Libro III – Cap. 14 La restaurazione in Italia (I)

Prof. A. Torresani. 14. 1  Tornano i vecchi sovrani

      Negli anni della rivoluzione erano avvenuti profondi rivolgimenti: la struttura feudale della società era stata distrutta; il nuovo diritto civile aveva profondamente modificato la tradizione; il codice commerciale aveva abituato a un più efficiente sistema di scambio delle mer­ci.
     Dal punto di vista economico, la relativa unificazione d’I­talia aveva offerto i vantaggi di un mercato unico, mentre ora, il formarsi di numerose frontiere tra piccoli Stati aveva chiuso numerosi sbocchi alle derrate agricole lombarde, e la stagnazione degli affari faceva rimpiangere gli anni precedenti che pure era­no stati anni di guerra. Dopo il 1815 la possibilità di vivere in modo eroico fu minima, e molti non riuscirono a rientrare nei ranghi.
     Fiorirono perciò le società segrete che si proponevano di rovesciare i governi, apparsi la riedizione dell’antico regime. La massoneria, sotto Napoleone era divenuta una specie di club per ufficiali dell’esercito e funzionari statali, ma dopo la re­staurazione quasi tutti i governi europei adottarono provvedimen­ti restrittivi nei suoi confronti, costringendola all’azione antigovernativa.
     Tra i giovani che potevano frequentare i gradi più elevati dell’istruzione, negli ufficiali dell’esercito, tra la borghesia danneggiata dalla chiusura dei mercati si diffuse una viva insod­disfazione, e con essa l’idea di una rivoluzione nazionale. L’e­sempio britannico era davanti agli occhi di tutti: la rivoluzione doveva essere liberale e doveva proporsi il diritto di voto, un governo espresso dalle libere competizioni dei partiti, con una stampa libera nel qua­dro di una costituzione.
     Molte furono le illusioni dei membri delle società segrete italiane, quando il 1° gennaio 1820, a Cadice, avvenne l’ammutinamento dell’esercito spagnolo che otte­nne la costituzione liberale del 1812.  Sei mesi dopo, il 1° luglio a Nola si sollevò uno squadrone di cavalleria che mar­ciò su Napoli, ma la Sicilia si ribellò al nuovo governo. A Torino, esistevano analoghi gruppi rivoluzio­nari. In Lombardia, i liberali cercavano di suscitare la ribellione contro l’Austria, ma nella primavera del 1821 l‘intervento dell’esercito austriaco fece crollare i progetti rivoluzionari.

14. 1  Tornano i vecchi sovrani
     La restaurazione dei vecchi sovrani avvenne in una situazione resa difficile dal disordine climatico che provocò in molte parti d’Europa una vera e propria carestia.
Vittorio Emanuele I ritorna a Torino A Torino, Vittorio Emanuele I epurò i funzionari compromessi col regime napoleonico, ripor­tando al potere persone che da quindici anni non avevano trattato affari politici.  La dinastia sabauda aveva la fortuna di posse­dere solide radici nella società piemontese: anche i liberali ritenevano che il mutamento costituzionale doveva avvenire sotto la guida della famiglia regnante. 
Joseph de Maistre L’ambiente culturale piemontese appariva re­trivo, tanto che  i più vivaci scrittori operavano fuori del Piemonte, a Milano, come Lodovico di Breme e Silvio Pellico. A Torino, invece, cresceva l’influsso di Joseph de Mai­stre, per molti anni incaricato d’affari a Pietroburgo, l’autore di un progetto di critica radicale delle idee illu­ministe e rivoluzionarie. Durante il soggiorno a Pietro­burgo, il de Maistre aveva scritto le sue opere più importanti: Il principio generatore delle Costituzioni; Del Papa; Le serate di Pietroburgo.  Nel libro Del Papa il De Maistre sostenne la tesi che il Papa doveva godere un potere assoluto, di natura dottrinale e morale, su tutti i sovrani della terra, affermando che ogni rivoluzione era cominciata con un’ag­gressione ai poteri papali.
