verso la fine dell’età classica, quando fiorisce la commedia nuova di Menandro, la commedia perdette i tratti più crudi, osceni, blasfemi: Menandro finì per mettere in scena personaggi tipici dominati da qualche difetto (l’avaria, la stupidità, la furbizia, la curiosità ecc.) che viene bellamente messo alla berlina. I personaggi rappresentati finiscono nelle situazioni più ingarbugliate dalle quali escono per decisione del fato che alla fine risolve tutti i problemi con buona pace di tutti.

L’oratorio greca     La vivacità e l’animazione caratteristiche della commedia ebbero grande influsso nella grande oratoria greca che culmina con Isocrate e Demostene. Per i Greci questo era il genere di letteratura più importante, che fungeva da metro di giudizio circa il valore degli altri generi di prosa, al punto che, per rendere allettante la lettura dei libri di storia, venivano introdotti molti discorsi (almeno un ottavo dell’opera di Tucidide è formata di discorsi). In epoca ellenistica la passione dei discorsi era talmente grande che sorsero sale di conferenza a pagamento per poter ascoltare qualche acclamato maestro. Il motivo del profondo mutamento al riguardo avvenuto tra noi e gli antichi va cercato nel fatto che le antiche città greche basavano il loro funzionamento politico, più o meno democratico, sullo scontro diretto dei discorsi dei vari proponenti la decisione da prendere; subito dopo, per alzata di mano, i cittadini che avevano diritto di voto in seno all’assemblea, votavano la risoluzione giudicata più meritoria. L’oratoria era importante soprattutto nei tribunali. Secondo il diritto attico l’imputato doveva pronunciare da sé il discorso di difesa, anche se aveva la possibilità di farsi scrivere le parte da un logografo che conoscesse a fondo il proprio mestiere e di impararla a memoria (nel mondo antico non si concepiva la possibilità di tenere i fogli scritti davanti a sé e anche per questo motivo si giudicava che una buona e pronta memoria facesse parte del corredo tecnico del perfetto oratore). Il duello oratorio non era una metafora di comodo: talvolta chi perdeva la sfida ci rimetteva la vita perché la pena di morte veniva comminata con frequenza e perciò la massima preoccupazione dell’oratore non era la ricerca della verità, ma la sconfitta dell’avversario, ricorrendo a ogni mezzo a propria disposizione. L’oratoria dei Greci non venne messa a disposizione solamente della politica e dei tribunali perché venne applicata con splendidi risultati anche alla storia e alla filosofia.

La storiografia greca     Prima di Erodoto, nella Ionia, erano fioriti alcuni logografi che componevano in prosa genealogie e miti aggiustati alle esigenze di ogni città greca. La storia nel senso che noi diamo al termine è creazione di Erodoto, nato ad Alicarnasso in Caria al tempo delle guerre persiane, forse intorno al 484 a.C. e morto a Turi in Calabria verso il 420 a.C. Erodoto scelse come argomento delle sue Storie la vittoria dei Greci nel corso delle guerre persiane. Se la scelta dell’argomento è indice della grandezza dello storico, Erodoto deve essere definito “padre della storia” perché le guerre persiane risultano il punto focale della storia greca. Egli raccolse anche gli antecedenti della famosa guerra incominciando con la sconfitta di Creso, re della Lidia, adopera dei Persiani guidati da Ciro il Grande. Risulta una pagina di incomparabile bellezza quella in cui compare Creso che si appresta a salire il rogo e piange per non aver capito nel tempo in cui era re potente una massima di Solone affermante che si poteva definire felice solamente chi fosse morto bene: infatti è la morte che dà senso a tutta la vita precedente. Nel racconto erodoteo quel pianto indusse Ciro a chiederne la causa e dopo averla conosciuta, decise di salvare Creso divenuto ormai saggio, facendolo proprio consigliere. Erodoto enunciò nella premessa delle Storie il fine che assegnava alla storia: “Erodoto di Turi espone il risultato delle ricerche da lui condotte, a fine che il ricordo di tanti avvenimenti umani non sia cancellato dal tempo, non rimangano oscure le grandi e mirabili imprese dei Greci e dei Barbari e si conoscano inoltre le cause per cui questi vennero a guerra tra loro” (Erodoto, Storie, a cura di A. Mattioli, Rizzoli, Milano 1958).

