Libro III Cap. 21 – Il mondo nuovo: Stati Uniti e Giappone (II)

Prof. A. Torresani. 21. 4  Le riforme in Giappone  – 21. 5  L’inizio dell’imperialismo nipponico  – 21. 6 Le mancate riforme in Cina – 21. 7  Cronologia essenziale  – 21. 8  Il documento storico – 21. 9  In biblioteca.

21. 4 Le riforme in Giappone
     Al crescente dinamismo americano si deve la trasformazione del Giappone. Nel 1853 il commodoro Perry, al comando della flotta del Pacifico, si presentò nella rada di Uraga. Sotto la minaccia dei cannoni ottenne di sbarcare e di montare sulla riva un treno in miniatura e altri prodigi della tecnologia occidentale: non potendo far altro le autorità giapponesi accordarono la libertà di commercio in Giappone.
Vengono aperte le frontiere del Giappone Da due secoli i giappo­nesi avevano chiuso le loro frontiere agli occidentali e avevano espulso o mandato a morte i missionari europei. Verso la metà del secolo XIX i numerosi giapponesi e gli innumerevoli cinesi appa­rivano un mercato allettante per l’industria occiden­tale. La società giapponese si trovava  allo sta­dio feudale:  alla base c’erano contadini che coltivavano una terra avara di risorse agricole. Al di sopra c’e­ra la categoria dei samurai e dei guerrieri, formante il ceto no­biliare. Al vertice c’era il potere dello shogun, detenuto da due secoli dalla famiglia Tokugava. Al di sopra di tutti c’era l’imperatore, considerato figlio del sole, tenuto in una specie di isolamento sacro.
La rivoluzione Meiji La rivoluzione giapponese venne attuata in nome dell’imperatore Meiji nel 1868 da un gruppo di samurai di medio calibro, di alcuni ricchi proprietari terrieri e di commercianti: costoro abolirono lo shogunato dei Tokugava nel corso di una breve guerra civile. Edo, la città degli shogun, fu conquistata e ribattezzata Tokio, subito trasformata in capitale di uno Stato accentrato. I grandi signori feudali e i samurai furono impiega­ti come dipendenti statali: per pagare lo stipendio fu istituita nel 1874 una tassa fondiaria che fece pagare ai contadini le spese di industrializzazione del paese.
L’occidentalizzazione del Giappone Ben presto l’Europa e gli USA furono raggiunti da delegazioni giapponesi in vi­sita agli impianti industriali, cantieri, parlamenti, accade­mie militari ecc.  Gli occidentali disarmati dalla cortesia e dai sorrisi dei visitatori esotici furono larghi di informazioni e di consigli. Le delegazioni, una volta tornate in patria, fecero il bilancio delle informazioni ottenute. La marina da guerra fu istituita imitando quella inglese. L’esercito fu costruito sul modello tedesco e così le accademie militari. La banca centrale di emissione della moneta funzionava come quel­la francese. Il governo giapponese accentrò la direzione del commercio estero e con le merci in esportazione ac­quistò i macchinari per l’industria tessile, per i cantieri e le altre industrie meccaniche. Fu formato il personale per avviare le nuove industrie; la burocrazia ricevette regolamenti simi­li a quelli tedeschi. Le fabbriche, dopo alcu­ni anni di funzionamente, furono cedute ai privati, perché così avveniva nei paesi di solida tradizione commerciale e industriale.
Il Parlamento giapponese Ci furono alcune rivolte di contadini e di samurai, ma il governo aveva una polizia efficiente. Il sistema parlamentare era simile a quello tedesco: una Camera alta di nomina imperiale aveva il di­ritto di veto sugli atti del Parlamento; la Camera dei deputati eletta dai pochi aventi diritto di voto non esercitava eccessiva influenza sul governo, responsabile verso l’imperatore. I partiti politici non avevano un reale segui­to tra la popolazione e non dibattevano principi ideali in grado di trascinare le masse.

21. 5 L’inizio dell’imperialismo nipponico
     Lo sviluppo dell’attività industriale preparò una vivace fa­se di politica estera, alla ricerca di materie prime e di mercati di sbocco delle merci prodotte.