Le Serate di Pietroburgo Nelle Serate di Pietroburgo, oggetto di studio sono le virtù e i vizi, in lotta per il dominio di questo mondo. Vi sono due famosi passi: il primo è l’elogio degli ese­cutori fedeli degli ordini ricevuti, visti come fondamento dell’ordine sociale. Il contrario, la disubbidienza dei ribelli, ha creato fratture insanabili, incertezza della vita, distruzione della civiltà. Il secondo passo famoso è l’attacco contro il liberalismo di John Locke che agli occhi di de Maistre appare come l’ispiratore della rivoluzione permanente, come il trionfo dei pregiudizi e dei capricci della maggioranza, come appiattimento della società che si priva di un modello di comportamento valido e duraturo. Il pensiero del de Maistre ap­pare coerente ed ebbe non poco peso nel guidare la restaurazione, ostile a ogni rivoluzione. Non fu assolutista mo­narchico, tranne per quanto riguarda il Papa (ultramontanismo): certamente affermò che l’obbedienza era la principale virtù poli­tica, ed era offeso dalle tendenze anarchiche presenti in ogni rivoluzione politica e in ogni tentativo di limitare il potere papale. La ri­volta di Lutero, la formazione delle Chiese nazionali, il Galli­canesimo, il Giansenismo e tutti i movimenti volti a deprimere il potere religioso del Papa apparivano al de Maistre il punto di partenza  delle rivoluzioni politiche che avevano sconvolto l’Eu­ropa. Le analisi del de Maistre sono tutt’altro che folli: tutti i rivoluzionari vogliono libertà per sé, affrettan­dosi a negarla agli altri rivoluzionari non appena si siano impa­droniti del potere ed esigendo obbedienza assoluta ai propri or­dini. Ciò che non comprese il de Maistre erano le condizioni nuove che facevano da cornice alla società europea ormai avviluppata dalle conseguenze della rivoluzione industriale che imponeva un dinamismo incalzante, la costruzione di nuova cultura sotto il ritmo incessante delle sco­perte scientifiche, autonome rispetto al pensiero morale e politico.  
Le società segrete in Piemonte Il carattere con­servatore della restaurazione a Torino urtò la borghesia e stimo­lò la diffusione delle società segrete. Il governo di Vittorio Emanuele I si affrettò a sciogliere la massoneria i cui membri andarono a ingrossare le file delle  società segrete. Si tratta­va soprattutto di ufficiali dell’esercito e di funzionari messi da parte dal nuovo regime. La società segreta più diffusa sembra sia stata quella degli Adelfi, che subiva l’influenza di Filippo Buonarroti. Costui, fin dal tempo della rivoluzione francese, aveva creato una rete di affiliati che cerca­vano di estendere la loro influenza sulle altre società segrete per egemonizzarle. Sembra che a seguito di un in­contro tenuto ad Alessandria nel 1818, gli Adelfi si siano fusi con le logge dei Filadelfi dando vita alla Società dei Sublimi Maestri Perfetti, distinti in tre livelli, cia­scuno dei quali conosceva il fine per cui operava senza conoscere i fini dei livelli superiori. Al primo livello era proposto un vago deismo e la sovranità popolare; al secondo livello si proponeva agli aderenti l’istituzione della repubblica; il fine del terzo livello era, invece, il raggiungimento di una perfetta uguaglianza tra tutti gli uomini, una specie di comunismo. 
Filippo Buonarroti Il Buonarroti pensava che il fine supremo potesse venir raggiunto con gradualità, dopo aver percorso i gra­dini precedenti e che quindi fosse opportuno rivelarlo a pochi per non suscitare reazioni da parte dei governi. I Sublimi Mae­stri Perfetti avevano un direttorio supremo a Ginevra, che nominava ispettori chiamati diaconi, col compito di su­scitare sinodi regionali preposti a Chiese composte al massimo di dieci membri: la scelta di termini ecclesiastici per una società anticlericale indica una propensione alla creazione di un ordine rovesciato, profano, piuttosto che un progetto più giusto di quello che si voleva soppiantare. La Chiesa principale in Italia era quella di Torino. L’influenza di questo gruppo si estendeva anche alla Lombardia, alla Toscana e allo Stato della Chiesa.
