Storia greca – Cap. IX

Alberto Torresani

Storia greca

CAP. 9 – LA POTENZA DELLA MACEDONIA

 

Con la morte di Epaminonda, di fatto fu posto termine alla possibilità di unificazione politica della Grecia. Il fallimento in successione di tre tentativi di egemonia lasciò la Grecia aperta alla conquista da parte dei barbari. A metà del IV secolo a.C. l’Impero persiano appariva ancora una realtà temibile e incombente e pochi avrebbero dato credito alla Macedonia, piccola e montuosa, solamente in parte aperta all’influsso culturale greco. Eppure, furono precisamente i sovrani della dinastia Argeade, Filippo II e Alessandro Magno, coloro che ereditarono il grande compito, non assolto da Atene, di sconfiggere la Persia e di estendere su tutto l’oriente la cultura greca. Il vero e proprio creatore della potenza macedone fu Filippo che, mediante l’adozione e il perfezionamento  della nuova tattica di combattimento elaborata da Pelopida ed Epaminonda, dapprima impose la propria egemonia sulla Grecia e poi iniziò a meditare sulla grande spedizione in oriente, considerata una valvola di sfogo delle esuberanti energie della Macedonia e della Grecia.

     Di Filippo ci resta un ritratto laudatorio, opera di Isocrate, oratore ateniese aderente al partito filo macedone. Eccolo: “Io sono convinto che nessun altro potrebbe conciliare queste città, ma per te un tale compito non è affatto arduo. Poiché vedo che tu hai compiuto gesta che ad altri potevano parere insuperabili e incredibili, per la qualcosa non ci si deve stupire che solo tu possa risolvere questa contesa. Gli eroi magnanimi e superiori devono, in verità, porre mano a imprese non accessibili a chiunque, ma a quelle sole che nessun altro sarebbe in grado di compiere, tranne chi abbia a te pari l’animo e la potenza”. Filippo fu ucciso, ma i suoi progetti furono ripresi dal giovanissimo figlio che attraversò come una meteora la storia del mondo antico operando l’impresa ritenuta più meritoria dai Greci, la vendetta dell’offesa arrecata dai Persiani agli dèi della Grecia i cui templi erano stati distrutti. La conquista dell’Asia Minore, della Fenicia e Palestina, dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India fino all’Indo divenne oggetto di numerosi racconti che descrivevano il fantastico viaggio di Alessandro Magno fino ai confini del mondo, dilatato e unificato come mai in precedenza. Ne abbiamo un esempio in Plutarco quando racconta di Alessandro giunto alle rive del Gange: “La battaglia vinta non senza gravi contrasti, aveva affievolito il coraggio dei Macedoni, disamorandoli della conquista della rimanente India. Così essi si opposero con tutte le loro forze ad Alessandro, che li eccitava a passare il Gange la cui larghezza era di trentadue stadi e aveva una profondità di cinquanta braccia. Ancora, si affermava che la riva opposta era difesa da un numero infinito di milizie e da vari battaglioni di elefanti. Nessuno potrebbe descrivere la disperazione di Alessandro di fronte a simile rifiuto. Si chiuse nella sua tenda dove stette coricato per tre giorni sulla terra”. L’improvvisa morte di Alessandro Magno ancor giovanissimo, aggiunse un alone epico al condottiero, dando luogo a uno specifico genere letterario che in un certo senso non è più terminato.

9.1                                          LA MACEDONIA

 

La Macedonia antica si estendeva lungo la valle dell’Axios (Vardar), molto ricca di boschi e di pascoli, ritenuta adatta all’allevamento di cavalli. L’organizzazione per città non era ancora attuata perché la popolazione viveva in villaggi rurali privi di fortificazioni.

Origine etnica dei Macedoni     Anche i Macedoni risultarono dalla fusione e sovrapposizione di molte stirpi diverse e non bisogna dare troppo credito agli autori antichi  quando asseriscono una totale diversità dei Macedoni dai Greci. In realtà, molti dei più antichi flussi migratori giunti fino in Grecia provenivano proprio dalla Macedonia. Era un popolo di allevatori di cavalli e di agricoltori che periodicamente aveva eccedenze di popolazione in cerca di nuove terre: se opportunamente inquadrata da un fattore unificante come può essere una dinastia locale largamente riconosciuta, un popolo siffatto può dar vita all’unità statale che si fonda su una burocrazia e un esercito centralizzati. Questa funzione fu svolta dalla dinastia degli Argeadi che possedevano le miniere d’oro della regione.

Un regime politico arcaico     Il quadro politico operante in Macedonia ancora nel IV secolo a.C. era molto simile a quello dei Germani descritto da Tacito nel II secolo d.C., ossia il potere era tenuto dall’assemblea degli uomini d’arme, coloro che hanno la possibilità di assicurare alla comunità la sua difesa. Tale assemblea non era molto estesa perché includeva solamente coloro che possedevano un cavallo e l’armatura, potendo far coltivare i loro campi dai dipendenti, quando erano impegnati in guerra. Non è esatto chiamare costoro col termine “aristocratici”: i Macedoni usavano il termine “eteri”, ovvero amici (tra loro e amici del capo). L’assemblea degli eteri esprimeva il capo perché un esercito non funziona senza un comandante, da intendersi come il primo tra pari. In Macedonia, il capo impiegava il titolo di basileus che non si può tradurre con “re” senza spiegare che tale titolo si rifà a una tradizione antichissima, preomerica, forse micenea: il re non impersonava lo Stato, bensì assolveva alle funzione di comandante scelto in un’assemblea di uomini che hanno la responsabilità militare nei confronti del proprio popolo. Detto in altri termini, il basileus macedone non si identificava con lo Stato e non era un sovrano assoluto. Risulta importante questa osservazione perché, quando Alessandro Magno accetterà di venir considerato faraone d’Egitto e re di Babilonia, accetterà un’implicita divinizzazione e l’assunzione di un potere assoluto del tutto estraneo agli ordinamenti della Macedonia e anche della Grecia, provocando la reazione degli eteri, con la successiva separazione di Grecia e Macedonia da una parte, di Siria, Egitto, Asia Minore dall’altra. Quando in seguito si dirà Filippo o Alessandro Magno re dei Macedoni, si deve sempre intendere il termine “re” nel senso di comandante militare dei Macedoni.