I giapponesi in Corea e Manciuria Da secoli la Corea si trovava sotto il controllo cinese, ma i coreani non sono cinesi e perciò l’imperialismo giapponese puntò in quella di­rezione. A nord della Corea c’è la Manciuria, una regione ricca di carbone. Ma in Manciuria stavano arrivando i russi che costruivano la ferrovia transiberiana, e poiché Vladi­vostok, la stazione d’arrivo della transiberiana, si trova sul Mar del Giappone e il porto è prigioniero dei ghiacci per molti mesi all’anno, i russi chiesero e ottennero di costruire in Man­ciuria la Ferrovia orientale cinese con un ramo chiamato Ferrovia mancese meridionale che, passando per Mukden, arrivava a Port Ar­thur, in acque libere dai ghiacci. I giapponesi interpretarono correttamente queste operazioni: un tentativo di egemonia della Russia sulla Cina che avrebbe escluso i giapponesi dal mercato cinese. Perciò essi decisero la guerra preventiva contro la Cina nel 1894. Nel successivo trattato di pace di Shimonose­ki, la Cina dichiarava indipendente la Corea, cedeva al Giappone la sovranità sull’isola di Formosa e sulla penisola di Liaotung con Port Arthur e apriva alcuni porti al commercio. Infi­ne si impegnava a pagare le spese della guerra perduta.
Intervento occidentale I governi occidentali di Francia,  Russia e Germania compresero finalmente il pericolo giapponese: essendo stati toccati i loro interessi, con la minaccia di guerra co­strinsero il Giappone a restituire alla Cina la penisola di Liao­tung e Port Arthur che premeva troppo alla Russia.
La guerra russo-giapponese Silenziosamente, ma con l’alleanza della Gran Bretagna stipulata nel 1902, il Giappone si rimise al lavoro, rafforzò la flotta, armò un esercito e infine attaccò Port Arthur assediando Mukden. La Russia perdette la flotta del Pacifico; la transiberiana si intasò e agli assediati non giunsero i rifornimenti di cui avevano bisogno. Invece di accettare la realtà di fatto, il governo zarista di Nicola II prese una decisione azzardata, quella di inviare in Oriente la flotta del Baltico.
Tsushima L’ammiraglio Rozdenstvenskij, con numerose navi da bat­taglia e di appoggio logistico lasciò il Baltico, passò attraver­so il canale della Manica circondato ovunque dall’ostilità bri­tannica che gli rese difficili i rifornimenti di carbone. Le navi ausilia­rie furono inviate attraverso il Mediterraneo e il canale di Suez, mentre il resto della flotta compì il periplo dell’Africa per non correre il rischio di venir imbottigliata in un mare chiuso. I due tronconi della flotta si riunirono in un porto del Madagascar. Dopo la sosta di un mese la flotta attraversò l’Oceano Indiano, superando senza perdite lo stretto di Malacca. Finalmente giunse nel Mar Cinese meridionale. Mentre cercava di forzare lo stretto tra Corea e Giappone, la flotta russa fu intercettata da quella giapponese comandata dall’am­miraglio Togo: poche navi russe sfuggirono all’affondamento rifu­giandosi a Vladivostok. La battaglia di Tsushima del 1904 siglò la sconfitta russa e provo­cò gravi rivolgimenti interni.
La vittoria giapponese Il significato politico della vittoria giapponese era enorme: un popolo non europeo poteva battere per terra e per mare una grande potenza occidentale. Ciò significava che i tempi della politica delle cannoniere e del colonialismo erano finiti; che qualunque nazione, in grado di impadronirsi della tecnologia europea, poteva divenire una grande potenza.
La sconfitta russa La sconfitta russa in Oriente segnò la fine dell’autocrazia zarista: la sua dirigenza politica si era squalificata. Lenin comprese in pieno le possibilità che si aprivano al suo partito rivoluziona­rio.

21. 6 Le mancate riforme in Cina
       Ancor prima del Giappone le potenze occidentali avevano ob­bligato la Cina a uscire dal suo isolamento. Verso la metà del Settecento i russi arrivarono dalla Siberia e seguendo il corso del fiume Amur, giunsero fino al Mar del Giappone. Negli stessi anni la Gran Bretagna si insediava stabilmente in India, rilevan­do il commercio con l’Estremo Oriente rimasto fin allora in mano di olandesi e portoghesi. 
