Pedro Calungsod, catechista, laico e martire

Quel giovane e intrepido missionario


Card. RICARDO J. VIDAL – Arcivescovo di Cebu


 


La testimonianza dei giovani raramente viene accolta con scetticismo. Le ragioni sono numerose e diverse. Forse è a causa dell’innocenza, di cui la giovinezza rimane un simbolo, anche quando i notiziari raccontano al mondo di quali cose spaventose i giovani sono capaci. Il ricordo dei giovani, quindi, occupa un posto particolare nel cuore della Chiesa. Corre l’anno 1672. Alcuni aggressori uccidono senza pietà un giovane uomo. La causa della sua morte è in odium fidei, ossia in odio alla fede. Da allora sono trascorsi quasi quattro secoli, ma la sua morte non viene dimenticata. Questo dramma, al contrario, è considerato un esempio mentre il mondo varca la soglia del nuovo millennio. Il nome del giovane è Pedro Calungsod.

Pedro è vissuto ed è morto in tempi non molto diversi dai nostri. Il XVII secolo fu caratterizzato dal piacere della vita, così come è espresso nelle opere dei grandi maestri come il Caravaggio, nell’intellettualismo di Francis Bacon, nelle opere letterarie di Lope de Vega, nella ricerca della supremazia tra le nazioni come ai tempi di Luigi XIV e nei sentimenti pii come quelli di John Bunyan. Era però anche un tempo di inutili guerre, come ad esempio quella tra Francia e Olanda. Le forze della vita e della morte crescono l’una accanto all’altra, come insegna la parabola di Gesù sul grano e la zizzania. La tensione era resa ancora più forte dai conflitti di religione, che suscitarono persecuzioni e divisioni. Nel secolo successivo la Chiesa di Dio veniva divisa dalla riforma protestante e dalle controriforme cattoliche.


Come possono la vita e la morte di un giovane diventare importanti di fronte alla complessa realtà dell’epoca? Pedro orientò il corso della sua vita fra forze contrarie che avrebbero reso ogni uomo incerto e insicuro. Come dimostra il suo impegno nel lavoro missionario della Chiesa a Guam, la vita di Pedro era visibilmente costruita sulla roccia, ovvero sul suo impegno per la fede nella vita della Chiesa. Quando incominciarono a levarsi i venti e le acque, la sua vita non fu sfiorata da ansie e paure, nemmeno di fronte alla morte e alla sua crudeltà.


Pedro aveva scoperto un cammino che faceva emergere il vero significato dell’umanità, il suo fine. Nella Chiesa di Dio Pedro aveva svelato il mistero che avvolge le questioni umane. Aveva compreso che la vita era un dono che permetteva a colui che la riceveva di servire il mondo e anche la vita altrui. Pedro riconobbe la possibilità di dedicarsi al servizio quando ricevette la sua chiamata come giovane missionario. Scoprì anche una «presenza» più grande della sua in seno alla Chiesa. Tale consapevolezza lo rese responsabile verso quella «presenza». Non era lui il padrone di se stesso. Imparò a pregare e ad ascoltare per discernere la voce del suo padrone. Preferiva rinunciare alla propria vita piuttosto che negare tale «presenza». Nella Chiesa, inoltre, Pedro trovò un cammino di vita vissuto giorno per giorno, che giunge alla sua piena espressione quando sopravvive alla forza della morte.


La moralità della vita quotidiana rendeva più concreta l’aspirazione alla vita eterna. Per il giovane Pedro il martirio non significava perdere la vita, ma ottenerla. Oggi abbiamo bisogno di una nuova testimonianza. L’anno 2000 e la tensione tra la cultura della vita e quella della morte mostrano che poco è cambiato nell’esistenza degli uomini e delle donne. La tecnologia e la scienza sono progredite rendendo più comoda la vita di questo millennio, ma il progresso non cambia la qualità dell’esistenza. La testimonianza di Pedro è giunta fino ai nostri giorni e perdurerà fino a quando l’umanità ascolterà la vita e il messaggio di questo protomartire delle Visayas. Non è passato molto tempo da quando la testimonianza di Madre Teresa di Calcutta ha ribadito questa consapevolezza di dare la propria vita per gli altri. Pedro lo sapeva benissimo. È nostro dovere compiere qualcosa di buono nella vita.