La dinastia degli Argeadi     In Macedonia, fin dal 700 a.C. si trova al potere la dinastia degli Argeadi. Essa crebbe di importanza durante le guerre persiane, durante il regno di Alessandro I, soprannominato Filelleno: pur costretto a parteggiare per la Persia, fornì importanti informazioni che portarono alla sconfitta dei Persiani a Platea. Ma fu proprio quell’evento a creare la dura contrapposizione fra i Greci con la loro flotta da una parte e l’Asia persiana dall’altra, impedendo ogni iniziativa politica della Macedonia, in primo luogo perché i Greci, occupando tutti i porti e le città della Macedonia, impedirono l’accesso al commercio. Tucidide (II, 95 e segg.) riferisce che Sitalce, re dei Traci, condusse una spedizione contro i Macedoni i quali, essendo troppo pochi per resistere, dovettero rifugiarsi in luoghi impervi. In seguito, essendo divenuto re dei Macedoni Archelao (413-399 a.C.), mentre i Greci si indebolivano nel corso della guerra del Peloponneso, quel re ampliò le sue funzioni di capo, prese l’iniziativa di costruire strade e città,  formò un esercito permanente addestrato alla greca e introdusse la cultura greca, almeno a corte. Archelao compì anche il trasferimento della capitale da Ege a Pella, una città nuova posta in pianura, abbastanza lontana dal mare per non dover temere sbarchi e incursioni della flotta greca. Tutte queste decisioni furono rese possibili dal possesso delle miniere d’argento del Pangeo e dell’oro fluviale raccolto lungo il fiume Strimone: solamente per quel motivo Archelao poteva armare truppe a proprie spese, investire denaro in opere pubbliche, chiamare artisti greci alla corte del suo palazzo di Pella. Archelao, tuttavia, fu ucciso nel 399 a.C. e le contese dinastiche paralizzarono a lungo la potenza della Macedonia. Infatti, i figli di Archelao, Oreste e Aminta II, lottarono a lungo tra loro: finì per prevalere il secondo, ma a prezzo di subire la supremazia della lega di Olinto e di divenire tributario degli Illiri. Aminta II dovette abbandonare anche la capitale, Pella, ceduta alla lega di Olinto finché gli Spartani non la restituirono al debole principe. Il successore, Aminta III, dovette sposare l’illira Euridice, ancora un segno del predominio di quella popolazione in Macedonia. Il figlio di costoro, Alessandro II, schierò le forze macedoni contro Giasone tiranno di Fere, tagos della Tessaglia. Alessandro II non poté allargare la sua azione e conquistare la posizione già tenuta da Archelao a causa dell’impetuosa ascesa di Tebe a potenza egemone della Grecia, tanto forte da obbligare la Macedonia a consegnare come ostaggio Filippo, fratello del re. Un colpo di Stato tolse di mezzo Alessandro II e la reggenza passò a un altro fratello del re, Perdicca (364-359 a.C.) che condusse una difficile campagna militare contro i Dardani, i fieri abitanti delle montagne a ovest della Macedonia. Nel 359 a.C., morto Pedicca, assunse la reggenza il fratello Filippo.

 

9.2                                         FILIPPO DI MACEDONIA

 

Filippo era ancora molto giovane, ma già presentava singolari capacità militari e attitudini di governo. I contemporanei lo paragonavano alla volpe perché era scaltro, privo di scrupoli, pronto a cogliere le opportunità che si offrivano alla sua azione. Come accennato, visse da ostaggio a Tebe negli anni più fulgidi di quella città, imparando a conoscere da vicino la vita greca, la sua bellezza per alcuni versi, la sua fragilità per altri, ma soprattutto apprese le nuove tecniche di combattimento e di impiego tattico della fanteria. Filippo colse il momento unico della storia greca in cui si faceva strada l’idea che la Grecia avrebbe potuto abbandonare i progetti di unificazione perché i Greci d’occidente (Siracusa) si trovano in crisi e l’Impero persiano mostrava segni di crescente involuzione.

Eteri e pezeteri     La prima riforma di Filippo, dopo aver ottenuto la reggenza, fu il nuovo addestramento impartito alla cavalleria degli eteri (compagni) i maggiorenti macedoni che fino a quel momento avevano combattuto con coraggio, ma con eccessivo individualismo: li addestrò al combattimento in ordine chiuso. Gli eteri, verso il 340 a.C. erano circa ottocento e avevano ottenuto vasti appezzamenti di terreno nelle zone di nuova conquista. Per la difesa della propria persona Filippo istituì anche il corpo dei pezeteri, ossia fanti armati di un leggero scudo (pelta) e di una lunga lancia (sarissa). Gli eteri venivano collocati nell’ala destra dello schieramento in battaglia, mentre i pezeteri formavano la famosa falange difensiva contro gli attacchi della cavalleria nemica. Filippo, con l’introduzione della lunga sarissa, divenuta l’arma nazionale macedone, fu in grado di schierare la sua fanteria fin su sedici linee di profondità- Gli uomini delle prime tre, tenendo la lancia a varia distanza dalla punta potevano colpire i nemici nel corpo a corpo. Con un impiego variato di questo schema, Filippo era riuscito a migliorare la capacità d’urto della fanteria in combattimento, dandole mobilità, mentre con gli schemi di Epaminonda il combattimento di fanteria conservava ancora l’aspetto arcaico di scontro frontale rigido.

