FILOSOFIA DELLA CONOSCENZA (4)

1. Esame dello scetticismo. Forme di scetticismo. Lo scetticismo greco. Gli argomenti degli scettici. 2. La difesa metafisica dei primi principi della conoscenza. La metafisica, scienza dei primi principi. Il principio di non-contraddizione. 3. L’oggettività della conoscenza sensibile. Il relativismo sensista. Gli errori dei sensi. 4. Analisi del relativismo. Relativismo e sensismo

Capitolo Quarto

ESAME DELLO SCETTICISMO


1 . Teorie scettiche e loro argornenti


Finora ci siamo occupati della verità, tema cardine di tutta la gnoseologia. È, stata una considerazione positiva, ostensiva, ba­sata sulle nozioni acquisite in metafisica e in psicologia filosofica. Solo di passaggio abbiamo toccato impostazioni filosofiche che negano all’uomo la capacità di attingere la verità o hanno di tale capacità un’idea erronea. Conviene ora occuparsi siste­maticamente di tali obiezioni; analisi, questa‑ì che contribuirà a chia­rire la teoria metafisica della conoscenza e della verità. A questi problemi dedicheremo il presente capitolo e il seguente, per tornare finalmente all’approfondimento di alcuni aspetti delle teorie metafisiche e psicologiche sulle quali ci basiamo.


1.1. Lo scetticismo

L’attacco più netto e radicale, almeno prima di certi soggettivismi moderni, alla capacità dell’uomo di conquistare la verità è costituito dallo scetticismo. Tale parola viene dal verbo greco sképtomai, che significa “esaminare”, “osservare attentamen­te”, “indagare”. In senso filosofico e in linea generale lo scetticismo è l’atteggiamento di colui che, dopo aver realizzato l’indagine cui si allude nell’etimologia, conclude che non si può affermare nulla con certezza, e che pertanto non rimane che rifugiarsi dell’“ epoché” o sospensione del giudizio.


1.2. Forme di scetticismo

Lo scetticismo può rivestire forme diverse. Una prima distinzio­ne può essere fatta considerando l’ampiezza. “Secondo i giudizi ai quali si estendono le riserve scettiche, si possono distinguere due classi di scetticismo: l’universale e il parziale. Lo scetticismo universale si rivolge contro la conoscibilità di ogni giudizio in generale; il parziale contesta soltanto la legittimità di alcuni giudizi. Entrambe le classi possono essere ancora suddivise in una forma assoluta e in un’altra relativa. Lo scetticismo assoluto afferma che la verità di un giudizio è totalmente inconoscibile, cioè in ogni tempo e per chiunque. Lo scetticismo relativo, invece, si riferisce soltanto allo stato attuale dello scettico”. È possibile anche distinguere l’aspetto teorico da quello pratico. Dal punto di vista teorico, lo scetticismo è la teoria gnoseologica che mette in dubbio la certezza della nostra conoscenza; nella sua dimensione pratica, lo scetticismo pretende di salvare l’uomo dall’agitazione delle opinioni mutevoli, per mezzo della ricerca di una serenità interiore aliena da ogni “dogmatismo”.


1.3. Lo scetticismo greco

Gli argomenti scettici, pur implicando in sé un paradosso di non scarso rilievo, sono fiorenti ai nostri giorni’. Già nell’antichità si erano presentati in forme diverse, sulle quali sono ritornati gli scettici posteriori I. Possiamo distinguere quattro varianti principa­li dello scetticismo greco:

I. Pirronismo. Così viene denominata la forma estrema di questo atteggiamento gnoseologico, prendendo il nome da Pirrone di Elide (360‑270 a.C., circa), che propugnò una completa sospensione del giudizio, al fine di ottenere l’atarassia o perfetta indifferen­za di fronte a ogni cosa. La stortura etica dello scetticismo è qui chiara. L’ideale del saggio consiste nell’entrare in se stesso, per rimanere nel proprio silenzio imperturbabile e felice. Aristotele notò ironicamente che ciò equivarrebbe a vivere come una pianta.

2. Il probabilismo. t la posizione sostenuta da Arcesilao e da Carneade, membri della Nuova Accademia. Si oppongono all’asso­lutismo dei seguaci di Pirrone, ammettendo che è possibile uscire dal dubbio pronunciandosi a favore di un’opinione che si ammette soltanto come probabile. Non si può possedere la verità, ma soltanto congetturare ciò che è plausibile o verosimile: è sufficien­te questo per uscire dallo stato di “vegetale” in cui rimanevano i pirroniani, e per vivere con un minimo di disinvoltura.