Tucidide     Con Tucidide, nato ad Atene verso il 455 a.C. e morto, forse assassinato verso il 400 a.C., la storiografia raggiunge la piena maturità Il grande ateniese non si limitò nella sua Guerra del Peloponneso a registrare le opinioni più o meno attendibili dei suoi informatori orali, bensì volle scrivere solamente ciò che egli stesso avesse visto (autopsia), controllando nel modo più accurato, mediante confronto di molti informatori tra loro indipendenti, i dati relativi agli avvenimenti cui egli stesso non fosse stato presente. Si tratta dell’inizio della vera e propria critica storica. Tucidide non mirava a un racconto in grado di suscitargli l’applauso degli ascoltatori, bensì voleva che la sua opera fosse “un guadagno per sempre”, un’opera scientifica, che, se ben meditata da chi aveva il potere, gli avrebbe permesso di prendere le decisioni giuste, perché le passioni degli uomini sono sempre le stesse e vero politico è solamente colui che sa guidare gli uomini nonostante i loro mutevoli sentimenti,come fece Pericle che risultò perciò il politico ideale per Tucidide: “Forse la mancanza del favoloso renderà la narrazione meno piacevole agli ascoltatori; mi basterà tuttavia, che la giudichi utile chi vorrà conoscere con chiarezza la realtà dei fatti accaduti e di quelli simili o analoghi che, in conformità alla natura dell’uomo, potranno accadere in futuro. La mia storia è un possesso perenne, non una rappresentazione destinata all’uditorio del momento” (Tucidide, La guerra del Peloponneso, a cura di M. Moggi, Rusconi, Milano 1984).

Senofonte     Con Senofonte, nato ad Atene verso il 427 a.C. e morto verso il 354 a.C., la storiografia perde ampiezza ideale e si trasforma in monografia, l’Anabasi senofontea contiene pagine di mirabile bellezza unite a notevole semplicità di esposizione, come quando accenna alla gioia dei Greci cui, dall’alto di un passo appena varcato, appare la distesa del mare che significa la fine del pericolo e il ritorno a casa. L’Anabasi, tuttavia, è anche indizio del fallimento della possibilità offerta ai Greci, dopo la fine delle guerre persiane, di unirsi politicamente: i diecimila soldati descritti da Senofonte erano mercenari al servizio del persiano Ciro il Giovane che cercava di conquistare il trono ai danni del fratello Artaserse. Degli storici successivi sono rimasti solamente frammenti più o meno estesi: il più noto di costoro è indubbiamente Polibio, vissuto nel II secolo a.C. in epoca romana.

 

8.3                                                    L’ARTE GRECA

Anche nelle arti figurative le conquiste operate dai Greci hanno rappresentato una svolta per la storia dell’umanità, tanto da divenire esemplari per ogni successiva rinascita dell’arte. Per quanto riguarda la scultura e l’architettura la grande svolta avvenne nei primi anni del V secolo a.C. al tempo delle guerre persiane.

Dall’età del bronzo all’età del ferro    La grande crisi del mondo antico avvenne verso l’XI secolo a.C. con la disintegrazione dei grandi imperi egiziano, babilonese, hittita. Nel mondo greco quella crisi coincide con la caduta del mondo miceneo che travolse anche la società e la cultura che lo caratterizzava, dando luogo a tre secoli di cui sappiamo molto poco. Dall’archeologia veniamo a sapere che si passò dal bronzo al ferro come metallo principale per armi e utensili. Per questo motivo venne coniata l’espressione “medioevo ellenico” che tuttavia non appare del tutto calzante e perciò va usata con riserva. Sul piano artistico, i palazzi costruiti nell’età minoico e micenea furono distrutti e non più ricostruiti perché non esisteva più una società in grado di concepire edifici di quell’impegno. Nei secoli XI-VIII sono relativamente abbondanti le ceramiche dipinte, un’attività sempre fiorente in Grecia, utilizzate dagli archeologi per indicare le varie epoche in cui furono confezionate. Le brillanti forme artistiche dell’età del bronzo si ritrovano solamente in piccoli oggetti come i sigilli che influirono sulle monete, verso l’VIII secolo, caratterizzate dalla presenza di animali raffigurati con meravigliosa vivacità.

La ceramica     Gli inizi dell’arte greca vanno cercati nella ceramica. Verso il 1000 a.C. si nota un certo miglioramento della tecnica, compaiono forme nuove e disegni astratti (cerchi e semicerchi ottenuti col compasso o con la spatola). Questi vasi vengono attribuiti a uno stile proto-corinzio, anche se sembra che la produzione sia iniziata ad Atene. Il motivo più ricorrente è il meandro a uncino (greca) caratteristico dei vasi intorno all’orlo. Raramente vengono raffigurati animali, mai la figura umana. Questa compare nell’VIII secolo: si tratta di scene di battaglia con figure esili appena abbozzate, frequenti soprattutto sui vasi molto grandi creati non per uso pratico, bensì per essere collocati sopra le tombe: avevano il fondo bucato per permettere alle libagioni di penetrare sotto terra. I soggetti di quelle figure erano battaglie, compianti funebri, duelli. Le figure umane vengono ridotte anch’esse a elementi geometrici: il torace è rappresentato con un triangolo, le braccia si riducono a due esili fili, la testa e le gambe sono presentate di profilo, l’occhio è un punto entro un cerchietto. Appare strano che l’arte greca, sempre volta in seguito a ottenere l’illusione della realtà, sia partita da moduli di disegno tanto astratti.