Pressione commerciale inglese in Cina Terminata l’occupazione della parte costiera dell’India e passata la tempesta dell’età napoleonica, la Gran Bretagna cominciò a premere sulla Cina per aprirla al commercio di molti prodotti, compreso l’oppio, colti­vato nel Bengala e smerciato a Canton. L’oppio non solo inebeti­va la popolazione cinese, ma provocava l’uscita dalla Cina di me­talli preziosi. Si calcola che la quantità di oppio importata dalla Cina fosse,  verso il 1820, di 5000 cassette, giunte nel 1839 a oltre 40.000.
La questione dell’oppio Il governo cinese volle correre ai ripa­ri nominando governatore di Canton un deciso opposi­tore del traffico d’oppio. Costui  giunse a Canton nel marzo 1839. Dopo una settimana ingiunse ai “compradores” (mercanti ci­nesi autorizzati a praticare scambi con gli stranieri) e ai mer­canti stranieri di consegnare l’oppio giacente presso di loro. Poi fece bloccare il quartiere degli stranieri ordinando che nessun cinese prestasse loro alcun servizio. Il console britannico fu costret­to a consegnare l’oppio giacente nei magazzini di Canton: più di 20.000 cassette.
La prima guerra dell’oppio Quando la notizia giunse in Gran Bre­tagna, il governo scelse la politica delle cannoniere, ossia di inviare la flotta esigendo il valore dell’oppio distrutto e le spese per allestire la spedizione con l’impegno del gover­no cinese di non ostacolare in futuro il commercio britanni­co. Quando arrivò in Cina la flotta inglese, i cinesi si accor­sero di non avere armi da opporre alle navi britanniche: a Nanchino, nel 1842, fu firmato il primo dei trattati ine­guali. In base al trattato di Nanchino la Cina si impegnava a ce­dere Hong Kong alla Gran Bretagna; ad aprire Canton e Shangai al commercio britannico; a pagare 21 mi­lioni di dollari di indennizzo; a fissare la tariffa doganale al 5% del valore delle  merci. L’oppio continuò a venire importato.
Le altre potenze in Cina Appariva chiaro che la Cina, dopo aver capitolato di fronte alle cannoniere britanniche, avrebbe fatto i conti con le cannoniere delle altre potenze che si fossero af­frettate a chiedere per il loro commercio clausole analoghe a quelle concesse ai britannici.  La dinastia Manciù pagava caro il suo isolamento dalla politica interna­zionale. Infatti, USA e Francia ottennero nel 1844 condizioni simili a quelle britanniche; la Francia ottenne la revoca delle misure repressive contro i missionari cristiani.
Crisi della Cina L’Occidente importava il te cinese, il rabarba­ro, la seta: la bilancia commerciale sarebbe stata favorevole alla Cina se non fosse stato per l’oppio che ora dilagava. In ogni caso, l’ingresso di merci a buon mercato e di superiore qualità nello sterminato territorio cinese produsse sconvolgimenti nell’artigianato e nell’industria locali: a farne le spese furono i contadini che si videro aumentare le tasse.
Xenofobia delle società segrete Esistevano da tempo in Cina al­cune società segrete a sfondo nazionalista, ostili alla dinastia Manciù. La più potente apparve la Società di Dio, un complesso movimento in parte religioso, in parte sociale perché reclu­tava i suoi adepti tra i contadini disperati delle regioni meri­dionali, in parte nazionalista perché si proponeva la cacciata dei Manciù.
Taiping Il fondatore del movimento Hung-Hsiu-chuan era uno stu­dente bocciato agli esami di  concorso per funzionari dello Sta­to. Co­stui si convinse di essere un uomo inviato da Dio per una grande missione di redenzione del suo popolo. Il concetto dell’univer­sale paternità di Dio produsse l’idea che tutti gli uomini sono uguali e che le ricchezze della terra vanno messe in comu­ne per alleviare la povertà dei più miseri. Nel 1851 il movimen­to divenne aperta ribellione contro il governo di Pechino, adot­tando il nuovo nome di Taiping, che significa “grande pace”.