La Federazione Italiana Tra il 1818 e il 1820, la necessità di un’azione politica immediata fece sorgere come associazione col­legata ai Sublimi Maestri Perfetti la Federazione italiana, dif­fusa in Piemonte e Lombardia: sembra abbia avuto più affi­liati della Carboneria, diffusa soprattutto nel sud d’Italia. La Federazione non aveva simboli, riti, gradi di iniziazione come la massoneria o la carboneria perché aveva come fine immediato la cacciata dell’Austria. In Lombardia la Federazione era diretta da Federico Confalonieri e si diffuse tra la nobiltà e la borghesia, mentre in Piemonte si diffuse anche tra le forze armate e tra gli aristocratici come il Santarosa.
Lombardia e Veneto sotto il governo austriaco Il 12 giugno 1814 le province lombarde e venete furono annesse all’Impero absburgi­co, che il 7 aprile 1815 le costituì in Regno Lombardo-Veneto con a capo un vicerè residente a Milano (dal 1818 al 1848 fu vicerè l’arciduca Ranieri, fratello dell’imperatore Francesco I) con compiti di rappresentanza, perché il potere effettivo era tenuto da due governatori per la Lombardia e per il Veneto. 
Organi del governo austriaco in Italia C’erano anche due Congre­gazioni, o consigli, con due deputati per provincia (in tutto diciotto deputati per la Lombardia e sedici per il Veneto), nominati dall’imperatore su proposta dei consigli provinciali, senza poteri effettivi tranne quello di inoltrare petizioni  al sovrano. Le province erano amministrate più o meno come durante il periodo francese e così avvenne anche per l’ordinamento giudi­ziario e finanziario. I rapporti tra Chiesa e Stato tornarono quelli del tempo di Giuseppe II: i vescovi erano di nomina imperiale. I beni del clero confiscati non furono restituiti. 
Buona amministrazione nel Lombardo-Veneto La nuova amministra­zione risultò più equa e più oculata dell’amministrazione france­se e fino al 1848 la Lombardia fu la regione meglio governa­ta in Italia, anche rispetto al Piemonte.  Ma in pieno XIX seco­lo, dopo il nazionalismo suscitato dalla rivoluzione francese, non era facile imporre un dominio straniero. Si affermava che l’Au­stria ricavasse profitti enormi dalla Lombardia e la diceria  po­teva circolare perché i bilanci erano tenuti segreti. Certamente l’esercito e la po­lizia costavano cari al governo che stornava il denaro da progetti più redditizi. 
Crescente sviluppo economico in Lombardia In ogni caso lo svi­luppo economico della Lombardia, superiore a quello del Veneto, fu in costante ascesa, specie dopo il 1830 e si fondava sulla produzione di seta e sull’agricoltura. Il primo go­vernatore della Lombardia propose al governo di Vienna di concedere una notevole autonomia, tendente ad assumere l’aspetto di un mercato comune tra le province ita­liane e l’Impero. Furono i complotti, la stampa clandestina, le continue cospirazioni a far recedere il governo absburgico dal progetto. 
Tentativi nei confronti degli intellettuali Fu proposto anche un programma culturale confluito nella pubblicazione della Biblio­teca italiana, un giornale letterario finanziato dal governo. In un primo tempo, la direzione del periodico fu offerta a Ugo Fo­scolo, che rifiutò e anzi abbandonò la Lombardia andando in In­ghilterra.
La cultura romantica La cultura lombarda non aveva ancora preso contatto con le letterature inglese e tedesca che vivevano in pieno la stagione romantica. In Italia era seguita la letteratura francese perché quella lingua era conosciuta da tutti i letterati. Proprio attraverso la mediazione di una scrittrice francese, Madame de Staël, i letterati italiani conob­bero le novità maturate nel mondo letterario tedesco.  Essa pub­blicò nel primo numero della Biblioteca italiana il noto articolo “Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni”, divenuto prete­sto di una discussione che passò i limiti della letteratura. Infatti, furono i patrioti e i liberali ad accogliere l’invito di una rivista conservatrice a impadronirsi dei temi della lettera­tura tedesca. Essere romantici e ostili al predominio della cul­tura classica fu sinonimo di progressismo antiaustriaco: ben presto il movimento romantico ebbe il proprio giornale, il Conciliatore, pubblicato per un anno, dal 1818 al 1819, quando fu chiuso perché antigovernativo. Era un giornale eclettico, alla maniera delle riviste del Settecento: conteneva articoli di economia, di statistica, di morale, di geografia, di legislazio­ne, di storia, oltre che di letteratura. 