L’influsso orientale     Fino alla prima metà del secolo VIII a.C. l’arte figurativa greca non rivela profondi influssi provenienti dall’estero; in seguito il quadro cambia radicalmente: è l’epoca dei grandi viaggi di colonizzazione in oriente (Siria, Ponto Eusino) e in occidente (Magna Grecia e Sicilia). I viaggi in Fenicia forniscono l’alfabeto, subito perfezionato con l’aggiunta delle vocali. Gli ampi commerci ben presto attivati permisero l’ingresso in Grecia di oggetti orientali in bronzo e in avorio e certamente anche ricami che non sono giunti fino a noi. I ceramisti greci subito introdussero molti motivi orientali. In primo luogo resero le figure umane dominanti sia per dimensione sia per precisione dei particolari, con effetti drammatici. In secondo luogo sono di origine orientale le protomi di bronzo unite a certi calderoni chiamati lebeti, divenuti premi per le gare atletiche e poetiche, come quello vinto da Esiodo in Eubea e consacrato alle Muse sull’Elicona.

Pittura vascolare arcaica     Dalla sintesi tra stile geometrico ed elementi orientali nacque un ben definito e maturo stile arcaico, fiorito dal VII secolo fin verso il 480 a.C., al tempo delle guerre persiane. Il talento artistico greco si affermò non solamente nelle ceramiche, ma anche nell’architettura e nella scultura monumentale. In particolare, la felicità dello stile arcaico è tanto affascinante che molti critici lo ritengono il più vitale nell’evoluzione dell’arte greca. La bellezza della ceramica greca è tanto grande che non la si può definire arte minore, artigianato di serie: infatti dopo la metà del VI secolo a.C. i vasi più pregevoli recano la firma dell’artigiano che li decorò e i disegni appaiono tanto personali da permettere l’attribuzione a un ben determinato artista anche di altri vasi non firmati.

Pittura parietale     Gli scavi archeologici compiuti nel mondo greco non ci hanno restituito la pittura parietale, ma possiamo farcene un’idea dalle pitture parietale etrusche che consistono essenzialmente in disegni a campiture piatte di colore: perciò le pitture parietali non differivano molto da quelle vascolari.

Ceramiche a figure nere     Verso la fine del VII secolo a.C. compare la ceramica attica a figure nere su fondo rosso. La tecnica prevedeva di campire in nero tutta la figura, in seguito venivano incisi i particolari interni, sovrapponendo al nero il bianco e la porpora per dare risalto alle parti che ne avevano bisogno.

Ceramiche a figure rosse     Quando ci si rese conto che la tecnica delle figure campite in nero su fondo rosso rendeva problematica la raffigurazione di scorcio e quindi l’illusione della profondità, si cominciò a invertire i colori, ossia lo sfondo divenne nero e le figure divennero rosse. Questo procedimento finì per sostituire il precedente verso il 500 a.C. Le figure tendono a divenire più grandi e permettono all’artista di disegnare di scorcio membra sovrapposte e particolari minuti dell’abbigliamento, oltre che l’espressione dei volti che divengono sempre più realistici.

La scultura arcaica     La scultura monumentale greca data dal 650 a.C. circa e certamente appare basata sulla conoscenza della scultura egizia che fu studiata sul posto quando le colonie di mercenari si stanziarono a Naucrati sul delta del Nilo. Le più antiche statue arcaiche, in genere korai ed efebi ossia figure di giovinette vestite e di giovani nudi, rivelano la loro origine egizia: la squadratura della statua, la posizione delle braccia, le mani a pugno chiuso, le rotule delle ginocchia pronunciate, le capigliature simili a parrucche, l’abbigliamento schematico quasi cilindrico da cui sporgono solamente le punte dei piedi sono elementi che si ritrovano nelle sculture egizie. Tuttavia, le statue greche sono a tutto tondo, ossia liberate dalla materia, cosa che non accade mai del tutto alle sculture egizie. La libertà di movimento che così conseguono le sculture greche non ha riscontro con alcun’altra scultura del mondo antico: non è questione di tecnica ma di volontà artistica. I grandi occhi, caratteristici dell’epoca arcaica, sono espressione di vitalità interiore. Non sappiamo che funzione avessero queste statue perché spesso non si può decidere se rappresentano uomini o dèi o figure ideali.