La tattica politica di Filippo     Per espandere la potenza macedone Filippo doveva affermare la sua egemonia sui confinanti e aprirsi un accesso al mare ai danni delle colonie greche della Tracia da attirare a sé con le buone o da sottomettere con la forza. L’operazione più famosa di Filippo, che rivela i suoi metodi di governo, fu la presa di Anfipoli. La città, perduta dagli Ateniesi fin dal 424 a.C. e rimasta la loro massima aspirazione, fu assediata da Filippo che convinse gli Ateniesi a non intervenire perché gliela avrebbe restituita; dopo che l’ebbe espugnata si guardò bene dal mantenere la promessa. Divenuto apertamente ostile ad Atene, attaccò anche Pidna e Potidea,  città quest’ultima ceduta in seguito alla confederazione di Olinto. L’obiettivo seguente fu Crenide, importante per le miniere d’oro ivi esistenti: in seguito la città cambiò di nome e si chiamò Filippi. Con l’oro della Tracia, Filippo risolse tutti i suoi problemi, perché poté far costruire la flotta ed emettere una buona moneta, lo statere d’oro, che ad Atene veniva scambiato con venti dracme d’argento (357 a.C.).

La guerra sociale     Mentre Atene assisteva sempre più preoccupata alla crescita della potenza macedone, essa fu indebolita dalla ribellione delle principali città alleate della Lega navale, ossia Bisanzio, Chio, Rodi, Cos aizzate da Mausolo satrapo di Caria. L’ateniese Cabria attaccò Chio, ma rimase sconfitto e ucciso. I ribelli attaccarono Imbro, Samo, Lemno, obbligando Atene a inviare i migliori generali con sessanta triremi. Le spese furono così elevate da provocare il crollo delle finanze ateniesi, cui seguì la ribellione dei suoi mercenari e la dichiarazione di indipendenza delle isole e città ribelli, mai più riconquistate (355 a.C.) Ad Atene rimasero legate quarantacinque città, ma la sua potenza era stata ridimensionata.

L’anfizionia di Delfi     Nel 373 era crollato per terremoto il tempio panellenico di Delfi: tutti i Greci si impegnarono a offrire una cifra proporzionale alle loro entrate per ricostruire l’edificio, ma i pagamenti avvennero con lentezza e in misura insufficiente per completare l’opera. Tebe aveva la maggioranza in seno al consiglio dell’anfizionia, composto di ventiquattro membri: sperando che Delfi potesse riedificare il tempio coi suoi mezzi, i Tebani impiegarono, per combattere i Focesi, che avevano coltivato illegalmente le terre sacre del tempio, i denari conferiti dai Greci. I Focesi, sotto la guida di Filomelo e Onomarco, si difesero e il secondo non esitò a impiegare il tesoro del tempio per arruolare mercenari. Gli Alevadi, tiranni di Larissa in Tessaglia, per opporsi al tiranno di Fere alleato dei Focesi, chiesero aiuto a Filippo che attaccò Onomarco, lo sconfisse e l’uccise, inseguendo il suo esercito fino alle Termopili (352 a.C.): qui giunto dovette fermarsi perché gli Ateniesi avevano inviato il loro esercito a difesa del passo.

Olinto     Mentre tornava dalla Tessaglia, Filippo riuscì a condurre una nuova campagna militare in Tracia che indusse la città di Olinto e la sua lega ad allearsi con Atene, essendo cosa evidente la manovra avvolgente di Filippo che, dopo aver attaccato una alla volta le città greche della costa, ora si sarebbe rivolto contro Olinto stessa. In Atene, dopo le spese causate dalla ribellione di alcune città della Lega terminata con la concessione dell’indipendenza, Eubulo aveva cercato di convincere l’assemblea a scegliere una politica di raccoglimento per non esporsi al tracollo finanziario. Ma in Atene aveva iniziato da poco la sua carriera politica il più grande oratore greco, Demostene, nato intorno al 384 a.C. e già famoso intorno al 354. Nel 349 Filippo II ritenne giunto il momento di attaccare Olinto che prontamente chiese l’intervento di Atene. Demostene aveva già iniziato due anni prima la sua campagna contro Filippo (si tratta delle famose Filippiche, da allora sempre studiate come modello di oratorio politica). Gli aiuti furono inviati a Olinto, ma furono pochi e concessi a spizzico, anche perché Filippo aveva suscitato la ribellione dell’Eubea. Nel 348 a.C. Olinto cadde, proprio quando era stata allestita una grande spedizione ateniese al comando di Carete: quando gli Ateniesi arrivarono sul teatro di guerra, Olinto era stata ridotta a cumuli di macerie e anche le altre città della Calcidica erano cadute in mano di Filippo.

La pace di Filocrate     La costernazione di Atene di fronte al clamoroso fallimento della sua politica, sempre in costante ritardo di fronte alle mosse di Filippo, fu enorme. In un primo momento sembrò prevalere il partito di Demostene che propugnava un’alleanza generale dei Greci contro Filippo; poi prevalse la politica sostenuta da Eubulo, il generale dei Greci opposto a Filippo, il cui portavoce Filocrate propose di intavolare trattative con Filippo. Fu inviata in Macedonia un’ambasceria di cui facevano parte Demostene e il suo avversario Eschine che si erano proposti obiettivi diversi: il primo cercava di ottenere la restituzione di Anfipoli; il secondo l’inclusione dei Focesi ancora in armi nella pacificazione generale. Filippo rifiutò entrambe le proposte. Chiaramente la pace di Filocrate, basata sul mantenimento dello statu quo, non era altro che una tregua accettata da Filippo per avere il tempo di preparare la mossa successiva (346 a.C.).