Il gruppo del “Conciliatore” Gli scrittori erano illuministi come Gian Domenico Romagnosi, o gio­vani che avevano abbracciato gli ideali romantici come Giovanni Berchet, Lodovico di Breme, Silvio Pellico, Ermes Visconti. Nel Conciliatore erano evidenti gli influssi della filosofia del Vico che a Milano era stato fatto conoscere da Vincenzo Cuoco, inducendo la cultura lombarda a un attento esame del passato.
Origine antica del conflitto tra italiani e tedeschi Importante appare l’esaltazione delle origini della cultura italiana, del medioevo comunale e dell’inizio delle signorie. Con grande enfasi erano raccontati gli episodi di conflitto tra le nazioni italiana e tedesca, indicando in quest’ultima l’oppressore, il nemico della creatività latina e della possibile riunione in uno Stato delle stirpi italiche che per alcuni secoli, dalla nascita dei comuni fino al Rinascimento, avevano guidato la cultura euro­pea. 
Letteratura e libertà Il declino era cominciato con la domina­zione spagnola che indusse gli italiani a orientarsi verso model­li stranieri: poiché nel XVII secolo la creatività artistica, al­meno al livello della letteratura, appariva modesta, sorse la persuasione che la lette­ratura fiorisce con la libertà civile, con l’indipendenza politi­ca, mentre tramonta con l’asservimento politico allo straniero. 
Alessandro Manzoni Anche per questo motivo Alessandro Manzoni, il più grande dei letterati lombardi di questo periodo, scelse il XVII secolo come epoca per ambientare il suo romanzo, così come scelse per la prima delle sue tragedie, Adelchi, la sconfitta dei Longobardi per opera dei Franchi di Carlo Magno, subito indicati come padroni non meno oppressori dei primi. La seconda tragedia, il Conte di Carmagnola, può essere indicata come il dramma della di­sunione, della guerra tra italiani quando manchi l’unità politi­ca, con la conseguenza di indebolirsi divenendo preda di popoli più rozzi e rapaci. Il Manzoni, nell’adesione al cattoli­cesimo, trovò la via per preparare l’unificazione italiana, che doveva passare attraverso la rinascita culturale d’Italia avente un re­spiro cattolico ed europeo. 
Il cattolicesimo del Manzoni Senza invocare un preteso gian­senismo, si può asserire che per il Manzoni la Chiesa cattolica non doveva assumere, come per de Maistre, un carattere di somma autorità, di tutela dello statu quo, di garante dell’ordine e dell’obbedienza, di nemica di ogni movimento rivoluzionario, ben­sì il carattere di presenza sensibile di un ordine soprasensibi­le. Nella famosa disputa alla tavola di don Rodrigo, dove si discute se si può bastonare il latore di una sfida sconveniente, il padre Cristoforo è interpellato per fare da giudice tra le due opinioni opposte. La sua risposta, che la cosa migliore sarebbe che non ci fossero né bastonati né bastonatori, suscita il malumore e la derisione dei presenti. Eppure, questa è la posizione anche del Manzoni che non voleva coinvolge­re la Chiesa in partigianerie umane. La riunificazione italiana, anche a costo di distruggere il potere temporale della Chiesa, appariva un bene: occorreva trovare il modo per conseguire quel bene con mezzi buoni, ossia tali da non dividere gli italiani. 
Manzoni e Rosmini Per attuare questo progetto il Manzoni non fu solo: dopo il 1826 l’amicizia col sacerdote roveretano Antonio Rosmini permise un fecondo scambio di idee e di progetti che sembrarono  trionfare nel 1848, ma pre­valsero i “bastonatori”, i fautori del conflitto che avvelenò i rapporti politici in Italia dopo l’unificazione. Tutto considerato, l’atteggiamento politico del Manzoni nei confronti del problema della riunione italiana ha avuto un merito grandissimo perché predispose con la forza della persuasione interiore gli animi a un evento inevi­tabile: quando tutto era pronto, furono altri a prendere il comando dell’operazione. 