Sculture dei templi     Già in epoca micenea i Greci avevano adottato la scultura monumentale, come si può vedere nella famosa Porta dei Leoni di Micene: una lastra scolpita che raffigura una colonna tra due leoni rampanti. Quando i Greci cominciarono a costruire templi di pietra introdussero statue a bassorilievo sui due frontoni e metope scolpite tra i triglifi dell’architrave. In qualche caso, in funzione di colonne venivano scolpite grandi figure che reggevano la trabeazione, come si può vedere nel caso più famoso, l’Eretteo dell’Acropoli di Atene.

Il tempio dorico     Il primo tempio di pietra conosciuto è quello dedicato ad Artemide a Corcira (Corfù) che rivela le caratteristiche dello stile dorico già maturo. Il tempio greco presenta un’unità centrale composta da cella e pronao che derivano chiaramente dal megaron arcaico, la sala regale micenea trasformata in abitazione degli dèi. Gli influssi egiziani sono stati certamente intensi: il colonnato è l’antico cortile del tempio egiziano circoscritto al megaron. Come è noto, nel tempio greco non ci sono vasti spazi interni: i sacrifici venivano compiuti su altari esterni e il tempio fungeva da sfondo, tanto che alcuni critici parlano di scultura monumentale, non di architettura che, secondo loro, dovrebbe essere spazio interno. Per lo stesso motivo anche le piramidi non sarebbero architettura. Il tempio dorico meglio conservato del VI secolo è la Basilica di Paestum vicino a Salerno, mentre il tempio che sorge accanto, di Poseidon, è posteriore di circa un secolo. La Basilica appare bassa e di forma irregolare, le colonne sono molto rastremate, l’entasi ovvero rigonfiamento è notevole, i capitelli sono molto larghi e sporgenti dando al tutto una severa impressione di elasticità e compressione, assente nell’aspetto del vicino tempio di Poseidon. Tale tempio fu iniziato verso il 475 a.C. All’interno esiste un doppio colonnato per reggere la trabeazione posta a sostegno del soffitto della cella ottenuta con la sovrapposizione di altre colonne sull’architrave del primo ordine di colonne.

Il Partenone     Nel 480 a.C. i Persiani distrussero gli edifici dell’Acropoli di Atene: i detriti non furono trasportati altrove, bensì interrati, un fatto che costituisce una vera fortuna per gli archeologi. La ricostruzione dell’Acropoli avvenne al tempo di Pericle, nel momento del massimo fulgore artistico e della piena maturità del periodo classico. Il tempio maggiore è dedicato ad Atena e collocato nel punto meglio visibile dalla sottostante pianura. Gli architetti Ictino e Callicrate lo innalzarono tra il 448 e il 432 a.C. nel momento in cui Atene dominava sulla Grecia e quindi poteva disporre dei tributi pagati da tutti i Greci. Tucidide parla di mille talenti che sarebbero stati spesi per il solo Partenone. In età cristiana il tempio fu dedicato alla Vergine Maria; sotto il dominio turco il Partenone divenne moschea; nel 1687 saltò in aria perché i Turchi l’avevano trasformato in polveriera. Nel 1803 Lord Elgin spogliò ciò che rimaneva delle sue parti più belle, facendole trasportare a Londra: se non riuscì a portarlo via per intero ciò si dovette alla mancanza di legname per costruire le casse. Il Partenone è il perfetto tra i templi dorici: se confrontato col tempio di Poseidon di Paestum si notano modifiche alle proporzioni tra le parti componenti. La trabeazione è più bassa, la cornice meno prominente, la rastrematura e l’entasi delle colonne meno pronunciata, i capitelli più piccoli e meno svasati, gli intercolunni più larghi. Ci sono anche alcune caratteristiche peculiari: lo stilobate e la trabeazione sono leggermente ricurvi; le colonne d’angolo sono leggermente convergenti verso l’interno. La cella del Partenone è più lunga e più stretta cosicché pronao ed epistodomo sono quasi scomparsi, ma di fronte a ogni entrata sorge un’altra fila di colonne con architrave ionico con fregio continuo, non più dorico con metope e triglifi.

I Propilei     Subito dopo il completamento del Partenone, Pericle fece iniziare un’altra dispendiosa costruzione, il colonnato in salita denominato Propilei. L’architetto Mnesicle seppe adattare il suo progetto a un terreno difficile, un sentiero scosceso che si inerpicava sulla collina, venne trasformato in un ingresso trionfale all’Acropoli. Rimane in piedi il lato est, una specie di frontone dorico con intercolunnio più ampio al centro. Il portico occidentale era affiancato da due ali, una delle quali dedicata alla Pinacoteca. Lungo il passaggio centrale dei Propilei esisteva un doppio colonnato ionico ritenuto più gentile e raffinato.