3. Il fenomenismo. Il suo principale rappresentante è considera­to Enesidemo di Cnosso, anche se questo autore si limitò a compendiare, nel secolo I a.C., i principali argomenti scettici nei suoi famosi tropi. Secondo i fenomenisti, si conoscono le cose soltanto come appaiono, ossia in quanto semplici apparenze, ma non possiamo sapere ciò ch’esse sono veramente. I fenomenisti antichi si limitano, dunque, a constatare le diverse apparenze, ma senza affermare né negare che ad esse corrisponda qualcosa di reale.

4. L’empirismo. Dal fenomenismo, come conseguenza logica, deriva la concezione per cui, ammessi i fenomeni nel loro aspetto fattico, è possibile ricercare le leggi secondo le quali essi entrano in reciproca relazione, ma senza superare il dato dell’esperienza. Già Sesto Empirico presenta un argomento contro la nozione di causa, questa, essendo relazione, può esistere soltanto soggettiva­mente.


1.4. Gli argomenti degli scettici

“ Gli scettici, fa presente Verneaux, non mancano di argomenti, ne hanno anzi, un gran numero, che sviluppano con un’ingegnosità e una sottigliezza incomparabili”. Si tratta di argomentazioni formulate e discusse già dai pensatori greci, e ripetute, in una forma o nell’altra, dagli scettici di ogni tempo. Si potrebbero così schematizzare:

l. La diversità di opinioni fra gli uomini e le contraddizioni dei filosofi. È un’osservazione comprensibile a tutti e che continua ad essere occasione di “scandalo” per molti. Intorno ad ogni pro­blema, gli uomini difendono le opinioni più diverse, e ciascuno crede di avere la ragione dalla propria parte. Chi possiede la verità? Non lo si può sapere con certezza. In ogni caso, il nostro giudizio non sarebbe altro che un’opinione accanto ad altre. Se poi si passa dalla vita quotidiana alla tesi dei filosofi, il panorama si fa ancora più confuso. Poiché sembra che non vi sia dottrina per quanto strana che non abbia trovato un difensore in qualche filosofo, ne segue che nessuna può venire accolta con certezza come vera.

2. L’errore e l’illusione. È un fatto che ci sbagliamo con frequenza, anzi troppo spesso. I sensi ci ingannano, facendoci passare per realtà delle semplici apparenze; spesso ci fanno trasci­nare da allucinazioni e illusioni. Da parte sua l’intelligenza com­mette errori di giudizio e di ragionamento. Nel sonno, le vicende sognate ci paiono reali tanto che viene da chiedersi se non stiamo sempre sognando. L’immaginazione porta uomini che soffrono di manie o ossessioni mentali a dar vita ai fantasmi creati dalla loro mente. Dov’è possibile allora tracciare la frontiera fra illusione e verità fra sogno e veglia, fra demenza e sanità mentale? Non possiamo saperlo, poiché forse anche noi sbagliamo, forse è sogno la nostra stessa vita o pazzia il nostro impegno.

3. La relatività della conoscenza. I seguenti versi esprimono tale atteggiamento con intelligenza e malizia: “nada es verdad ni mentira / pues depende del color / del cristal con que se mira” (non vi è né verità né menzogna, tutto dipende dal colore del vetro attraverso il quale si guarda). Ogni cosa viene conosciuta e valuta­ta da un soggetto determinato, pieno di pregiudizi e di intenzioni presupposte, tanto da arrivare a confondere i suoi desideri con la realtà: conoscenza e interessi si identificano. Inoltre, si conosce sempre a partire da una situazione concreta e limitata: ciò che è vero oggi potrebbe non esserlo più domani; ciò che non è certo per me può esserlo per te. Non vi sono conoscenze utopiche o intemporali: sono sempre figlie di una cultura e di un’epoca storica, in funzione delle quali bisogna interpretarle. Inoltre, le cose stesse non esistono isolate, ma inserite in un complesso tessuto di relazioni reciproche che sarebbe necessario, anche se impossibile, conoscere al, fine di rendere conto in modo esauriente degli oggetti.

4. Il circolo vizioso. Non si deve ammettere come certo nulla che non sia stato dimostrato. Ma ogni dimostrazione deve fondarsi sulla verità dei principi da cui parte, e questi principi devono essere dimostrati partendo da altre premesse. Infine, tutto si di­mostra a partire da tutto; il che equivale a dire che non si può dimostrare nulla dato che si parte dal nulla: infatti, non vi è alcun criterio stabile cui appoggiarsi. Se si cerca di svolgere delle dimostrazioni, si cade in un diallele o circulus vitiosus in probandi. Si potrebbe anche passare di principio in principio, in una successio­ne non circolare, ma lineare; ma anche qui non si dimostra nulla, dato che si prolunga all’infinito la sempre insoddisfatta ricerca di un terreno sicuro su cui costruire l’edificio della scienza.