I ducati di Parma e Modena Il Congresso di Vienna restaurò anche i ducati di Parma e di Modena. Parma fu assegnata come appannag­gio vitalizio a Maria Luisa, la moglie di Napoleone. Il suo principale consigliere, il generale Neipperg, guidò un governo illumina­to che fece di Parma una città dotata di tradizione e di cultura che tuttavia, data l’esiguità del territorio, non poteva avere alcuna irradiazione all’esterno.  Il ducato di Modena tornò nelle mani di Francesco IV d’Absburgo-Este, un per­sonaggio ambiguo, propenso ai raggiri e alle operazioni sperico­late. Dapprima Francesco IV si appoggiò alle forze più reaziona­rie, poi concepì progetti che lo condussero a collaborare con i carbonari. A lungo sperò di divenire sovrano di uno Stato più esteso: aveva sposato nel 1812 una figlia di Vittorio Emanuele I, sperando di ottenere il regno di Sardegna, specie negli anni dopo il 1821 quando la posi­zione di Carlo Alberto di Savoia-Carignano sembrava compromessa. Francesco IV aveva aspirato anche alla Lombardia, ma la decisione del Metternich di amministrare il Lombardo-Veneto direttamente da Vienna, deluse ancora una volta le attese dell’ambizioso duca.
Il Granducato di Toscana In Toscana, a Firenze, tornò il grandu­ca Ferdinando III di Lorena, fratello dell’imperatore Francesco I che dette vita a un governo improntato a moderazione, favorevole alla concessione di una Costituzione, se il Metternich non si fosse opposto. A capo del governo toscano fu posto Vittorio Fossombroni, un ingegnere idraulico che aveva diretto i lavori di bonifica della Ma­remma e della Val di Chiana. In Toscana fu abolita la legi­slazione francese e rimessa in vigore quella di Pietro Leopoldo, per alcuni aspetti più avanzata di quella francese.
Dipendenza della Toscana dall’Austria In Toscana prevalsero teo­rie economiche liberiste che permisero di migliorare la produ­zione agricola. Livorno rifiorì dopo la crisi dell’età napoleonica. La politica dei granduchi di Toscana non aveva vasto respiro: essendo priva di forze armate proprie, era inevitabile la dipendenza po­litica dall’Austria. Tuttavia, tale dipendenza non assunse un carattere vistoso, e il granduca Ferdinando III fino al 1824, Leopoldo II in seguito, poterono instaurare un governo paternalista che spesso chiudeva un occhio di fronte alle cospirazioni delle società segrete. 
Firenze capitale della cultura italiana Più interessante la fun­zione culturale assunta in modo naturale da Firenze, divenuta il centro dell’editoria italiana. La funzione del Conciliatore, terminata fin dall’ottobre 1819, fu continuata dall’Antologia del Vieusseux, la rivista più prestigiosa in Italia, anche per il suo carattere mode­rato. Gino Capponi e Raffaello Lambruschini individuarono nella pedagogia la scienza adatta per far maturare il programma di uni­ficazione culturale d’Italia.
Lo Stato della Chiesa A Roma, nel 1814, tornò il papa Pio VII circondato da un’aura di simpatia per la paziente sopportazione delle angherie napoleoniche. Lo Stato della Chiesa fu restau­rato nella sua integrità e per qualche tempo ebbe nel cardinale Ercole Consalvi una mente politica in grado di guidarlo. Gli al­tri cardinali della curia romana non compresero che la restaurazione dello Stato della Chiesa doveva avere carattere transitorio, in attesa della solu­zione che esonerasse il pontefice da una funzione politica troppo onerosa. I cardinali erano persone anziane, ancora sotto il trauma degli avvenimenti accaduti nell’epoca napoleonica. Profittando della simpatia che circondava la Chiesa cattolica nei primi anni della restaurazione, gli zelanti ritennero possibile il ritorno al passato, senza rendersi conto del dinamismo impli­cito nella cultura moderna.
Struttura amministrativa dello Stato della Chiesa Lo Stato della Chiesa fu diviso in diciassette province affidate, le più im­portanti, a cardinali legati (Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì, Pesaro, Urbino), e a delegati apostolici (tutte le altre) sempre ecclesiastici nominati dal papa.  I cardinali legati e i delegati erano assistiti da due assessori di nomina papale e da congregazioni (consigli) in cui erano presenti anche i laici con funzioni consultive.