I giochi pitici del 346 a.C.     L’ultimo comandante dei Focesi, Falaico figlio di Onomarco, fu sconfitto da Filippo ottenendo unicamente di potersi rifugiare nel Peloponneso con ciò che rimaneva del suo esercito. Il consiglio dell’anfizionia di Delfi espulse dal suo ambito i Focesi, accusati di sacrilegio, e assegnò a Filippo i due voti della Focide: il fatto nuovo, inconcepibile nella logica dell’anfizionia, era che i voti di un’etnia venissero assegnati a una persona. Anche Sparta perdette i suoi due voti che furono concessi ad Argo. Filippo, dopo aver occupato ancora una volta il passo delle Termopili, diresse la celebrazione dei giochi pitici nell’autunno del 346 a.C., atteggiandosi a vero e proprio rappresentante della Grecia perché non esisteva un esercito in grado di opporsi al suo.

Reazioni alla pace di Filocrate     Ora, anche i più ingenui potevano rendersi conto che l’acquiescenza dei Greci alla volontà di Filippo era stata un errore politico. Per di più il re macedone  aveva gettato la maschera e, in deroga allo spirito della pace di Filocrate, aveva esteso le sue conquiste in Tracia. Esistono molte fonti storiche relative agli avvenimenti di quegli anni, ma si tratta di fonti che manifestano in modo drammatico le vedute personali dei protagonisti, ossia sono fonti polemiche che enfatizzano gli errori degli avversari anche ricorrendo alla manipolazione dei fatti. La realtà è che i contemporanei non si erano resi conto di un fatto enorme, ossia che il peso politico e militare di tutti i Greci insieme era inferiore a quello macedone, e per di più i Greci erano divisi tra loro.

La Macedonia contro la Persia     L’oro del Pangeo rendeva irresistibile l’influenza di Filippo sulla Grecia. Coloro che furono corrotti da Filippo potevano illudersi che, sotto la sua egemonia, si potesse realizzare quella missione storica, la vendetta dell’Europa sull’Asia, che Atene aveva mancato di attuare. La discussione divenne ancora più radicale quando ci si rese conto che Atene, nel secolo e mezzo trascorso dalle guerre persiane, aveva difeso il regime democratico e con esso la più grande fioritura di cultura e arte. Ora tutto ciò si trovava contrapposto all’assolutismo di Filippo che poteva realizzare la sconfitta della Persia, ma a prezzo della democrazia e dell’autonomia delle singole città greche, la cosa che esse maggiormente apprezzavano. I conservatori scorgevano solamente in un’alleanza con la Macedonia la possibilità di continuare a produrre e commerciare i loro prodotti; i democratici, invece, cercavano nell’assistenza statale il sostentamento e nella partecipazione attiva alla politica la ragione di vita. Il partito democratico esigeva la revisione della pace di Filocrate che, così com’era, aveva permesso a Filippo di estendere il suo potere. La lotta tra una monarchia militare, dotata di unità di comando e di illimitate possibilità finanziarie, e una serie di città autonome che discutevano in assemblea pubblica anche quegli aspetti operativi che, per risultare utili, sarebbero dovuti rimanere segreti, volgeva a tutto vantaggio della Macedonia.

Verso la guerra     Filippo temporeggiava, conducendo campagne di alleggerimento verso il confine con gli Illiri, a ovest della Macedonia e coi Dardani a est. Inoltre si alleò con Argo, Megalopoli e Messene per impedire che si alleassero con Sparta o Atene (344 a.C.). La Tessaglia fu trasformata in provincia della Macedonia. Come già si è detto, il possesso del Chersoneso tracico era vitale per Atene perché attraverso l’Ellesponto passava il frumento che la sfamava. Un conflitto locale sorto tra il comandante ateniese della regione e l’esercito macedone indusse Filippo, chiaramente alla ricerca di un pretesto, a chiedere ampie soddisfazioni che Demostene fece rifiutare dall’assemblea popolare di Atene. Demostene, che era riuscito a guadagnare l’alleanza di Corinto, di Messene, dell’Arcadia, di Argo, dell’Acaia e di Bisanzio, ritenne giunto il momento di attaccare l’Eubea e di dichiarare guerra alla Macedonia (340 a.C.). Filippo tentò l’assedio di Bisanzio ma dovette ritirarsi di fronte alla resistenza compatta dei Greci (339 a.C.).

La battaglia di Cheronea     Filippo fu aiutato ancora una volta da un intervento del consiglio dell’anfizionia di Delfi che accusò Atene di sacrilegio. Eschine difese Atene ottenendo che l’accusa venisse ritirata, proponendo a sua volta l’attacco contro la città di Anfissa, rea d’aver coltivato terre sacre del tempio di Delfi. Quando il comando della spedizione fu affidato a Filippo, i Greci intuirono il vero scopo della mossa. Subito Ateniesi e Tebani si allearono, mentre Filippo cercava alleati mediante concessioni ai Focesi. Le forze greche cercarono di impedire a Filippo l’ingresso in Beozia e a Cheronea dettero battaglia, ma risultarono nettamente perdenti (agosto 338 a.C.): a capo della cavalleria tessalo-macedone c’era Alessandro, figlio di Filippo. Con la vittoria di Cheronea la Grecia perdette la sua indipendenza. Tebe fu la vittima immolata a questa guerra perché si trovava sulla strada di collegamento tra Macedonia e Grecia centrale e la sua rocca Cadmea appariva troppo importante per lasciarla senza un presidio di truppe macedoni. Atene fu costretta a sciogliere la Lega navale e conservò solamente le isole di Lemno, Sciro, Imbro e Samo. Il Chersoneso tracico rimase alla Macedonia che perciò poteva condizionare i viveri  di Atene. Sparta rifiutò ogni sottomissione alla Macedonia, ma perdette una parte del suo territorio e rimase isolata, poco influente sugli avvenimenti successivi.

Filippo egemone della Grecia     La vittoria di Cheronea, in un certo senso, pone termine alla storia greca vera e propria. Filippo comprese di doversi mettere a capo della lotta contro l’Impero persiano perché questo compito era l’unica capace di far accettare ai Greci l’egemonia macedone su di loro. Per di più la principale attività di lavoro per molti greci era il servizio militare come mercenari e l’oro della Macedonia con la prospettiva del bottino persiano consigliarono ai Greci riuniti nel congresso panellenico di Corinto di proclamare la loro confederazione generale sotto la guida di Filippo che ricevette il titolo di egemone.