Il tempio ionico     Dato il suo deciso orientamento verso il mare Egeo, Atene si era mostrata molto recettiva nei confronti dello stile prevalente nelle isole dell’Egeo orientale, lo stile ionico che impiegò molto tempo prima di fissarsi in un canone. La caratteristica principale dello stile ionico è la colonna molto più sottile di quella dorica, scarsamente rastremata e di modesta entasi; il capitello presenta una doppia voluta tra l’echino e l’abaco, molto sporgente dal fusto: il suo modello con probabilità è stato la palma e perciò anche la colonna ionica trova la sua fonte di ispirazione in Egitto. In Atene l’ordine ionico fu adottato per il tempietto di Atena Nike, sul fianco meridionale dei Propilei, disegnato da Callicrate. Tuttavia, il più noto dei templi ionici, sempre sull’Acropoli, è l’Eretteo, costruito sul lato opposto rispetto al Partenone negli anni 421-405 a.C. probabilmente da Mnesicle, sul luogo in cui, secondo la leggenda, era avvenuta la contesa tra Atena e Poseidone per il predominio sull’Attica. L’Eretteo presenta due porticati disuguali: il più piccolo è la nota loggia delle Cariatidi il cui architrave poggia su sei figure di donna in luogo di colonne.

Il tempio corinzio     La tendenza all’ornamentazione divenne sempre più accentuata e verso la fine del V secolo compare il capitello corinzio che risulta una trasformazione del capitello ionico. Esso ha la forma di un cesto circondato da foglie di acanto con quattro volute agli angoli. Dapprima il capitello corinzio fu impiegato solo per interni, poi anche per esterni. In epoca romana i tre ordini vennero impiegati insieme, su tre piani diversi, quasi a indicare una progressiva liberazione dal peso andando verso l’alto.

Il teatro     Il grande sviluppo della tragedia nel V secolo suggerì nel IV secolo di costruire un edificio adeguato, il teatro. Vennero scelti alcuni pendii naturali a semicerchio, arredati con sedili di pietra formanti una gradinata concentrica con scalette a intervalli regolari. Al centro c’era l’orchestra per le evoluzioni del coro e il palcoscenico davanti all’orchestra con proscenio e scena. Poiché nel teatro antico non si usavano fondali dipinti, la scena era fissa: una facciata di edificio con tre porte. Il teatro di Epidauro è il meglio conservato in Grecia, quello di Siracusa appare ancora più imponente.

 

 

 

 

  1. 3 LA FILOSOFIA GRECA

 

La più caratteristica creazione del genio greco è la filosofia, che significa amore per il sapere, aspirazione alla sapienza, ricerca delle cause profonde circa la natura e l’uomo, saggezza pratica per superare la violenza devastante delle passioni annidate nel cuore di ogni uomo.

I sette sapienti     Fin dall’epoca arcaica i Greci avevano sottolineato con particolare cura la bellezza di alcune massime attribuite a Pittaco, a Biante, a Solone, perfino a uno scita, Anacarsi e ad altri sapienti ricordati da varie fonti sempre nel numero di sette, simbolo della perfezione. Le loro massime sono simili ai proverbi che ancor oggi appaiono un piccolo tesoro di sapienza alle persone umili: “Il sapiente porta dentro di sé il suo tesoro”, “Nulla di troppo” (Solone di Atene); “Ai banchetti degli amici vai lentamente, alle loro disgrazie rapidamente” (Chilone di Sparta). Il mondo in cui viviamo appare allergico a questo tipo di consigli perché è materialista e confonde la felicità con i molti oggetti disposizione, ama lo spreco, rifugge il dolore e non sa che cosa dire a chi soffre. Il mondo arcaico, al contrario, sapeva apprezzare il conforto di una massima che risulti una sorta di distillato di molte esperienze capaci di distinguere la realtà dall’apparenza, ciò che dura da ciò che passa, ciò che è vero da ciò che illude.

La scuola ionica     Il 28 maggio 585 a.C. avvenne un’eclissi di sole prevista da Talete di Mileto indicato da tutti gli storici della filosofia come il primo pensatore di cui abbiamo notizie abbastanza precise. Era astronomo, matematico, geografo, abitante di quella città di Mileto che fin dal VII secolo a.C. era divenuta uno dei centri commerciali e scientifici più vitali del mondo greco. I primi filosofi ionici cercavano un elemento che fungesse da inizio di tutte le cose, da elemento primordiale. Talete lo indicò nell’acqua che ha la caratteristica di presentarsi allo stato solido come ghiaccio, allo stato liquido che è quello ordinario e allo stato gassoso come vapore, pur rimanendo sempre la stessa sostanza. L’acqua è vita, la mancanza di acqua produce il deserto, la morte: dunque l’elemento primo da cui tutto il resto discende è l’acqua. Anassimandro indicò questo elemento nell’apeiron, l’indefinito non ancora determinato; Anassimene invece indicò l’origine di tutte le cose nell’aria perché tutto ciò che vive respira.