Al giorno d’oggi il lavoro missionario non riguarda solo la trasmissione della fede, ma richiede che si renda un servizio che non può essere altro che l’espressione concreta di tale fede: la carità cristiana.


La carità ci permette di aggiustare ciò che si è rotto, di trovare ciò che è perduto, di guarire ciò che è ferito, di unire ciò che è diviso, di dire la verità in mezzo alla menzogna e di insegnare quando prevale l’ignoranza. La grandezza del compito che oggi siamo chiamati a svolgere può però acquisire un significato solo se trae ispirazione da Dio e se ha Dio come fine ultimo. La «presenza» di Dio diviene il parametro della vita e del lavoro. L’uomo eviterà la tentazione di rimanere imprigionato nei propri schemi con le loro trappole e i loro limiti. Egli scoprirà in Dio un fuoco interiore che animerà tutti i suoi aneliti.


In effetti le azioni umane non valicheranno più i confini della moralità che riesamina costantemente la situazione umana. Il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato non sarà più un fardello irrilevante che si alimenta con il senso di colpa. La moralità diventerà una guida sicura e una garanzia della speranza per il futuro, sia in questo mondo sia in quello che verrà.


La Chiesa, in sintonia con lo spirito di Pedro, può tuttora affermare di essere l’ancora della salvezza nelle situazioni in cui le tensioni politiche, le crisi finanziarie e gli sconvolgimenti morali esercitano pressioni sulla vita di molti. La fedeltà alla Chiesa è per il nostro popolo la certezza che garantisce la salvezza a tutti, ora e per sempre. La Chiesa si riconosce nel giovane Pedro, poiché è anch’essa un giovane apostolo nel mondo. Obbedientemente va laddove viene inviata per proclamare anni di grazia del Signore.


 


Affrontò la morte come un «soldato di Cristo»


ILDEBRANDO JESUS A. LEYSON


Pedro Calungsod era un giovane originario della regione di Visayas, nelle Filippine. Si sa molto poco di lui. Fu uno dei ragazzi catechisti che andarono insieme ai missionari gesuiti spagnoli dalle Filippine fino alle Isole Ladroni, situate nell’Oceano Pacifico occidentale, per evangelizzare i Chamorros. La vita nelle Ladroni era dura: le provviste per la missione non arrivavano regolarmente; la giungla era troppo fitta per essere attraversata; le scogliere si scalavano con molta difficoltà e le isole venivano frequentemente flagellate da devastanti tifoni. Ciononostante, i missionari perseverarono e la missione fu benedetta con molte conversioni. In seguito, le isole vennero ribattezzate dai missionari con il nome di Marianne, in onore della beata Vergine Maria e della Regina Reggente di Spagna, Marianna, che fu la benefattrice della missione. Molto presto, però, un guaritore cinese, chiamato Choco, invidioso del prestigio guadagnato dai missionari presso i Chamorros, cominciò a spargere la voce che l’acqua battesimale dei missionari fosse velenosa. E poiché alcuni dei bambini Chamorros, che erano stati battezzati quando erano già malati, erano poi morti, molti credettero al calunniatore e alla fine divennero apostati. La malvagia campagna di Choco venne prontamente sostenuta da alcuni indigeni superstiziosi e dai costumi immorali – i Macanjas (stregoni) e gli Urritaos (giovani dediti alla prostituzione) – i quali, insieme agli apostati, cominciarono a perseguitare i missionari. L’aggressione più memorabile si ebbe il 2 aprile 1672, che quell’anno coincideva col sabato precedente alla domenica di Passione. Verso le sette del mattino, Pedro, che allora doveva avere circa diciassette anni, e il superiore della missione, Padre Diego Luís de San Vitores, giunsero al villaggio di Tomhom, nell’isola di Guam. Lì vennero a sapere della recente nascita di una bambina e così andarono a chiedere al padre della bimba, chiamato Matapang, di portar loro la piccola perché fosse battezzata. Matapang, che era stato in precedenza cristiano ed amico dei missionari, ma che era poi divenuto apostata, rifiutò irosamente il battesimo per la figlia. Con l’idea di lasciare a Matapang un po’ di tempo per rasserenarsi, Padre Diego e Pedro riunirono i bambini e gli adulti del villaggio presso la spiaggia vicina e cominciarono a cantare con questi le verità della fede cattolica. Invitarono Matapang ad unirsi a loro, ma l’apostata si mise a urlare gridando che era arrabbiato con Dio e ormai stanco degli insegnamenti cristiani.