Morte di Filippo II     In Persia, il re Artaserse III Ochos era stato ucciso dal suo ministro Bagoa e gli era succeduto Dario III Codomano (338 a.C.) appartenente a un ramo collaterale degli Achemenidi. Prima di partire per l’Asia, Filippo II dovette regolare le questioni famigliari. Infatti, aveva divorziato da Olimpia, madre di Alessandro Magno che era epirota, sostituita da una figlia di Attalo, un generale di Filippo che operava in Asia: forse questo matrimonio con una donna macedone era più gradito all’esercito. Durante un banchetto, Filippo fu ucciso da un macedone (336 a.C.).

 

9.3                                     ALESSANDRO MAGNO

 

In un regno recente, retto da una oligarchia che accettava la dinastia degli Argeadi unicamente perché era la proprietaria delle miniere d’oro, la morte di Filippo II poteva produrre la paralisi dei progetti orientali. Ma Filippo II fu sostituito dal giovanissimo figlio Alessandro, che subito si sbarazzò di un fratellastro, si fece confermare i poteri concessi al padre dall’anfizionia di Delfi e infine richiese alla confederazione di Corinto il titolo di egemone, iniziando immediatamente la guerra contro la Persia.

Sbarco in Asia     Prima della partenza, Alessandro condusse una campagna contro i turbolenti vicini Illiri e Traci. In Grecia si sparse la voce della sua morte in combattimento e a Tebe iniziò la rivolta (335 a.C.). Alessandro accorse a Tebe, l’espugnò impiegando nuove macchine d’assedio, la fece radere al suolo e gli abitanti furono venduti come schiavi. Sembra che sia stata rispettata solamente la casa di Pindaro, un gesto apprezzato dai Greci che conoscevano la cultura di Alessandro, già allievo di Aristotele. Nella primavera del 334 a.C. Alessandro sbarcò in Asia Minore con circa 30.000 soldati e 5.000 cavalieri traghettati da 160 triremi. Non era un grande esercito, ma la Persia era guidata da un governo debole che non seppe impedire lo sbarco perché non aveva allestito una flotta adeguata. L’Impero persiano appariva antiquato, diviso da rivalità tra satrapi, ciascuno dei quali cercava di provvedere a se stesso, senza un programma militare adeguato quando non poteva contare sui mercenari greci. L’esercito persiano somigliava a una variopinta accozzaglia di contingenti militari provenienti dalle varie satrapie, ciascuna delle quali intendeva combattere secondo metodi tradizionali e con armamenti inadeguati.

La battaglia del Granico     Il primo scontro avvenne nella Troade, difesa da Memnone di Rodi al servizio della Persia, lungo il fiume Granico. Fu uno scontro di cavalleria, vinto da Alessandro che si trovò aperta la via per liberare le città greche della Ionia: solamente Mileto e Alicarnasso resistettero all’assedio per alcuni mesi, difese da mercenari greci. Risultando troppo costoso il mantenimento della flotta, Alessandro la rimandò in Grecia, anche per togliere ai soldati l’illusione del ritorno in caso di sconfitta. Parmenione, il più anziano e sperimentato generale di Alessandro, fu mandato in Frigia, mentre Alessandro entrava in Licia e Panfilia per congiungersi con le truppe di Parmenione a Gordio, un importante nodo stradale che isolava di fatto tutta la parte occidentale dell’Asia Minore. Memnone resisteva ancora ad Alicarnasso: il possesso di una flotta gli dette l’illusione di riuscire a tornare in Grecia per sollevarla, ma la morte lo colse nel corso dell’assedio di Mitilene.

La battaglia di Isso     Alessandro avanzò in Cilicia fino al mare: ad Isso trovò l’esercito persiano che faceva la guardia alla porta di accesso alla Siria, alla Palestina, alla Fenicia e all’Egitto. Era di vitale importanza per Dario III conservare quell’importante nodo stradale: la sua presenza sul campo di battaglia al centro di un grande accampamento indicava da sola il fatto che a Isso si giocava la sopravvivenza della parte occidentale dell’Impero persiano. La battaglia risultò confusa anche per l’eccessiva estensione del fronte di combattimento. La fuga del re che combatteva su un antiquato carro da combattimento i cui cavalli furono spaventati dalla ressa, tramutò la battaglia di Isso in una disfatta persiana: fu catturata quasi al completo la famiglia di Dario III insieme col tesoro (fine 333 a.C.).

L’assedio di Tiro     Alessandro non poté porsi subito all’inseguimento di Dario III perché Tiro, la grande città fenicia costruita su un’isola fortificata molto vicina alla terraferma gli impediva di proseguire. Oltre che sulla cavalleria macedone, Alessandro poteva contare sull’aiuto che gli fornivano le nuove macchine d’assedio che avevano dato buona prova di sé durane l’assedio di Tebe, di Mileto, di Alicarnasso. Si trattava di torri di legno ricoperte di pelli non conciate che permettevano ai combattenti di portarsi all’altezza delle mura avversarie. Accanto alle torri esistevano arieti ossia travi oscillanti con la testa coronata di ferro. Gli uomini posti all’interno di una galleria di legno facevano oscillare l’ariete sui suoi sostegni  per sfondare porte e muri. Infine esistevano le macchine da lancio, essenzialmente catapulte per scagliare massi del peso fino a 25 chilogrammi alla distanza di alcune centinaia di metri. Alessandro ordinò all’architetto tessalo Diade, direttore dei servizi tecnici dell’armata, di costruire un molo per congiungere la terraferma con l’isola su cui sorgeva Tiro. I difensori riuscirono per qualche tempo a rendere difficile il lavoro dei soldati macedoni, ma alla fine sul nuovo molo venne portata una torre di circa cinquanta metri che riusciva a sovrastare i difensori. La battaglia intorno a Tiro, difesa accanitamente dai suoi abitanti che avevano costruito macchine simili a quelle macedoni, durò sette mesi. La caduta di Tiro, avvenuta nell’estate del 332 a.C. fu molto importante per Alessandro  e anche per i Greci perché Tiro era la madrepatria di Cartagine e la sua caduta significava la fine della più grande potenza navale del Mediterraneo in grado di competere con i Greci. Anche se la caduta di Tiro non era dovuto a uno scontro diretto tra Dario e Alessandro, il prestigio del primo risultava gravemente compromesso e l’Impero persiano veniva estromesso dalle coste del Mediterraneo e dalla possibilità di mantenervi una flotta capace di colpire alle spalle Alessandro e di far sollevare i Greci.