Eraclito e Parmenide     Eraclito di Efeso venne soprannominato dai concittadini l’Oscuro: amava parlare in modo sibillino perché convinto che “gli asini preferiscono la paglia all’oro” ossia che non tutti possono capire tutto, bensì ciascuno comprende ciò che gli è connaturale. Eraclito è famoso per il detto “tutto scorre” e “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume perché o è cambiato lui o sei cambiato tu”. Il fondamento di tutto il reale va perciò individuato nel fuoco, un elemento mutevole che trasforma in calore il combustibile in un perenne divenire che perciò deve essere il fondamento o arché di tutte le cose. Parmenide di Elea vissuto nel VI secolo, rimase folgorato dall’intuizione “L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere” da cui dedusse l’impossibilità logica e reale del movimento e della molteplicità degli enti. Infatti, il movimento viene inteso come passaggio dal non essere all’essere in un luogo dall’esservi, ma il non essere non è e quindi non lo si deve ammettere nei nostri ragionamenti. La molteplicità significa che se vi fossero anche solamente due cose, tra l’una e l’altra dovremmo ammettere il non essere, ma il non essere non è e perciò occorre ammettere che esista un mondo di apparenze fatto di molte cose in movimento, e di una sola realtà profonda, che solamente il filosofo riesce a contemplare con la potenza della mente: un unico essere perfetto, eterno, sussistente, immobile, sferico. Il problema posto da Parmenide, definito da Platone “padre venerando e terribile”, fu di enorme importanza per la fondazione della metafisica, risultata la parte più specifica della filosofia.

Socrate e i Sofisti     Il V secolo a.C. è dominato in filosofia dalla spregiudicatezza di un gruppo di pensatori famosi per la loro eloquenza, i Sofisti, che si facevano pagare le loro prestazioni asserendo di essere in grado di far trionfare qualunque tesi piacesse al cliente. Gorgia di Lentini, Protagora di Abdera, Ippia d’Elide, Prodico di Ceo e altri avevano molto viaggiato e si erano accorti che la legge sembrava proibire in una città ciò che in un’altra era lecito; che dovunque i più forti facevano passare per legge ciò che era di loro gradimento; ma soprattutto si erano accorti che le assemblee della nascente democrazia e i tribunali si potevano addomesticare ricorrendo a vari trucchi: adulare i giudici per conquistarne la benevolenza, parlare di un aspetto odioso dell’imputato che se non aveva nulla a che fare con la causa in discussione; intimidire i testimoni; stupire gli ascoltatori con parole rare in grado di fingere chissà quale profondità di pensiero. L’importanza dei Sofisti va cercata nella grande crisi che essi provocarono nel mondo greco, costringendolo a esprimere un grande maestro come Socrate (469-399 a.C.) che spostò l’oggetto di indagine della filosofia dalla natura all’uomo. Per parare i colpi dei Sofisti, Socrate ricorre al dialogo che spezza i loro discorsi lunghi, obbligandoli a precisare i termini impiegati per impedire le ambiguità, ossia attribuire allo stesso termine significati diversi. Socrate scoprì il concetto ossia che l’intelletto umano costruisce raggruppamenti di idee della stessa specie cercando il motivo che le apparenta: dall’esame di tutte le azioni giuste si deve giungere a definire la giustizia, e così via per le azioni belle e buone che perciò conducono al concetto di bontà e bellezza. Il superamento del relativismo etico dei Sofisti avvenne quando fu possibile provare che l’ignoranza del vero bene ci fa aderire a un’apparenza di bene che noi lasciamo cadere non appena un autentico maestro ci illumina.