La ribellione Taiping I ribelli si dettero all’inizio una rigida disciplina, tagliarono il codino dietro la nuca e cessarono di radere la parte anteriore del capo come ordinavano i manciù. Il governo centrale inviò truppe: dopo alcuni scontri i ribelli Taiping si trasferirono nel Hunan. Nel corso di quella marcia l’esercito Taiping si ingrandì a dismisura: fu conquistata la città di Wuchang e poi  Nanchino (1853).
La Russia raggiunge Vladivostok Qui il movimento perdette la spinta iniziale e cominciarono contrasti interni tra i capi. Nel frattempo le potenze occidentali, soprattutto la Gran Bretagna, si chiesero se era opportuno favorire la vittoria Taiping per le affinità religiose con l’Occidente, o se era più conveniente fa­vorire il governo centrale dato l’acceso nazionalismo del Tai­ping.  Mentre la Gran Bretagna assumeva un atteggiamento neutra­le, anche a causa della guerra di Crimea (1854-1856), la Russia assunse un atteggiamento di apparente protezione  del governo Manciù ribadendo il valore del vecchio trattato di Narchinsk che fissava il confine russo-cinese sui monti Stanovoi. Nel 1849 un ufficiale russo aveva scoperto che Sachalin non era una peni­sola saldata al continente a sud della foce dell’Amur, bensì un’isola e che il canale di Tartaria dava accesso al Giappone, alla Corea e alle coste settentrionali della Cina: diventava per­ciò importante il controllo della foce dell’Amur e della regione che si estende tra il fiume Ussuri, affluente della destra dell’Amur, e il Mar del Giappone. Il precedente trattato di Nar­chinsk fu modificato unilateralmente dai russi. Col trattato di Aigun, imposto con la forza delle cannoniere, la re­gione a nord dell’Amur e la regione marittima dell’Ussuri passa­rono sotto controllo russo che fortificò il porto di Vladivostok (1858).
Seconda guerra dell’oppio Nel corso dello stesso anno, nel golfo di Chili, a Tiensin, non lontano da Pechino, la flotta anglo-francese nel corso della cosiddetta seconda guerra dell’op­pio, bombardò alcuni porti, costringendo la Cina ad accettare un nuovo accordo che prevedeva la presenza di un ministro plenipo­tenziario britannico a Pechino; l’apertura di altri dieci porti al commercio britannico; libertà di azione per i missionari; diritto di accesso ai porti anche alle navi da guerra britanniche; pagamento dell’in­dennità di quattro milioni di dollari. I trattati firmati con le altre grandi potenze furono simili a questo. Il governo cinese tuttavia non ratificò l’accordo di Tiensin e si preparò a resi­stere, riportando qualche successo militare. Nel 1860 Gran Bre­tagna e Francia organizzarono una grande spedizione di più di 200 navi: i forti di Taku sulla costa del Chili furono occupati e l’esercito poté sbarcare e iniziare una marcia su Pechino. I cinesi furono costretti ad accettare le condizioni del trattato di Tiensin.
Fine della rivolta Taiping I russi, rincarando la sconfitta ci­nese, resero definitiva la cessione della zona dell’Ussuri, con­fermando i trattati di Aigun e Tiensin. Rimaneva ancora in piedi lo stato ribelle Taiping che aveva la sua capitale a Nanchino. Le potenze occidentali compresero che non era politicamente utile tenere in piedi quella rivolta e perciò aiutarono il governo di Pechino a ristabilire la sovranità sul suo territorio.  Nel 1864 la rivolta dei Taiping fu stroncata e Nanchino riconquistata.
Conflitti nella famiglia imperiale Perfino la famiglia imperiale appariva corrotta e divisa da rivalità. Dopo il 1860 si impose l’imperatrice madre Yehonale che tenne per oltre quarant’anni il potere in qualità di reggente. Col passare del tempo si fece strada l’idea che anche la Cina poteva farsi rispettare se avesse avuto a disposizione armi efficaci come quelle dei ne­mici. Ma per avere un esercito moderno occorrevano fabbriche e tecnici per farle funzionare. Occorrevano genera­li fedeli al regime e istruttori militari da disseminare in un territorio grande quanto l’Europa. In Cina si formarono due par­titi: i progressisti e i conservatori.