Alessandro occupa l’Egitto     Alessandro, dopo aver ricevuto una delegazione di quindici ambasciatori inviati dalla confederazione di Corinto per donargli una corona d’oro decretatagli dal consiglio federale impressionato dai suoi successi, si diresse verso Gaza nel 332 a.C. presidiata da un forte contingente di Persiani. Per Gaza passa l’unica strada che conduce in Egitto per via di terra. L’assedio di Gaza richiese due mesi in capo ai quali l’esercito macedone poté penetrare in Egitto senza incontrare resistenza. Il dominio persiano in quella regione era sempre risultato precario anche perché la religione egiziana ai dominatori appariva aberrante. Al contrario, Alessandro seppe legare a sé l’aristocrazia sacerdotale del Delta e di Menfi da cui fu incoronato faraone dell’Alto e del Basso Egitto. Alessandro intuì le mirabili potenzialità economiche dell’Egitto qualora i suoi prodotti fossero immessi nella circolazione mediterranea. I Greci erano stati presenti in Egitto, a Naucrati, da oltre due secoli, ma fino a quel momento l’Egitto non aveva avuto una grande flotta perché Tiro l’aveva impedito. La costruzione di una grande città con un ampio porto, chiamata Alessandria, è l’operazione più duratura compiuta dal grande conquistatore. I sacerdoti egiziani consigliarono ad Alessandro di compiere un pellegrinaggio nel santuario di Amon nell’oasi di Siva, un avvenimento che colpì l’immaginazione degli storici antichi e moderni soprattutto perché un oracolo del dio Amon lo avrebbe riconosciuto come figlio. Operando in modo sincretistico, Amon venne identificato con Zeus: se Alessandro fosse stato riconosciuto figlio di Amon, in quanto faraone d’Egitto, anche i Greci e i Macedoni avrebbero dovuto riconoscerlo come figlio di Zeus e quindi fondare una monarchia di diritto divino. Questo fatto ripugnava ai Macedoni i quali riconoscevano agli Argeadi solamente il titolo di basileus, ossia di comandante militare a vita. L’attribuzione ad Alessandro di una monarchia di diritto divino era sgradita anche ai Tessali e ai Greci: i primi, infatti, riconoscevano agli Argeadi il titolo di tagos, comandante federale e i secondi solamente quello di egemone, ossia stratego della confederazione di Corinto.

La guerra in Grecia     Verso la primavera del 331 a.C. Alessandro lasciò l’Egitto e tornò a Tiro per reprimere insurrezioni contro i luogotenenti lasciati in Samaria, mentre altri disordini accadevano in Grecia: qui il reggente Antipatro fu affrontato da Agide III di Sparta che con sussidi persiani lo attaccò a Megalopoli, rimanendo sconfitto e ucciso.

Riprende la guerra contro la Persia: Arbela    Nel frattempo Dario III aveva mobilitato le satrapie di Mesopotamia e Persia. La città di Babilonia divenne il centro di mobilitazione e di resistenza della Persia: le cifre fornite dalle fonti antiche sono inservibili e quindi non è facile stabilire quanti fossero i soldati al comando di Dario III. Come luogo della battaglia fu scelta la zona di Arbela, posta sulla grande via Regia che attraversava l’Asia Minore e giungeva fino a Ninive dove incontrava la strada che collegava la Mesopotamia con la Fenicia. Alessandro perciò dovette inoltrarsi in profondità oltre l’Eufrate e il Tigri, in una zona pianeggiante. Tra Alessandro e Dario III intercorsero trattative: forse il re persiano propose al primo la cessione di tutte le satrapie occidentali già conquistate. La soluzione certamente piaceva ai Macedoni che avrebbero ricevuto terre e posti di comando inesauribili, ma non piaceva ai Greci che ormai miravano all’annientamento della potenza persiana, rinnovando l’impresa mitica della distruzione di Troia. Respinte le proposte di pace persiane, i due eserciti si accamparono tra Gaugamela e Arbela. Alessandro comandava l’ala destra con gli eteri e gli ipaspisti, Parmenione l’ala sinistra con i pezeteri. Dario tenne il centro del suo schieramento che, essendo molto lungo, corrispondeva all’ala destra dello schieramento macedone, mentre ai lati del re c’erano i satrapi Mazeo e Besso. I Persiani schierarono anche alcune centinaia di carri falcati che, alla prova dei fatti, furono più di danno che di utilità, perché i Macedoni opposero loro un muro di scudi tenendo puntate le lunghe sarisse che, battute sugli scudi, produssero un tale rumore da atterrire i cavalli che, imbizzarriti, scompigliarono le file persiane. Poi iniziò la grande battaglia di cavalleria che costrinse Alessandro in posizione difensiva: ma proprio in quel momento il Macedone ordinò una carica di alleggerimento dei suoi migliori reparti di cavalleria contro Dario, ancora una volta montato su un carro da guerra invece che a cavallo. Il guidatore del carro regale fu ucciso da un colpo di giavellotto, Dario fu portato in salvo dai suoi cavalieri, inseguito da Alessandro, mentre Parmenione riusciva a sconfiggere Mazeo. Dario III riuscì a sfuggire all’inseguimento di Alessandro che dovette tornare indietro per concludere il combattimento con la cattura di Arbela dove fu trovato un tesoro di almeno  tremila talenti.