Platone     Come è noto, Socrate fu condannato a morte dagli Ateniesi, irritati dalle sue incalzanti domande che mettevano in luce il loro credere di sapere, mentre non sapevano nulla, al contrario di Socrate che almeno sapeva di non sapere e perciò ricercava. Socrate fu condannato a morte per motivi politici, per non aver voluto mettere a disposizione dei padroni del momento la sua abilità dialettica e per aver svelato i moventi discutibili di molte delle loro decisioni. Il sacrificio di Socrate risultò di fondamentale importanza per la vocazione filosofica di Platone, vissuto tra il 427 e il 347 a.C. Da giovane, Platone avrebbe desiderato dedicarsi alla politica, ma ne fu distolto dall’urgenza di scoprire la verità profonda delle cose per insegnarla agli uomini che in seguito avrebbero cercato di compiere il bene dopo averlo conosciuto. Platone ritenne d’aver scoperto la causa dell’ignoranza umana e la espresse nella più potente immagine o mito cui ricorse, quello della caverna. Gli uomini vengono paragonati a schiavi che giacciono incatenati sul fondo di una caverna con lo sguardo rivolto verso uno schermo sul quale scorrono ombre. Le ombre sono prodotte da statue portate sulle spalle da uomini posti dietro un muro: se un prigioniero potesse liberarsi e volgersi verso le statue dovrebbe ammettere che le ombre sono prodotte dalle statue e che perciò non sono tutta la verità, bensì questa verrebbe riferita alle statue; se potesse guardare sotto il muro si accorgerebbe che le statue sono fantocci trasportati da uomini veri; ma solamente se il prigioniero fosse in grado di contemplare la luce del sole si renderebbe conto che esso è l’unico fattore che permette ogni tipo di conoscenza, dal più modesto che è la semplice opinione, all’opinione prestata con assenso; da questa alla vera conoscenza scientifica e da questa alla contemplazione delle cause ultime o esemplari che sono le idee, gli archetipi di tutto il reale dotati delle qualità che Parmenide attribuiva all’essere e dominati dall’idea unificatrice di Bene.

Aristotele     Nato a Stagira (384-322 a.C.) Aristotele fu discepolo per vent’anni di Platone e certamente assimilò fino in fondo gli insegnamenti del maestro. Tuttavia, risultò influenzato dagli sviluppi delle scienze naturali, oltremodo fiorenti verso la fine dell’epoca classica. Aristotele preferì, rispetto al metodo del maestro, ricorrere al metodo induttivo, ossia partire dall’attenta considerazione del reale dopo averlo suddiviso in tanti ambiti differenti tra loro per l’oggetto materiale preso in esame e per il criterio di indagine, ovvero oggetto formale. Aristotele fu grande in ognuno dei campi di ricerca cui si applicò: i suoi scritti di logica sono rimasti insuperati fino al termine del XIX secolo; i suoi scritti di fisica hanno avuto addirittura troppo successo, finendo per ostacolare una ricerca che superasse quella del maestro; gli scritti di metafisica continuano a ispirare coloro che si occupano di quella parte della filosofia; gli scritti di etica ancora di recente sono stati proclamati l’unico fondamento possibile della morale dell’occidente; perfino gli scritti di politica non hanno perso tutta la loro importanza. Con Aristotele la filosofia ha conseguito una sorta di maturità difficilmente superabile per cui i filosofi posteriori hanno finito per accentuare nuove dimensioni della filosofia piuttosto che innovare radicalmente.

 

8.4                                          LA SCIENZA GRECA

 

La passione e la grande cura dedicate dai Greci alla filosofia ha rischiato di travolgere la scienza, perché il metodo filosofico, del tutto teorico e astratto, fu applicato anche alla natura. Fino ad Aristotele, filosofo e scienziato si identificavano nella stessa persona. La scienza che ne risultò appariva carente di studio metodico perché trascurava la funzione fondamentale dell’esperimento e la misurazione rigorosa dei risultati.

La matematica     Nel VI secolo a.C. la scuola di Pitagora di Samo, fiorita a Crotone nella Magna Grecia, a partire dal 531 a.C., sviluppò lo studio della matematica dopo aver scoperto che i rapporti numerici determinano i principali intervalli della scala musicale. Subito Pitagora estese il principio a tutto il reale indagato come se fosse l’aspetto sensibile di un sapere misterioso cui potevano accedere solamente gli iniziati. Tuttavia, la matematica greca non si è sviluppata per due motivi. Il primo è la mancanza di una adeguata notazione dei numeri (come è noto, i Greci usavano al posto delle nostre cifre, le lettere dell’alfabeto con un apice in alto o in basso, un sistema simile a quello latino che non si basa sul principio del valore posizionale dei numeri per cui gli stessi segni, a seconda della posizione, assumono il valore di unità decine, centinaia ecc.). Il secondo motivo del mancato sviluppo della matematica greca fu la scoperta dell’incommensurabilità del lato con la diagonale di un quadrato. Dall’insuccesso dell’aritmetica scaturì il successo della geometria. Infatti, il problema di trovare la lunghezza del lato di un quadrato di area doppia rispetto a un altro quadrato (è la diagonale di quest’ultimo) risulta facile per via geometrica, impossibile (allora) per via aritmetica.