Come si può notare, gli argomenti non mancano di un’apparente forza di convinzione; tuttavia, se ne manifesta subito l’interna inconsistenza, come vedremo più avanti. Per ora, notiamo che l’atteggiamento scettico, a parte le sue motivazioni etiche, si ap­poggia sull’ignoranza e sull’ostinazione. Come dice Tommaso d’A­quino, alcuni accettano queste argomentazioni sofistiche perché non sanno come contraddirle, mancando delle necessarie conoscen­ze; non potendo risolvere le difficoltà addotte dagli scettici, ne accettano le conclusioni; ma tale ignoranza si vince con facilità. Altri, però, difendono tali posizioni non per ignoranza, ma per mascherare i propri interessi, con la scusa che non vi sono ragioni per ammettere i principi, dato che sono indimostrabili.


2. La difesa metafisica dei primi principi della conoscenza


2.1. La metafisica, scienza dei primi principi

La metafisica deve trattare di ciò che riguarda tutti gli enti, e non soltanto un determinato genere di realtà. Ora, se un principio vale per tutte le scienze, esso si applica a ogni tipo di enti. E questo è proprio il caso dei primi principi che, pertanto, devono essere considerati dalla filosofia prima.

Naturalmente, in ogni scienza questi principi si usano soltanto con l’estensione propria degli oggetti corrispondenti. Solo la meta­fisica li utilizza in tutta la loro ampiezza e li esamina in quanto principi.

Come scrisse Aristotele, “Poiché è evidente che i primi principi si applicano a tutte le cose in quanto enti (difatti l’essere enti è comune a tutte le cose), allora solamente a chi si occupa di studiare l’ente‑in‑quanto‑ente è riservata anche l’inda­gine su di essi. Per questo motivo, nessuno che si occupi di indagini scientifiche parziali, ad esempio nessun geometra o nessun aritmetico, osa enunciare qualche sua teoria sui primi principi, dicendo che essi siano veri o falsi (…). È chiaro, pertanto, che è riservato esclusivamente al filosofo, cioè a colui che considera tutta quanta la realtà in quanto ente, anche il compito di studiare i principi del procedimento sillogistico; e spetta a colui che possiede la più profonda conoscenza di ciascun genere di cose essere capace di trattare dei principi più saldi dell’oggetto preso in esame; e di conseguenza, colui che conosce le proprietà dell’ente‑in‑quanto‑ente deve saper ricono­scere i principi più saldi di tutte le cose. E questi è appunto il filosofo!”.

Tali principi o proposizioni evidenti di per sé (per se notae), sono quelli che si comprendono non appena se ne conoscano i termini; per farli capire è sufficiente chiarire i significati del soggetto e del predicato, giacché il predicato è compreso nella definizione del soggetto.


2.2. Il principio di non‑contraddizione

Qual è il primo fra questi principi? “Il principio più saldo di tutti è quello a proposito del quale è impossibile cadere in errore, giacché esso è necessariamente quello che è più noto (tutti, infatti, cadono in errore su quelle cose che non conoscono) e che non è fondato su ipotesi. Difatti, un principio che deve essere necessa­riamente posseduto perché si possa comprendere qualsivoglia delle cose esistenti, non può essere affatto un’ipotesi; e ciò che si deve conoscere qualora si intenda conoscere qualsiasi altra cosa, non può non essere posseduto prima di ogni altra conoscenza. P, chiaro, dunque, che solo un siffatto principio è il più saldo di tutti; ma, ciò premesso, accingiamoci a dire quale esso sia. Esso è il seguen­te: è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesi­ma relazione (…). Questo è il più saldo di tutti i principi ( … ). È impossibile, infatti, supporre che la medesima cosa sia e non‑sia, come certuni credono che, invece, sostenga Eraclito. Può anche capitare, infatti, che uno non sia pienamente convinto di tutto ciò che dice; e se non è possibile che attributi contrari appartengano simultaneamente a una medesima cosa (…), e se l’opinione che è in contraddizione con un’altra opinione è contraria a quest’ultima, risulta allora evidentemente impossibile che la medesima persona, nel medesimo tempo, ritenga che la medesima cosa sia e non‑sia, giacché, in tal caso, colui che cadesse in questo errore avrebbe simul­taneamente due opinioni contrarie. Ecco perché chiunque intende fornire una dimostrazione la fonda, in ultima istanza, su questa convizione; poiché questa è, per sua natura, anche la base su cui poggiano tutti gli altri principi”.

Si tratta del principio di non‑contraddizione, il quale ha avuto diverse formulazioni. La prima e più semplice è la seguente: l’ente non è il non‑ente. Da questa ne derivano altre più simili alla formulazione aristotelica: è impossibile che due contrari si riferi­scano contemporaneamente allo stesso soggetto; oppure, non si possono attribuire predicati contraddittori ad una stessa cosa.