Determinato ad uccidere i missionari, Matapang se ne andò da lì e cercò di conquistare alla sua causa un altro del villaggio, di nome Hirao, che non era cristiano. Dapprima Hirao rifiutò, memore della gentilezza dei missionari verso gli indigeni; ma quando Matapang lo bollò di codardo, si sentì offeso ed acconsentì. Nel frattempo, durante la breve assenza di Matapang dalla sua capanna, Padre Diego e Pedro, con il consenso della madre, presero la decisione di battezzare la bambina. Quando Matapang apprese del battesimo, divenne ancor più furioso. Si mise a scagliar lance dapprima contro Pedro. Il ragazzo schivò i dardi con notevole destrezza. I testimoni dicono che Pedro avrebbe avuto tutte le possibilità per scappare, data la sua agilità, ma che non volle lasciare solo Padre Diego. Quelli che conobbero personalmente Pedro pensano che egli avrebbe avuto la meglio nei confronti dei suoi fieri aggressori se solo avesse avuto a disposizione qualche arma con cui difendersi, poiché era un ragazzo molto coraggioso; ma Padre Diego non permise mai ai suoi compagni di andare armati. Alla fine, Pedro fu raggiunto da un dardo al petto e cadde al suolo. Hirao si scaraventò immediatamente su di lui e lo finì con un colpo di mezza scimitarra alla testa. Padre Diego diede a Pedro l’assoluzione sacramentale. Per ultimo, gli assassini uccisero anche Padre Diego. Matapang prese il crocifisso di Padre Diego e lo fece a pezzi con una pietra mentre bestemmiava Dio. Poi, entrambi gli assassini spogliarono i corpi di Pedro e Padre Diego, li trascinarono fino alla riva del mare, legarono ai loro piedi dei grandi massi, li portarono al largo su una barca e quindi li buttarono nel fondo dell’oceano. I resti mortali dei martiri non furono mai recuperati. Quando i compagni di missione di Pedro seppero della sua morte esclamarono: «Giovane fortunato! Come sono ben ricompensati i suoi quattro anni di perseverante servizio a Dio nella difficile missione, essendo egli divenuto il precursore del nostro superiore, Padre Diego, in Cielo!». Essi ricordavano Pedro come un ragazzo di ottime disposizioni, un catechista virtuoso, un assistente fedele e un buon cattolico, che, con la sua perseveranza nella fede fino al martirio, diede prova di essere un buon soldato di Cristo (cfr 2 Tim 2,3).


Padre Diego Luís de San Vitores fu beatificato nel 1985. È stata la sua beatificazione che ha riportato ai nostri giorni la memoria di Pedro Calungsod.


 


Nei collegi dei gesuiti una generazione di piccoli catechisti apostoli della Buona Novella


Quella di formare i giovani affinché li aiutassero come catechisti nelle missioni era una strategia dei gesuiti che evangelizzavano le Visayas (la regione centrale dell’Arcipelago delle Filippine, composta principalmente dalle isole Panay, Negros, Cebu, Bohol, Leyte e Samar). La formazione avveniva nei collegi maschili dei gesuiti o nelle loro residenze. Un missionario gesuita spiegò il motivo per cui venivano scelti i ragazzi: «… Conquistandoli, conquisteremo anche i loro genitori, i loro fratelli, i loro parenti e gli abitanti di quasi tutta la regione, che parteciperanno alle lezioni di catechismo, alla confessione, alla comunione e agli incontri spirituali. Inoltre i bambini impareranno l’alfabeto, la lingua, la cultura e le usanze civili e cristiane e le diffonderanno nei loro villaggi. In effetti molti di essi potrebbero a loro volta diventare missionari e catechisti. Si potranno trovare tra loro insegnanti di lettura e scrittura e si potrà affidare loro la responsabilità e la cura del collegio, poiché il lavoro che ora stanno svolgendo nelle altre comunità religiose e nella nostra casa dimostra che sono capaci di fare tutto ciò».