Alessandro re di Babilonia     Da Arbela, Alessandro tornò verso il Tigri e poi raggiunse Babilonia. Anche qui Alessandro si conquistò con la sua politica religiosa l’appoggio della popolazione locale e del potente ceto sacerdotale che assegnò al giovane conquistatore il titolo di re di Babilonia e di figlio di Marduk. Detto in altri termini, Alessandro accettava tutte le nuove cariche e le nuove funzioni che gli venivano attribuite in seguito alla conquista come se fosse un re locale, invece di estendere in oriente la concezione del potere propria della Macedonia e della Grecia, completamente ostile alla possibilità di attribuire onori divini a un sovrano vivente: per di più, anche se in Macedonia e a Sparta si usava il titolo di basileus, non si intendeva un re in senso forte, ma solamente di primo tra uguali, vietando qualunque segno esteriore di venerazione come per esempio l’inchino o il bacio lanciato con la mano. Non piccola preoccupazione suscitò nei Macedoni la notizia che la satrapia di Babilonia veniva lasciata a Mazeo.

La distruzione di Persepoli     Dopo aver ricevuto rinforzi dalla Macedonia e dalla Grecia, Alessandro penetrò nella Susiana che il satrapo gli consegnò con un tesoro enorme (cinquantamila talenti), elefanti e cammelli. Dario III era fuggito a Ecbatana tra le montagne della Media. Alessandro preferì dirigersi verso Persepoli (331 a.C.), dopo aver effettuato una grande distribuzione di premi. Nel gennaio 330 a.C. Alessandro entrò in Persepoli, una città meravigliosa dove sorgeva la celebre reggia di cui si possono ancora vedere le colonne e i bassorilievi di splendida fattura. Il tesoro conquistato fu di centoventimila talenti di argento e oro. Qualche mese dopo venne dato l’ordine di incendiare il grande palazzo dei re persiani, una decisione difficile da accettare e da spiegare: forse fu un gesto simbolico volto a distruggere il centro, l’essenza dell’iranismo che Alessandro sostituiva con la propria monarchia e con la cultura ellenica. L’incendio, inoltre, poteva apparire ai Greci come la risposta alla distruzione di Atene coi suoi templi, ossia come il completamento della vendetta.

Morte di Dario III     Alessandro si pose ancora una volta all’inseguimento di Dario III che a Ecbatana aveva radunato un nuovo esercito, fornito in grande misura da Besso, satrapo della Battriana. Dario III lasciò Ecbatana, ma mentre si trovava in cammino fu assassinato per ordine di Besso che si autoproclamò re. La salma di Dario III cadde in mano ad Alessandro che le fece tributare solenni funerali (330 a.C.). Besso non fu riconosciuto re dagli altri satrapi. L’Impero persiano era davvero caduto e Alessandro ne era l’erede, sia pure in una situazione di potenziale conflitto con i Macedoni e con i Greci che non riconoscevano in lui un dio, come erano abituati a fare da sempre gli Asiatici.

 

9.4                                 LA CONQUISTA DELL’ORIENTE

 

Dopo i funerali di Dario III, sepolto coi suoi antenati nelle tombe degli Achemenidi, molti soldati, divenuti ricchi, volentieri sarebbero tornati in patria, considerando finito il loro compito. Alessandro convocò in assemblea i soldati e cercò di allettarli con la prospettiva di occupare la via delle spezie che dall’oriente faceva giungere in occidente ciò che di più prezioso si potesse desiderare.

Tensione tra Alessandro e l’esercito     Molti Greci, tuttavia, furono congedati e tornarono in patria: anche Parmenione venne esonerato dai compiti di vicecomandante, forse un ulteriore indizio dello scollamente tra il condottiero e il suo esercito. Alessandro stava inseguendo Besso che si era ritirato in Battriana come se ne fosse il re legittimo. Durante la marcia, Alessandro ottenne la sottomissione dei satrapi della Tapuria, dell’Ircania e dell’Ariana, mentre incontrò forte opposizione nella satrapia della Mardiana posta a sud del mare d’Ircania (Caspio).

La campagna contro Besso     Dopo aver sottomesso le satrapie sopra indicate, Alessandro si diresse verso la Battriana dove incontrò forte resistenza tanto da essere costretto a mutare cammino dirigendosi verso sud, in direzione della Drangiana fino al lago Zarange. Intanto il conflitto tra Alessandro e la nobiltà macedone diveniva sempre più acuto. Filisto, figlio di Parmenione, uno degli ufficiali di rango più elevato, fu scoperto a complottare contro Alessandro. Dopo un processo celebrato davanti agli eteri, Filisto fu condannato a morte. Anche Parmenione fu considerato colpevole, ma trovandosi molto lontano con importanti incarichi si decise di inviare a gran velocità sicari per raggiungerlo e ucciderlo prima dell’arrivo della notizia della morte del figlio e prima di rischiare la scomparsa del grande tesoro che gli era stato affidato. Alessandro accettò la resa di due grandi satrapie, la Gedrosia e l’Aracosia, dove lasciò presidi militari. Nell’anno 329 a.C. Alessandro attaccò da sua la Battriana, superandola catena del Paropamiso (Hindu Kush). Besso fu catturato e condannato a morte.