Progressisti e conservatori I primi potevano fondarsi sulla le­zione che si doveva ricavare dagli avvenimenti accaduti tra il 1840 e il 1860: o la Cina diveniva forte come le potenze occidentali o sarebbe scomparsa. I conservatori avevano dalla loro parte il peso di una tradizione culturale nettamente ostile a ogni cambiamento, fedele ai classici confuciani, incapace di valutare l’impatto della cultura occidentale sull’impero cinese. Mentre in Giappone negli stessi anni veniva compiuta la rivoluzione Meiji, in Cina prevalse una strenua volontà conservatrice che fece solo alcune concessioni ai sistemi politici occidentali. Così facendo si preparò il terreno a una rivoluzione che mise in pericolo la sopravvivenza dell’unità dello Stato cinese.
Arsenali e fabbriche d’armi La prima concessione, carica di con­seguenze, fu la formazione di numerosi arsenali pieni di armi in ogni regione, con fabbriche per produrle. Poi si comprese la necessità delle ferrovie tra Pechino e le principali città del vasto impero. Tutti quei lavori pubblici alimentarono i peggiori sistemi di clientelismo che non permi­sero l’affermarsi di un’economia capitalista a responsabilità privata perché a capo di quelle imprese c’erano sempre funzionari che accumularono fortune fa­volose.
La Cina perde gli Stati satelliti La seconda concessione riguar­dava gli Stati satelliti. Da secoli la Cina deteneva l’alta so­vranità su alcuni regni abitati da popolazioni non cinesi che versavano tributi per avere protezione dalla grande vicina. Nel giro di vent’anni la Cina perse i suoi protettorati. In primo luogo le Ryu-kyu, una catena di isole che vanno dal Giappo­ne meridionale fino a Formosa: nel 1879 quelle isole, importanti per la pesca, furono occu­pate dal Giappone. Poi fu la volta della regione di Ili nel Tur­chestan, occupata dai russi.  Nel 1876 la Gran Bretagna occupò la Birmania. Nel 1885 la Francia occupò il Viet­nam dopo aver superato la resistenza cinese. Infine fu la volta del regno di Corea, un protettorato importante perché la penisola coreana è vicina al centro dell’impero cinese.  
Il Giappone conquista la Corea Nel 1894 i giapponesi spinsero a fondo il loro impegno in Corea prima che i russi potessero oppor­si al loro attacco. Il governo cinese dichiarò guerra al Giappone il 1° agosto; il 16 settembre i giapponesi erano giunti nei pressi della città di Pyongyang: il giorno seguente la flotta cinese, mentre cercava di sbarcare truppe, fu sconfitta. I giapponesi portarono la guerra in terri­torio cinese assediando Port Arthur, non lasciando alla Cina al­tra possibilità che accettare la pace alle condizioni dettate dal Giappone. Il trattato di Shimonoseki prevedeva il pagamento di una indennità di guerra di 200 milioni di dollari; l’apertura di quattro porti fluviali al commercio internazionale; la cessione al Giappone della Corea, della penisola di Liaotung, della Manciuria meridionale, dell’i­sola di Formosa e delle isole Pescadores.
Le potenze occidentali fermano il Giappone Pochi giorni dopo l’accordo le potenze occidentali, guidate dalla Russia, “consi­gliarono” al Giappone la restituzione della penisola di Liaotung in cambio di altri 30 milioni di dollari: il Giappone comprese di essere troppo debole per opporsi a una coalizione comprendente Russia, Gran Bretagna e Francia.  Anche queste potenze presenta­rono il loro conto spese: la Russia ottenne di costruire l’ultimo tratto della transiberiana in territorio cinese per rifornire più celermente Vladivostok (Ferrovia orientale cinese). Nel 1898 la Russia ricevette in affitto Port Arthur e la baia di Dairen. La Gran Bretagna pretese rettifiche di frontiera lungo la Birmania e altri porti fluviali. Comparve anche la Germania che occupò il porto di Kiaochow col diritto di aprire miniere e costruire ferrovie nella provincia dello Shantung. 