Il principio di non‑contraddizione è il principio più saldo e sicuro, esso esclude da sé ogni errore. San Tommaso ha fornito tre ragioni a sostegno di tale primato gnoseologico: è il più certo e saldo di tutti i principi perché 1) intorno ad esso non ci si può sbagliare; 2) non presuppone altri principi; 3) alla sua conoscenza si perviene naturalmente.

Questo principio conserva un carattere eminentemente analo­gico, poiché, mantenendo la sua struttura essenziale, il suo significato varia al variare degli oggetti ai quali si applica. Già si è detto che le scienze particolari ricorrono ad esso non in tutta la sua ampiezza ma per quello di cui abbisognano i loro fini. La posizione scettica, dal momento che nel proprio fonda­mento attenta allo stesso principio di non‑contraddizione, provo­ca errori sostanziali nelle diverse scienze. Investe soprattutto la logica, che pure si occupa del vero e del falso: lo studioso di logica, se rifiuta questo principio, è portato ad ammettere che intorno a uno stesso oggetto si danno contemporaneamente verità e falsità. La fisica, d’altra parte, ha a che fare con l’essere e il non‑essere, poiché ciò che si muove, in quanto tale, non è ancora; per studiare il movimento è necessario distingue­re realmente l’atto dalla potenza: la potenza non è l’atto. Se si nega o mal si comprende il principio di non‑contraddizione, si può arrivare a concludere o che il movimento è impossibile oppure che si identifica con l’essenza stessa della realtà. Ed è quel che è avvenuto nella storia del pensiero.


2.3. La difesa del primo principio per riduzione all’assurdo

Alla metafisica spetta la difesa radicale del primo principio: essa mostra che la sua negazione si risolve in un rifiuto della conoscenza dell’ente ‑ che è il primum cognitum ‑ e, pertanto, di ogni conoscenza intellettiva. Reciso tale errore alla radice, ne viene meno l’influsso sui diversi settori scientifici.

La difesa dei primi principi svolta da Aristotele nella sua Metafisica, specialmente nel libro IV, ha un carattere paradigmati­co e continua ad essere valida rispetto agli errori sorti posterior­mente.

Aristotele, innanzi tutto, ritiene che la difesa dei primi principi della conoscenza non si può portare per mezzo di una dimostra­zione diretta, ma per riduzione all’assurdo. In concreto, riguardo a coloro che negano il principio di non‑contraddizione, afferma: “Certuni, tuttavia, pretendono che si dia dimostrazione anche di questo, ma tale loro pretesa è effetto della loro ignoranza, dato che è segno di impreparazione il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no; difatti è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso, infatti, si andrebbe all’infinito e, quindi, neppure così si produrrebbe dimostrazione); e siccome di certe cose non si deve cercare dimostrazione, essi possono forse dirci quale principio ne ha meno bisogno di questo? Tuttavia, anche per quanto concerne tale principio, l’impossibilità di dimostrare che una cosa sia e non‑sia può essere provata mediante confutazione, purché il nostro interlocutore intenda dare alle sue parole un certo significato; ma se egli parla senza costrutto, è ridicolo mettersi a cercare un’argomentazione contro di lui che non ha niente da argomentare, almeno finché non ha niente da argomentare: difatti, un tale uomo, in quanto si trova in tale stato, somiglia ormai ad una pianta”. Effettivamente, colui che afferma qualcosa, deve esclu­dere la negazione di ciò che afferma; quindi riconoscere la con­traddizione fra essere e non‑essere. A chi nega questo principio si può dimostrare che una tale negazione annulla se stessa.

I ragionamenti di questo tipo sono semplicemente argomentativi e non propriamente dimostrativi. Infatti, chi tenta di dimostrare il primo principio cade proprio in una petizione di principio, dato che un tale ragionamento dovrebbe presupporre ciò che pretende dimostrare, cioè che l’essere non è il non‑essere. L’unica via d’uscita da questo circolo vizioso sarebbe il processo all’infinito, ma ciò equivarrebbe a rinunciare alla dimostrazione, poiché ogni conclusione diviene certa grazie alla sua riduzione al primo princi­pio della dimostrazione, il quale verrebbe a mancare se si fosse costretti a spingersi oltre. Solo fondandosi su un primo principio indimostrabile è possibile avviare una dimostrazione. In tal modo si risponde al quarto argomento scettico prima presentato, e si mostra l’inconsistenza della sua tesi fondamentale, cioè che non si debba ammettere con certezza nulla che non sia stato previamente dimostrato.

R evidente che non tutto ciò che è certo è anche dimostrabile: pretendere il contrario non manifesta né rigore né acutezza d’in­gegno, ma semplicemente ignoranza. Il tentativo vano di trovare dimostrazioni dei primi principi è segno che si è privi delle nozioni elementari della logica rivolte allo studio della dimostrazione, la quale, per natura, poggia sui primi principi `.