Ricostituzione della proprietà ecclesiastica Molte alienazioni di beni demaniali furono riconosciute dal nuovo governo, ma furo­no decretati anche indennizzi nei confronti degli enti ecclesia­stici e delle opere pie che avevano subito la spoliazione dei beni. In questo modo la proprietà ecclesiastica fu ricosti­tuita. La nuova struttura assunta dallo Stato della Chiesa appa­riva migliore di quella esistente nel secolo XVIII, ma rimaneva eccessiva la presenza di ecclesiastici ai vertici del potere esecutivo col doppio inconveniente di scarsa competenza per le questioni di governo e di confusione tra potere politico e potere religioso. Il fiero anticlericalismo della Romagna e dell’Italia centrale fu alimentato da questo “governo dei preti” che non giovò all’immagine della Chiesa, perché una qualunque ri­bellione al governo pontificio si configurava come una ribellione alla Chiesa, mentre in realtà i due piani sono separati.
Diffuso pauperismo La caratteristica più appariscente dello Sta­to della Chiesa era l’enorme numero di accattoni, oziosi, vaga­bondi che vivevano a carico delle numerose opere pie. Si calcola che su circa due milioni e mezzo di abitanti ci fossero almeno 400.000 poveri, ossia quasi il 20% della popolazione. Questa si­tuazione si poteva sanare solo con una radicale trasformazione dello Stato, ossia con la creazione di industrie: in altre paro­le, occorreva negare la minestra distribuita dal convento tra­sformandola in un posto di lavoro che obbligasse l’operaio ad ac­quistare col salario la minestra.
Il regno delle Due Sicilie  Anche a Napoli la restaurazione bor­bonica non ebbe un carattere esagerato o punitivo nei confronti di coloro che durante il periodo napoleonico avevano collaborato con la Francia: il Metternich e il Castlereagh avevano insistito su quel punto per evitare qualunque focolaio di risentimenti in grado di alimentare contraccolpi rivoluzionari. Dirigeva il go­verno borbonico Luigi de’ Medici col compito di collegare la tra­dizione riformistica iniziata dai Borbone nel XVIII secolo, con alcune novità introdotte dai Francesi nel decennio di occupazio­ne. Questo sforzo di amalgamare le componenti riformatrici fallì a causa dei carbonari che si dimostrarono irriducibili op­positori del governo. 
Il principe di Canosa Il ministro di polizia, il principe di Ca­nosa, sferrò un poderoso attacco contro la carboneria, non solo ricorrendo alla polizia, ma anche a società segrete di opposta tendenza, i Calderari, e a elementi della malavita organizzata che furono prezzolati per provocare gli avversari. Il risultato fu il contrario di quanto si attendeva il Canosa: i carbonari fu­rono aggrediti ovunque, ma in luogo di cedere sembrava che fosse­ro in grado di provocare la guerra civile. Già nel 1816 il Cano­sa dovette lasciare la sua carica e andare in esilio. Il de’ Me­dici poté allora sviluppare una lotta più prudente contro le set­te segrete, per non compromettere la pace interna.
Caute riforme Alcune delle riforme interne furono estese alla Sicilia, soprattutto in campo di amministrazione provinciale e di codici civile e penale. Si arrivò all’abolizione di ogni tipo di fedecommesso e degli usi civici, compensati con la distribuzione delle terre dei comuni agli aventi diritto. Fino al 1820 l’azio­ne del governo borbonico fu sostanzialmente positiva e veniva in­contro alle attese della borghesia. 
Concordato con la Chiesa Nel 1818 fu stabilito un Concordato con la Santa Sede che cancellava gran parte della politica antieccle­siastica del secolo precedente. Il senso politico di questa ricerca di sostegno presso la Chiesa rivela la debolezza del regime napoletano che non trovava consensi proprio in quel ceto medio fondamentale per ogni governo. La politica fiscale del de’ Medici fu abbastanza moderata, ma anche tale da non offrire la possibilità di intraprendere riforme di struttura, mantenere un esercito, stimolare l’industria e il commercio. In questa situazione la carboneria divenne un punto di riferimento per gli scontenti dell’Italia me­ridionale.