Nuovo trionfo del conservatorismo Era inevitabile un contraccol­po interno. Alcuni intellettuali cinesi soprattutto cantonesi, cercarono di impadronirsi delle idee occidentali traducendo in cinese le opere ritenute più utili alla riscossa della nazione. Nel 1898 tale movimento occidentalizzante, che chiedeva riforme politiche, sembrava sul punto di trionfare. Si pensava a una nuo­va università, alla libertà di stampa, a nuove imprese minerarie e soprattutto alla rimozione della vecchia imperatrice madre Ye­honale che agli occhi dei novatori appariva come il principale ostacolo alla modernizzazione del paese. Essa tuttavia riuscì ad aver ragione degli oppositori: le riforme non furono introdotte, ma così fa­cendo la dinastia Manciù condannò se stessa.
La rivolta dei Boxer Il nuovo secolo si aprì con un pro­blema. In Cina esistevano ancora società segrete tra cui il Loto bianco teneva viva la lotta contro i proprietari agrari e gli stranieri. La setta era diffusa soprattutto nelle regioni set­tentrionali e nello Shantung, prendendo di mira i missionari e i cinesi convertiti. Si distingueva il gruppo dei Boxer che si occultava dietro il pretesto di coltivare le arti marziali. Ben presto le missioni e le loro scuole cominciarono a venir incendiate, preti e monache uccisi, i bambini dispersi.  L’odio contro le missioni si può spiegare col fatto che, dopo la guerra dell’oppio, le mis­sioni erano sostenute dai governi occidentali perché considerate l’avanguardia della penetrazione in Cina. La Chiesa cat­tolica fu la prima a comprendere che occorreva affidare a eccle­siastici cinesi la direzione delle nuove comunità, ma mancò il tempo di formare un adeguato clero indigeno. Le altre confes­sioni cristiane non si erano poste il problema, perché giunte in Cina dopo la guerra dell’oppio con atteggiamento di chiusura nei confronti della cultura cinese.
L’assedio delle legazioni di Pechino Nel giugno 1900 un diploma­tico giapponese e il plenipotenziario tedesco furono assassinati a Pechino, e subito dopo il governo di Yehonale per­mise l’assedio del quartiere delle legazioni straniere, ordinando alle autorità provinciali di accorrere in aiuto degli insorti: ciò equivaleva a una dichiarazione di guerra alle potenze occidentali. Esse reagirono organizzando una spedizione interna­zionale. Nel novembre 1901 fu firmato il più pesante dei trattati ineguali che prevedeva un indennizzo di 450 milioni di dollari, la distruzione delle fortificazioni tra il mare e Pechino e un presidio di truppe internazionali intorno al quartiere delle legazioni.
Verso il conflitto russo-giapponese Poiché i russi avevano occupato tutta la Manciuria e minacciavano il territorio cinese a sud della grande muraglia, Giappone e Gran Bretagna si allearono per premere congiuntamente sulla Russia e obbligarla a ritirarsi. Di fronte al rifiuto russo il Giappone chiese a compenso l’annessione definitiva della Corea. Di fronte a un nuovo rifiuto russo il Giappone reagì con la distruzione della flotta russa del Pacifico cui seguì l’assedio di Port Ar­thur e di Mukden, già esaminati.

21. 7 Cronologia essenziale
1842 Le cannoniere inglesi sconfiggono la Cina nella prima guerra dell’oppio: Hong Kong passa sotto controllo britannico.
1846 Gli USA dichiarano guerra al Messico per ottenere il con­trollo del Texas.
1848 Dopo aver sconfitto il Messico gli USA ottengono il vasto territorio compreso tra il Texas e la California.
1851 Inizia la rivolta in Cina del movimento del Taiping che con­quista Nanchino.
1853 Il commodoro Perry impone con la squadra navale del Pacifico al Giappone l’apertura dei suoi porti al commercio occidentale.
1858 Col trattato di Aigun la Russia ottiene dalla Cina i terri­tori a nord del fiume Amur e la regione Marittima dell’Ussuri. Francia e Gran Bretagna col trattato di Tiensin strappano alla Cina altre concessioni dopo la vittoria nella seconda guerra dell’oppio.