L’impegno dimostrativo ad oltranza, per quanto sottile possa sembrare, non è altro che stupidità. Non ha senso, ad esempio, cercare un principio o un criterio per discernere cose che sono in realtà evidenti: se adesso dormo o sono sveglio; se la penna con cui scrivo esiste realmente o è un’illusione dei miei sensi; ecc. Inoltre, coloro che così procedono non cercano un principio qualsiasi, ma un principio ottenuto per dimostrazione. “Essi cercano una spiegazione razionale di ciò che non può averla, giacché il principio di una dimostrazione non va soggetto esso stesso a dimostrazione”. Tale ricerca dell’impossibile è come una malat­tia intellettuale: una specie di paranoia gnoseologica.

Lo scetticismo ci rivela così il suo vero volto. Specialmente nelle sue versioni moderne, esso non è, come potrebbe sembrare, un atteggiamento di modestia intellettuale, ma piuttosto la conseguenza della pretesa di dominare il sapere fin dalla sua ra­dice, di costruire da noi stessi l’intero universo delle conoscenze certe. R questo l’ideale illuminista presentato dalla scienza come processo di emancipazione dell’uomo. Non si accetta alcuna dipendenza gnoseologica (metafisica, alla fin fine): ogni cono­scenza, piccola o grande, deve essere perfettamente posseduta dall’uomo. E, comunque sia, meglio non avere conoscenza alcu­na piuttosto che sottomettersi ai dettami della realtà. Lo scetti­cismo è l’altra faccia del razionalismo; entrambi traggono la loro linfa vitale dal criticismo, nel quale si trova l’accettazione acritica di un’autoesaltazione senza fondamento.


2.4. La dialettica

t significativo che, al termine della parabola del razionalismo moderno, si trovi il rifiuto della portata ontologica del principio di non‑contraddizione. Tanto nella dialettica hegeliana come nelle sue derivazioni ‑ marxista, sartriana, ecc. ‑ tale assioma viene riconosciuto come valido nell’ambito della logica formale e del sapere immediato e superficiale intorno alle cose, ma la sostanza della realtà stessa è proprio la contraddizione. Hegel arriva ad affermare: “(…) bisognerebbe prendere la contraddizione come la (determinazione) più profonda e più essenziale. Poiché di fronte ad essa l’identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; poiché solo contenendo una contraddizio­ne in sé, una cosa si muove, ha un istinto e un’attività”. Per la dialettica, la contraddizione è la realtà più profonda. Tutta­via, per dare realtà alla contraddizione è necessario ammettere l’esistenza di un terzo termine fra l’essere e il nulla, il che è ne­gato dal principio del terzo escluso (tra due contraddittori non v’è termine medio), la cui difesa, basata sul principio di non‑con­traddizione, ci previene dagli errori della dialettica.

Un argomento tipico della dialettica hegeliana, divulgato dal materialismo dialettico, si basa sul tentativo di mostrare che il movimento impugna il principo di non‑contraddizione: “Qual­cosa si muove non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui”. Già Aristotele aveva preso in considerazione l’opinione di coloro che basavano il loro scetticismo sul primo principio nel fatto che “le contraddizioni e i contrari si danno simulta­neamente”. In genere queste concezioni presuppongono che i cambiamenti nella realtà sensibile sono un ostacolo allo scopri­mento della verità e sostengono che tutto si muove, anche ciò che sembra stabile. Tuttavia, tale pretesa assoluta mobilità non è reale, poiché anche nel momento del divenire vi è una verità: questo ente determinato che cambia, nel quale vi è qualcosa del termine a quo e del termine ad quem. Pertanto, anche il mo­vimento può essere oggetto di scienza ‑ la fisica ‑ ed è una realtà intelligibile, della quale si possono ricercare i principi ontologici e le leggi fenomeniche.

Alcuni, dal divenire incessante che si osserva in natura, hanno dedotto la presenza di elementi contraddittori nel seno delle cose, il che permetterebbe la trasformazione di tutto in tutto (dalle antiche concezioni delle cose come composte di pieno ‑ essere ‑ e vuoto ‑ nulla ‑ fino alle spiegazioni panevoluzibniste e dialettiche della natura). La soluzione metafisica di questa difficoltà sta nel riconoscimento della composizione di potenza e atto nell’ente che diviene: “A quelli che fondano le loro concezioni su questi argomenti, noi diremo che in un senso essi fanno un ragionamento corretto, ma che in un altro senso essi versano nell’ignoranza: difatti il termine ‘ente’ può essere usato in due accezioni, di modo che in un senso è possibile che un qualcosa sia generato dal non‑ente, in un altro senso no, ed è possibile quindi, che nello stesso tempo la medesima cosa sia ente e non‑ente, ma non secondo la medesima accezione, giacché è possibile che la medesima cosa si identifichi simultaneamente con tutti e due i contrari, ma solo in potenza non già in atto. E, oltre a ciò, noi chiederemo a costoro di considerare che, tra le cose esistenti, c’è anche una qualche sostanza la quale non presuppone affatto né movimento né corruzione né generazio­ne”.