La geometria     I Greci svilupparono la geometria perché essa risolveva in modo rigoroso molti problemi matematici (i Greci applicavano la geometria all’algebra, risolvendo problemi algebrici con metodi geometrici), e poi perché permetteva di fare ragionamenti rigorosi, comprendenti la tesi da dimostrare e l’ipotesi di partenza. Verso l’anno 300 a.C. la geometria ricevete la sua definitiva sistemazione con Euclide di Alessandria la cui opera Elementi si sviluppa in 13 libri (I-VI geometria piana; VII-IX teoria dei numeri; X numeri irrazionali; XI-XIII geometria dei solidi). Quest’opera sostituì i lavori dei predecessori e spesso fu commentata da altri matematici (Erone, Pappo, Simplicio, Proclo). Apollonio di Perge in Panfilia studiò ad Alessandria e scrisse un trattato sulle Coniche, le curve che si ottengono sezionando con un piano un doppio cono obliquo (parabola, iperbole, ellissi). Archimede di Siracusa (287-212 a.C.) è probabilmente il più geniale matematico e fisico greco, inventore di macchine meravigliose usate contro i Romani durante l’assedio della sua città, di cui fu la vittima più illustre. Archimede impiegò una libertà di ricerca straordinaria per trovare le soluzioni dei problemi che gli furono sottoposti riuscendo a scavalcare il problema degli infinitesimali, il vero e proprio limite di tutto il pensiero matematico fino al secolo XVII della nostra era.

L’Accademia di Platone     Nella scuola di Platone la geometri venne ampiamente coltivata e gli ignoranti  di geometria non vennero ammessi nella cerchia dei discepoli di Platone. Eudosso di Cnido (392-340 a.C.), oltre ad aver scoperto la teoria generale della proporzione, applicabile alle grandezze commensurabili e incommensurabili, fu famoso per aver sviluppato il processo di approssimazione al limite, dimostrando che un cono o una piramide equivalgono a un terzo di cilindro o del prisma aventi la stessa base e altezza. Ma Eudosso fu fecondo anche come astronomo dove fu il primo a costruire un sistema matematico per spiegare il moto apparente dei corpi celesti, quello delle sfere omocentriche, che ebbe enorme successo anche se rivela quanto fosse scadente il livello delle osservazioni astronomiche dirette, ossia la compilazione di vere e proprie tavole astronomiche contenenti dati obiettivi, frutto dell’osservazione di molti anni. Anche per quanto riguarda l’astronomia il pregiudizio greco nei confronti delle minute osservazioni, a favore di teorie “eleganti” e astratte, mise su una strada sbagliata l’intera umanità fino al XVI secolo, nonostante che Filolao e Aristarco avessero intuito il sistema eliocentrico.

Il Liceo di Aristotele     La scuola di Aristotele fu molto più attenta rispetto a quella di Platone, allo studio delle scienze naturali. Mentre Platone era rivolto alla contemplazione del mondo delle idee e degli archetipi, Aristotele suggeriva di esaminare con i cinque sensi tutto ciò che cadesse sotto il loro dominio. Le opere di Aristotele dedicate ai pesci, agli insetti, agli uccelli ne fanno il fondatore di ittiologia, entomologia, ornitologia. Le osservazioni circa la vita delle seppie e sul ciclo della zanzara o sugli occhi della civetta sono state compiute dal vero. Molte affermazioni circa il corpo umano rivelano che egli non ha praticato la dissezione e perciò non ha compreso molte funzioni fisiologiche. Aristotele ha compiuto in molti casi osservazioni definitive per esempio quando osserva che gli ibridi (gli animali nati da genitori di specie diverse, per esempio cavallo e asina che generano il mulo) sono generalmente sterili; ma da un’altra parte non sapeva risolvere il problema del sesso delle api perché la natura, diceva, non dota mai le femmine di un’arma di offesa, mentre tutte le api hanno il pungiglione; ma le api non sono nemmeno maschi perché questi non lavorano per la propria famiglia, come fanno le api. Al termine di questo ragionamento, piuttosto fiacco, Aristotele aggiunge: “Se mai si giungerà a completa conoscenza del comportamento delle api, allora si dovrà dare maggiore credito all’osservazione che alle teorie, e fidarsi delle teorie solo nel caso che trovino una conferma nei dati forniti dall’osservazione”: basterebbe questa frase per tacitare coloro che liquidano con sufficienza il pensiero scientifico greco. Esso non ha avuto adeguato sviluppo per molti motivi, il primo dei quali fu la scarsa attitudine sperimentale dei Greci unita al disprezzo per la tecnologia, ossia l’utilizzazione pratica delle scienze per costruire congegni o macchine che a loro volta permettessero altre osservazioni e il risparmio di fatica umana.