1861 A febbraio gli Stati della Carolina del sud, Alabama, Geor­gia, Florida, Mississippi, Luisiana e Texas proclamano la seces­sione dall’Unione formando gli Stati Confederati d’America.
1863 La vittoria dei nordisti a Gettysburg segna la svolta della guerra a favore dell’Unione.
1865 Con la resa del generale Robert Lee ad Appomattox termina la guerra di secessione.
1868 In Giappone è abolito lo shogunato dei Tokugava dopo una guerra civile condotta in nome dell’imperatore Meiji.
1894 Il Giappone muove guerra alla Cina. La Corea diviene indi­pendente.
1898 Guerra tra USA e Spagna per Cuba e le Filippine.
1905 L’ammiraglio giapponese Togo distrugge la flotta russa del Baltico a Tsushima.

21. 8 Il documento storico
     Nella storia americana la battaglia di Gettysburg assunse il significato di svolta della guerra civile. Il documento che segue riporta il discorso, mirabile nella sua brevità, tenuto dal presidente Lincoln in occasione della consacrazione del cimitero di guerra per i caduti di Getty­sburg.

     “Ottantasette anni or sono, i nostri padri crearono in que­sto continente una nazione nuova, concepita nella libertà e ispi­rata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali.
     Ci troviamo ora impegnati in una grande guerra civile, la quale mette alla prova la possibilità, per quella o per qualunque altra nazione così concepita e così ispirata, di vivere a lungo. Noi ci troviamo riuniti su un grande campo di battaglia di quella guerra. Vi siamo venuti per dedicare alcune zolle di questa terra ad un ultimo asilo di pace, destinato a coloro che in questo luo­go rinunciarono alla vita perché la nazione potesse vivere. Si tratta non solo di un atto di giustizia ma anche di un dovere.
     Ma, in un senso più lato, non siamo noi a dedicare – né po­tremmo consacrare o benedire – questa terra. Gli uomini valorosi, superstiti o caduti, che qui combatterono l’hanno consacrata sen­za che la nostra misera forza potesse minimamente aggiungere o togliere nulla al loro sacrificio. Il mondo si accorgerà appena e si dimenticherà ben presto di quello che andiamo ora dicendo, ma non potrà mai dimenticarsi di quello che essi fecero in questo luogo. A noi, che siamo ancora vivi, incombe piuttosto il dovere di dedicarci, in questo luogo, all’opera rimasta incompiuta fino­ra così nobilmente promossa da coloro che qui combatterono. A noi incombe piuttosto il dovere di dedicarci al grande compito di trarre da questi morti che onoriamo un senso di maggiore dedizio­ne a quella causa per la quale  essi dettero per l’ultima volta la piena misura della loro dedizione, al compito di assumere in questo luogo il solenne impegno di non permettere mai che questi morti siano morti invano, di trasformare nuovamente questa nazio­ne, sotto l’ispirazione del Signore, in una culla di libertà e d’impedire la scomparsa dalla faccia della terra del governo del popolo, per mezzo del popolo e per il popolo”.

Fonte S.E. MORISON- H.S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti d’A­merica, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1974, vol I, pp. 1004-5.

21. 9 In biblioteca
      Per la guerra civile americana si consulti di R. LURAGHI, Storia della guerra civile americana, Einaudi, Torino 1966.
Per la storia generale degli USA rimane fondamentale di S.E. MORISON- H.S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti d’America, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1974.
Interessante il libro di G. BORSA, La nascita del mondo moderno nell’Asia orientale, Rizzoli, Milano 1977, e il lavoro di J. CHESNEAUX, L’Asia orientale nell’età dell’imperialismo. Cina, Giappone, India e sud-est asiatico nei secoli XIX e XX, Einaudi, Torino 1969.
Di notevole interesse un classico della storiografia americana F.J. TURNER, La frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 1975. Come storia generale del Giappone si consulti di J. HALLIDAY, Storia del Giappone con­temporaneo, Einaudi, Torino 1979.
Per la storia del sud americano dopo la guerra si consulti di C. VAN WOODWARD, Le origini del nuovo sud (1877-1913), il Mulino, Bologna 1963.
Per la storia degli indiani d’America si legga di J.G. NEIHARDT, Alce Nero parla, Mondadori, Milano 1973.