Il collegio maschile delle Visayas di Tigbauan (isola di Panay) fu fondato dai gesuiti Pedro Chirino e Francisco Martín nel 1592. Ai ragazzi non si insegnava solo il catechismo, ma anche la scrittura, lo spagnolo e la musica liturgica. Ben presto essi furono in grado di servire come chierichetti o coristi. Chirino li inviò a coppie nei villaggi distanti della missione per trasmettere la fede che avevano ricevuto, dopo essersi assicurato che conoscessero profondamente il  catechismo. Prima passava lui stesso in quei villaggi, facendo costruire in ognuno una piccola cappella di canne; qui, nel tardo pomeriggio, dopo il lavoro nei campi, i giovani catechisti riunivano gli abitanti e iniziavano a insegnare alla propria gente, nella loro lingua, le cose di Dio. Questo collegio non durò a lungo, poiché Chirino rimase a Tigbauan per soli due anni e nessuno venne a sostituirlo.


Il collegio maschile delle Visayas di Dulag (isola di Leyte) fu istituito nel 1595 dai gesuiti Alonso de Humanes e Juan del Campo. Furono scelti una sessantina di ragazzi, principalmente figli di nobili, nelle encomiendas (feudi) di Leyte est: Palo, Dulag e Abuyog. Come nella scuola di Chirino a Tigbauan, i ragazzi seguivano corsi di dottrina cristiana, scrittura, lettura e musica. Humanes migliorò l’idea di Chirino, facendo vivere i ragazzi nel comprensorio dei gesuiti, in una casa fatta costruire appositamente con le offerte raccolte dagli encomenderos. La scuola di Dulag fu così il primo seminario de indios, o collegio per indigeni, istituito nella vice-Provincia (dei gesuiti) nelle Filippine. Essa era completamente gratuita. Furono i ragazzi di Dulag ad insegnare la lingua delle Visayas ai missionari gesuiti di Palo. Verso il 1601 l’edificio del collegio di Dulag fu ampliato, così da comprendere un dormitorio, un refettorio e una cappella privata per almeno trenta ragazzi. Il tempo di permanenza nell’istituto non era prestabilito, ma di solito essi rimanevano alcuni anni. La Lettera Annuale dei Gesuiti del 1603 parla di alcuni diciassettenni e diciottenni, ma la maggior parte dei ragazzi doveva essere anche più giovane. I nuovi arrivati facevano una confessione generale per la loro vita passata e ricevevano la Santa Comunione il giorno stesso della loro ammissione.


Gli studenti si alzavano ogni mattina al suono della campana. Dopo una visita al Santissimo Sacramento e una breve meditazione nella cappella per i ragazzi più grandi, formavano una processione e attraversavano la città cantando il catechismo. Quando potevano i cittadini si accodavano e li seguivano fino alla chiesa della missione per partecipare alla Santa Messa. Le lezioni si svolgevano al mattino e al pomeriggio dei giorni feriali. I ragazzi imparavano a leggere e a scrivere in spagnolo oltre che nella lingua delle Visayas. Al termine delle lezioni pomeridiane, i ragazzi si recavano in chiesa per recitare il rosario e cantare il «Salve Regina», poi giocavano fino all’ora di cena. Consumavano i pasti seduti alle lunghe tavolate del refettorio, alla maniera europea, e ascoltavano in silenzio le letture nella lingua delle Visayas. Dopo la ricreazione serale gli studenti si riunivano a formare quello che si potrebbe definire un gruppo di lavoro o un corso pratico, dove uno di loro insegnava il catechismo o raccontava una storia edificante come avrebbe poi fatto al momento in cui avrebbe partecipato attivamente al lavoro missionario. L’intensa giornata si concludeva con un esame di coscienza e con le preghiere serali nella cappella. Francisco de Otazo, S.J., che nel 1601 era il superiore della residenza, espresse grande soddisfazione per i progressi fatti dai seminaristas. Due anni dopo iniziò a mandarli nei villaggi per collaborare all’insegnamento post-battesimale dei neofiti. Assolsero benissimo il compito loro affidato. Il collegio maschile delle Visayas di Tinagon (isola di Samar), come quello di Dulag, fu creato da Otazo, ma a quanto pare non durò a lungo, poiché i ragazzi, dopo un corso intensivo di dottrina cristiana, furono rimandati nei loro villaggi per contribuire all’istruzione della propria gente. Il collegio maschile delle Visayas di Paranas (isola di Samar) sopravvisse più a lungo e in un certo senso fu un’esperienza più interessante. Fu fondato dal procuratore locale, Don Gonzalo. Con il consenso dei padri gesuiti, questi visitò i villaggi della costa come il pifferaio di Hamelin, raccogliendo tutti i ragazzi che i genitori gli affidavano. Ne condusse a Paranas più di cento e li fece vivere secondo le regole di un collegio: preghiere mattutine, lezioni al mattino e al pomeriggio, preghiere serali. Uno dei lati migliori di questo istituto era che i padri gesuiti non dovevano preoccuparsi del suo mantenimento. Esso era completamente autosufficiente. I ragazzi più grandi si dedicavano alla pesca e quando diminuivano le scorte di riso i giovani tornavano ai loro villaggi a prenderne altro.