Aristotele faceva notare, inoltre, che se si afferma che tutto è in movimento, si ammette di fatto una verità. D’altra parte, si neghe­rebbe l’esistenza della contraddizione, poiché, ammessa la realtà della contraddizione, tutto è identico a tutto e non è necessario che nulla si muova. Non vi sarebbe divenire, né passaggio dall’uno all’altro, bensì quiete. Un paradosso simile si può scorgere nelle concezioni dialettiche contemporanee, nelle quali il dinamismo più convulso porta, alla fine, alla più completa monotonia. Già Schel­ling aveva acutamente sottolineato che “le aspre opposizoni” hegeliane si risolvevano in un noioso divenire ideale: l’eterno ritorno, la ruota che gira senza fine.


3. L’oggettività della conoscenza sensibile


3.1. Il relativismo sensista

Come abbiamo già fatto notare, uno degli argomenti preferiti dagli scettici si fonda sulla convinzione che i sensi non ci offrono delle conoscenze certe e sicure. Tali conoscenze sarebbero relative al soggetto che le possiede, infatti, riguardo ad esse, si osserva una disparità di giudizi, motivata dalle diverse valutazioni dei singoli soggetti intorno ad uno stesso oggetto, o di un medesimo soggetto in momenti diversi.

Aristotele presentava nel modo seguente le posizioni sopra esposte: “Allo stesso modo anche la teoria secondo cui la verità risiede nelle apparenze è giunta a questi pensatori dall’os­servazione delle cose sensibili. Infatti, a parer loro, la verità non è quella che viene giudicata secondo il numero grande o piccolo di quelli che la professano, ma la medesima cosa, quando viene gustata, ad alcuni sembra esser dolce e ad altri amara, e di conseguenza, se tutti fossero malati e tutti fossero pazzi e soltanto due o tre persone fossero sane e conservassero l’uso della ragione, sembrerebbe che proprio queste ultime fossero malate e pazze, e gli altri no. Inoltre quei filosofi dicono che parecchi animali ricevono delle medesime cose impressioni con­trarie a quelle che riceviamo noi, e che persino allo stesso individuo le proprie impressioni sensibili non appaiono sempre le medesime. E pertanto non risulta con chiarezza quali di queste impressioni siano vere e quali siano false, giacché non c’è alcun motivo per ritenere alcune più vere di altre, ma sono tutte vere allo stesso modo. Ecco perché Democrito afferma che o nulla è vero o, almeno, la verità non ci appare con chiarezza. Insomma costoro, proprio perché identificano il pensiero con la sensazione e considerano quest’ultima come alterazione, sosten­gono che le impressioni ricevute mediante la sensazione siano necessariamente vere”.

Dalla precisazione aristotelica si deduce che tali filosofi, che oggi chiameremmo sensisti o materialisti, ritengono che tutto il sen­sibile si può considerare vero, ma non nel senso di un’adeguazio­ne con la realtà: per logica conseguenza, tutto è incerto. Non si rendono conto che alla radice della conoscenza c’è l’immaterialità, senza la quale non si può cogliere la realtà, ma soltanto delle semplici mutazioni corporee. Infatti, sebbene la conoscenza sensibi­le presupponga una modificazione corporea, in quanto coinvolge delle potenze organiche, tale mutazione non è ancora vera e propria conoscenza. Quest’ultima, infatti, non essendo un movi­mento ma un’operazione immanente, non può ridursi alla rozza e inadeguata immagine della influenza fisica del corpo sensibile sul corpo del conoscente.

Le dottrine materialiste ed empiriste, giacché non fanno distin­zione fra conoscenza intellettuale e sensibile, e non comprendono la vera natura di quest’ultima, riducono il vero ad una modifi­cazione materiale spazio‑temporalmente situata e, pertanto, unica e irripetibile, dell’organo sensitivo. Ogni conoscenza sarebbe una sensazione, e ogni sensazione sarebbe essenzialmente contingente, relativa e, di conseguenza, incerta. Una volta ridotto tutto a materia, compare l’indeterminatezza che la materia comporta. Ciononostante, uno sguardo metafisico al mondo corporeo consente di scoprire che la materia è sempre determinata da una forma e che conosciamo le cose più per la forma che per la materia: un oggetto dei tutto materiale sarebbe inconoscibile; ed un soggetto comple­tamente materiale non potrebbe aprirsi conoscitivamente alla real­tà. (Con il sensismo va spesso congiunta l’idea che il sensibile si muove sempre e in tutte le direzioni, così che non ci sarebbe nulla di definitivamente vero.)