Maracanda     Alessandro si diresse più a nord, nella Sogdiana, dove il satrapo stava assediando un presidio di Macedoni nella città di Maracanda (Samarcanda). Distaccò rinforzi mentre continuava a combattere gli Sciti lungo lo Iassarte (Syr Darya): quel distaccamento fu massacrato e la perdita risultò pericolosa perché le truppe di Alessandro si erano assottigliate a causa dei numerosi presidi lasciati nelle località raggiunte fino a quel momento. I Macedoni furono costretti a modificare l’impiego tattico del loro esercito a causa del tipo di guerra imposto dall’ambiente montuoso e dall’impiego prevalente, da parte dei nemici, degli arcieri a cavallo, la tattica impiegata dai Parti ancora tre secoli dopo, che tanto filo da torcere dette anche ai Romani.

Nuova crisi dell’esercito macedone     Nel 328 a.C. ad Alessandro giunsero nuovi rinforzi di truppe mercenarie greche mentre si trovava a Battra, capitale della Battriana e si stava preparando alal campagna verso l’India, avendo come obiettivo il controllo dei passi e delle vie d’acqua della regione. Venne fondata Alessandria Escate che nel nome indicava il limite settentrionale delle conquiste macedoni. In seguito fu assediata Ciropoli dove le catapulte, sconosciute agli indigeni, ebbero grande successo.. Dopo aver pacificato la regione, Alessandro sposò Rossane, figlia di Ossiarte, uno dei capi sconfitti, un altro segno della grande importanza che egli attribuiva alla nobiltà locale per mantenere l’ordine in una regione difficile per qualunque esercito (327 a.C.).

Uccisione di Clito     Un nuovo segno della crisi tra Alessandro e i Macedoni circa gli scopi della guerra che questi non capivano più, fu l’uccisione di Clito il Nero, capo degli eteri, avvenuta durante un grave alterco. Sembra che dopo l’uccisione di Clito, Alessandro abbia mostrato segni di pentimento, un dato che può significare incertezza circa i criteri da seguire per risolvere il contrasto, per così dire, tra Asia ed Europa circa la concezione del potere politico. Tale contrasto si può riassumere nella questione della genuflessione che gli Asiatici tributavano ai loro sovrani, ritenendoli un’incarnazione del dio, aborrita da Greci e Macedoni per i quali il capo militare non era né un re né un dio.. Un nuovo incidente inasprì ulteriormente i rapporti tra Alessandro e i Macedoni. Un gruppo di giovani paggi, i futuri eteri, ordì una congiura in cui era coinvolto anche il filosofo Callistene, nipote di Aristotele. I paggi furono condannati alla lapidazione, mentre Callistene fu imprigionato in attesa di processo (morì sette mesi dopo). Callistene era il cronista ufficiale della spedizione e certamente avrebbe scritto la storia dell’impresa di Alessandro. La fama del conquistatore per un po’ di tempo fu molto bassa e solamente la successiva rivalutazione, operata dalla successiva cultura tolemaica e romana, è riuscita a presentare in modo eroico le imprese del Macedone.

Prosegue la marcia a oriente    Nel 327 a.C. Alessandro riprese la marcia verso oriente, valicando il passo di Khyber per raggiungere l’Indo. Dopo aver conquistato un caposaldo sulla parte alta del fiume, fu costruita una flotta fluviale e iniziò il viaggio verso l’oceano Indiano. Dopo la conquista della città di Taxila, fu affrontato Poro, il più potente re della regione che schierava anche numerosi elefanti contro l’esercito macedone. La battaglia di Idaspe fu ancora una volta vinta dalla cavalleria. In seguito furono fondate due città, Bucefala e Nicea, la prima così chiamata dal famoso cavallo di Alessandro, Bucefalo (Capo di toro), morto nello scontro; l’altro nome significa Vittoria. Con Poro fu stipulato un patto di non aggressione che faceva di costui il satrapo di tutto il bacino dell’Indo, ma in una condizione di reale indipendenza.

Ammutinamento delle truppe macedoni     La situazione stava diventando critica: nel corso di un’assemblea, le truppe si rifiutarono di procedere ancora più a oriente (autunno del 326 a.C.). Si decise di scendere lungo l’Indo fino all’oceano Indiano, sempre combattendo contro popolazioni locali. In uno di questi scontri, Alessandro fu ferito da una freccia al petto. Guarito della ferita, riprese il viaggio verso sud. Nel luglio 325 a.C. fu raggiunto il mare: il comando della flotta fu affidato a Nearco con l’ordine di cercare il passaggio verso il Mediterraneo, oppure imboccare il Golfo Persico per risalire l’Eufrate fino a Babilonia.

Il ritorno a Babilonia     Da Patala sull’Indo, Alessandro si diresse verso ovest attraverso il deserto della Gedrosia dove morirono di stenti moltissimi soldati. La traversata del deserto richiese due mesi. Giunti in Carmania, i rapporti tra Alessandro e l’esercito divennero ancora più tesi, a causa delle immani fatiche sopportate e delle perdite di uomini che si erano registrate a causa dell’improvvisa decisione di attraversare il deserto invece di seguire la strada costiera, più lunga, ma meno pericolosa. Per di più, era morto il migliore generale dell’esercito, Efestione. Da notare che a Susa avvenne un nuovo matrimonio di Alessandro con Statira, figlia di Dario, in occasione del quale diecimila veterani e ottanta ufficiali furono sposati con altrettante donne persiane e babilonesi per affrettare l’unione tra le diverse etnie. Durante l’inverno tra il 324 e il 323 a.C. Alessandro condusse operazioni di scarsa importanza cercando di controllare gli umori della Grecia volgenti al peggio a causa del ritorno di numerosi soldati smobilitati che minacciavano la stabilità politica.

Morte di Alessandro     Nel maggio 323 a.C., mentre Alessandro si trovava a Babilonia giunse Iolla, figlio di Antipatro governatore di Macedonia. Pare certo che costui portasse con sé un potente veleno, forse arsenico, abbondante nelle miniere d’argento della Macedonia. Probabilmente quel veleno fu propinato ad Alessandro dagli eteri che si consideravano traditi dal loro generale, perché aveva conquistato tanti regni col sangue dei Macedoni, ma tentava di governare l’Asia senza di loro.