Il collegio maschile delle Visayas di Loboc (isola di Bohol) fu fondato nel 1605 e mantenuto con le prebende dei missionari gesuiti di Bohol. Nell’aprile del 1606 la scuola era frequentata da sedici ragazzi, tutti provenienti dalle famiglie più importanti dell’isola. Il maestro indigeno Juan Maranga di Palao (Leyte) era un allievo dell’istituto di Dulag. Tra i mezzi utilizzati per insegnare la vita cristiana agli indigeni vi erano le rappresentazioni teatrali. Una volta, ad esempio, presentarono la vita di san Gregorio Magno con tanta devozione e modestia che tutti ne furono subito conquistati. Poiché il messaggio centrale della recita era l’elemosina fatta dal santo, tutti furono incoraggiati a seguirne l’esempio. Gli indigeni trassero grandi benefici da queste recite, che erano un mezzo molto efficace per insegnare loro la fede, non solo perché venivano in molti da ogni parte per assistervi, ma anche perché permettevano loro di comprendere subito il messaggio trasmesso. Nel 1610 ognuna delle isole di Samar, Leyte e Bohol aveva un proprio collegio maschile. Nell’isola di Cebu, invece, i gesuiti gestivano una scuola elementare e secondaria maschile.


Probabilmente fu in una di queste case di formazione che Pedro Calungsod crebbe dal punto di vista spirituale, mentale e fisico. Forse studiò il catechismo, imparò a leggere e a scrivere nella lingua delle Visayas e in spagnolo, a leggere la musica e a cantare, a disegnare e dipingere e forse anche a recitare. Probabilmente imparò a servire la Santa Messa in latino, che allora era più complicata visto che veniva celebrata secondo il Rito Tridentino. È ragionevole supporre che Pedro Calungsod sia stato uno dei tanti validi studenti dei gesuiti. Non molto tempo dopo, infatti, fu scelto fra i pochi che si sarebbero recati a fondare una missione in un territorio lontano e difficile della Diocesi di Cebu: las islas de los Ladrones, in seguito ribattezzate Isole Marianne.


I.J.L.


 


Patrono della «nuova evangelizzazione»


CATALINO G. ARÉVALO


Negli ultimi anni si è scritto molto sulla cultura globale e la cultura globale dei giovani ne è forse la manifestazione più tangibile e più facile da osservare. È stato anche detto che la cultura globale dei giovani è una delle «forme più chiare di quello che chiamiamo post-modernismo», un miscuglio difficilmente definibile di visione a «breve termine», gratificazione immediata, vivere per il presente, assenza di fine ultimo o meta-narrativa, mancanza di un’identità ben definita, «vivere in un mondo proprio fatto di una realtà virtuale», la libertà illimitata come sorta di valore assoluto, materialismo e consumismo, un soggettivismo e un relativismo portati agli estremi, ecc.. Solo poche settimane fa, un gruppo di lavoro internazionale riunitosi per parlare della questione dei giovani asiatici, composto da educatori provenienti da almeno una decina di Paesi, ha concluso che praticamente in tutti i Paesi asiatici gli stili di vita e i valori tradizionali stanno crollando a una velocità notevole e che sta emergendo una generazione di giovani la cui mente e il cui cuore sono quasi completamente forgiati dai messaggi dei mezzi di comunicazione sociale, prevalentemente occidentali (una delle definizioni di questo fenomeno è stata «realtà hollywoodiana»), che la televisione via cavo sta diffondendo anche nei villaggi più remoti e non ancora raggiunti dall’educazione convenzionale. Solo pochi anni fa ampi settori della popolazione vivevano praticamente nel XVI secolo; ora vengono travolti dal XXI secolo. La crisi della moralità nazionale ne è il primo (e più immediato) effetto; i valori delle comunità tradizionali sono i primi a subirne le conseguenze (telenovelas, video musicali e trasmissioni simili hanno un grande effetto sui giovani); le credenze si perdono non tanto a causa di attacchi diretti, ma per le «strutture vacillanti» quando il terreno etico si muove sotto di esse.