Tale commistione di corporalismo sensista e dinamicismo senza finalità è una figura filosofica che ricompare periodicamente nel pensiero occidentale. Nell’ultimo decennio è ricomparsa special­mente fra gli strutturalisti, che si ispirano a pensatori come Spino­za, Freud e Nietzsche, il cui pensiero serve da base a queste concezioni che, peraltro, sono perfettamente in armonia con una diffusa mentalità edonista e relativista.


3.2. La realtà delle qualità sensibili

Con l’avvento della cosiddetta “nuova scienza”, le qualità sono state considerate soggettive sia in ambienti scientifici sia in quelli filosofici dominati da posizioni critiche. In ambito fisico si pensò che le qualità secondarie (i sensibili propri degli aristotelici) fosse­ro soggettive; e, con la psicologia idealista, si ritenne che fossero tali anche le qualità primarie (estensione, movimento, ecc.), giun­gendo, così, ad abbandonare del tutto il realismo metafisico. Kant, infatti, affermerà: “Ma che cosa possano essere gli oggetti in se stessi, per illuminata che sia la conoscenza dei loro fenomeni, che soltanto ce n’è data, non ci sarebbe mai noto” dato che “i fenomeni non possono esistere in sé, ma soltanto in noi”. Se, ad esempio, ci interrogassimo sulla realtà di alcune gocce di pioggia, potremmo sostenere non solo che esse sono meri fenomeni, ma anche che la loro forma rotondeggiante e perfino la superficie su cui cadono non sono dati in sé, ma semplici modificazioni della nostra intuizione sensibile.

Già Galileo, prima di Cartesio, Locke e Kant, aveva affermato che il calore, il sapore, i colori, ecc. erano semplici modificazioni dei soggetto senzíente: soltanto il movimento era per lui reale, un movimento che, a motivo della propria multiformità e della varietà dei soggetti su cui agisce, provoca l’illusione di qualità differenti; in realtà, però fuori di sé.

Tali affermazioni non sono scientifiche, ma filosofiche e, per di più, infondate. La meccanica classica poteva, per semplificare la ricerca, limitare la propria indagine al movimento; ma essa non poteva ridurre il reale a questo aspetto, come lo stesso sviluppo successivo della fisica ha mostrato, privando il meccanismo ridu­zionista del suo presunto fondamento scientifico.

L’antropologia biologica contemporanea, da parte sua, ha mostrato con minuziose descrizioni il valore oggettivo della conoscenza sensibile. Uno dei suoi principali rappresentanti, Arnold Gehlen, nonostante le deficienze della sua antropologia, ritiene che gli oggetti non si presentino soltanto come causa e origine delle impressioni sensibili, ma prima di tutto come cose oggettive, unità autonome ed effettivamente esistenti, alle quali si riferisce la percezione. L’oggetto ha un carattere indipendente e, in certo senso, “assoluto”. Ad esempio, è certo che i colori vengono conosciuti attraverso il dato luminoso che impressiona l’organo visivo; tuttavia nella percezione primaria, tale relazione non appare affatto. Ciò che si coglie non è il mezzo per il quale mi si dà l’oggetto, ma l’oggetto stesso come qualcosa che sta di fronte al soggetto senziente ed è altro da lui e dalla sua sensazione.

S. Tommaso, commentando Aristotele, sostiene, di dontro alle posizioni soggettiviste, che “il movimento secondo la quantità è diverso da quello che avviene secondo la qualità e la forma. E anche se si concede che il movimento secondo la quantità è continuo nelle cose, e che tutte si muovono sempre insensibilmente con questo movimento, tuttavia, secondo la qualità e la forma non tutto si muove sempre. Per questo si può avere una conoscenza determinata delle cose; infatti, queste si conoscono più per la loro specie o forma che per la quantità”. In realtà, gli enti hanno qualità, che ineriscono loro come accidenti e che noi percepiamo in modo immateriale, in accordo con l’oggetto formale e la portata di ogni, potenza sensitiva, ma non arbitrariamente; e sempre se­condo una ragione obiettiva. Percepiamo le qualità delle cose, anche se non tutte, immediatamente, poiché esse sono ciò che primariamente e propriamente muove l’organo dei sensi; e, per mezzo di esse, cogliamo le quantità in modo concomitante e immediato, anche se indiretto.