In una commovente omelia in occasione di un convegno nazionale sull’avvento del Terzo Millennio (29 gennaio 2000), il Cardinale Jaime L. Sin, Arcivescovo di Manila, ha affermato che anche nelle Filippine, unico Paese asiatico a maggioranza cattolica, l’erosione della fede cristiana e della cultura forgiata faticosamente in più di quattro secoli sta avanzando inesorabilmente, in particolare tra i giovani.


Tutto ciò si è verificato in modi e misure diversi in tutti i Paesi asiatici e sembra che stia accadendo lo stesso in ogni parte del mondo. Gli educatori africani osservano lo stesso fenomeno anche nelle loro società e, ancora una volta, prima di tutto tra i giovani. Durante un recente incontro di religiosi e religiose, un missionario cristiano ha affermato: «La massiccia invasione post-moderna (che si voglia accettare o no tale definizione!) sta avvenendo con maggiore rapidità della nostra evangelizzazione. Quando ci prepariamo a seminare scopriamo che la terra è stata spostata e che il terreno è stato alterato!». In un certo senso quello appena descritto è un cambiamento a livello mondiale della cultura umana. Sta emergendo una cultura globale dei giovani, che ha caratteristiche analoghe da nord a sud e da est a ovest.


È in questo contesto che guardiamo al dono che la beatificazione del giovane Pedro Calungsod rappresenta per i cristiani nelle Filippine, in Asia e forse nel mondo intero. Ecco un giovane uomo disposto a lasciare la famiglia e la casa, probabilmente a soli quattordici anni, per servire la fede cristiana. Forse era troppo giovane per comprendere pienamente la grandezza del sacrificio compiuto lasciando la famiglia, la terra natale, le cose familiari; troppo giovane per comprendere appieno l’impatto della sua disponibilità a partecipare a un progetto missionario in terra straniera, al grande lavoro dei missionari che accompagnava in paesi lontani. Forse scoprì solo pian piano la vita di sacrifici e di dono di sé che doveva vivere. Dai racconti dell’epoca, però, apprendiamo che era pronto al servizio generoso, all’estenuante lavoro missionario, al dono di sé e all’abnegazione richiesti a un compagno di eroici missionari. Forse solo vedendo i gravi rischi ai quali era ogni giorno esposto comprese pienamente il significato del suo impegno per la missione, la Chiesa e nostro Signore Gesù Cristo e il suo Vangelo. La sua persona, il suo esempio, la sua vita, ma soprattutto la sua eroica morte, rappresentano una sfida per i giovani d’oggi. In un tempo in cui vi sono pochi eroi, un vero martire sarà elevato dinanzi agli occhi dei nostri giovani: un credente, che dedicò la propria vita di giovane e di uomo al servizio della Chiesa, che donò la vita in testimonianza della propria fede.


Nel Terzo Millennio il nome di Gesù Cristo dovrà essere proclamato a quasi quattro miliardi di persone in Asia, che non hanno mai veramente ed efficacemente sentito parlare del Vangelo di Gesù. Quasi quattro miliardi di persone non hanno mai visto la luce di Cristo se non di sfuggita. «E – parafrasando san Paolo – come potranno vedere, come potranno ascoltare» se non soprattutto attraverso la testimonianza di vita resa alla persona e al messaggio di Gesù, anche in questa età post-moderna, nel consumismo e nel materialismo, nel grande soggettivismo, nel relativismo e nella mancanza di obiettivi del post-modernità? Pedro Calungsod può servire da esempio per risvegliare l’immaginazione e l’idealismo anche dei giovani d’oggi; un autentico martire per tutto il mondo, al quale i giovani possano guardare in questo tempo in cui Gesù e il suo Vangelo devono essere nuovamente proclamati a un mondo che li conosce tanto poco e che invece ne ha tanto bisogno.


© L’OSSERVATORE ROMANO Domenica 5 Marzo 2000