La negazione della portata extrasoggettiva della conoscenza delle qualità sensibili compromette del tutto il realismo gnoseologico, poiché la conoscenza intellettuale prende le mosse, in ultimo termine, dal coglimento dei sensibili propri. Nella conoscenza sensibile vi è stabilità e non contraddizione; ad esempio, un ali­mento non si presenta mai al gusto dolce e amaro insieme; e, di per sé, la dolcezza è sempre tale. Ciò che invece può succedere, senza compromettere l’intera conoscenza sensibile, è che, per una deficiente disposizione organica, non si percepisca bene un oggetto in un momento determinato.

I sensi esterni colgono immediatamente i propri oggetti come qualcosa di extrasoggettivo: questa è un’evidenza indiscutibile. In modo immediato e senza alcuna esitazione, noi ci rendiamo conto che l’oggetto conosciuto è qualcosa di reale e non si identifica con la nostra conoscenza. La conoscenza dei sensi esterni è l’intuizione di un oggetto fisicamente presente, senza la mediazione di alcuna specie espressa. Come tutte le facoltà conoscitive, anche i sensi esterni sono attivi, ma non producono i loro oggetti: da questo punto di vista sono recettivi, poiché non producono l’oggetto né secondo la sua materia, né secondo la sua forma, né secondo la sua presenza (come pretendono invece i diversi idealismi), ma lo conoscono nella sua realtà oggettiva. Essi producono soltanto un’at­tività conoscitiva, una praxis peculiare per la quale attingono il proprio oggetto. Tale completa transoggettività degli oggetti sensi­bili non è apparente, ma vera.


3.3. Gli errori dei sensi

Non è però incontestabile che i sensi cadono in errore? Rispon­diamo con Gilson che “non bisogna farsi impressionare dai famosi ‘errori dei sensi’ né meravigliarsi dell’enorme uso che ne fanno gli idealisti. Costoro sono gente per cui il normale non può che essere un caso particolare del patologico (…). Di conseguenza, bisogna considerare come errori dello stesso tipo gli argomenti che gli idealisti prendono in prestito dagli scettici sui sogni, le illusioni dei sensi e la pazzia. Di fatto vi sono errori visivi; ma questo prova, innanzitutto, che non tutte le nostre percezioni visive sono illuso­rie. Quando uno sogna non si sente diverso da quando è sveglio, ma quando è sveglio sa di trovarsi in una situazione totalmente diversa da quando sogna; egli sa, anche, che non si possono avere le cosiddette allucinazioni senza avere avuto prima delle sensazio­ni, come sa che non potrebbe sognare nulla senza essere stato prima sveglio (…). Il motivo per cui queste illusioni sono tanto inquietanti per gli idealisti è che essi non sanno come provare che si tratti di illusioni; ma ciò non deve inquietare il realista, per il quale soltanto esse sono veramente illusioni”.

In una persona normale è la percezione adeguata ad essere abituale, mentre l’errore sensoriale è l’eccezione: i sensi, di per sé, sono sempre veridici; possono cadere in errore soltanto per acci­dens nei sensibili comuni, e solo per indisposizione nei sensibili propri. S. Tommaso offre, al riguardo, la seguente spiegazione: “Circa determinati oggetti, il giudizio dei sensi sorge spontanea­mente, come avviene per i sensibili propri; circa altri, invece, il giudizio segue una certa comparazione che si realizza nell’uomo grazie alla facoltà cogitativa, una potenza sensibile corrispondente all’estimativa naturale degli animali; questo è il modo in cui i sensi giudicano intorno ai sensibili comuni e ai sensibili indiretti. L’operazione naturale di un ente è sempre uniforme, a meno che sia direttamente ostacolato da un difetto intrinseco o da un impe­dimento estrinseco. Perciò, il giudizio del senso è sempre vero a riguardo dei sensibili propri, a meno che vi siano impedimenti nell’organo corporeo o nelle condizioni esterne; mentre, quanto al sensibili comuni e indiretti, il giudizio dei sensi è a volte falso”.

Gli errori e le illusioni percettive, i difetti dei sensi, le allucina­zioni o le confusioni del sogno con la veglia, ecc. sono una conferma indiretta del realismo: manifestano, infatti, la distinzione fra verità ed errore, e la possibilità che il soggetto, per malattia o per altre cause, non si adegui alla realtà. Ne è prova il fatto che l’uomo si rende conto di tali imperfezioni: nella rettifica dell’erro­re, il reale si manifesta in quanto tale, quindi come esplicitamente diverso dall’apparente. Facciamo notare che la nozione classica di sensibile proprio è simile a quella moderna di qualità seconda­ria: mentre il concetto di qualità primaria è assimilabile a quel­lo di sensibile comune. Ebbene, la tradizione su questo punto difende una tesi opposta rispetto a quella sostenuta dal pensiero moderno: essa ritiene, infatti, che si diano più errori nei sensibili comuni che nei sensibili propri’. Quando si obietta che anche nel coglimento dei sensibili propri si danno errori, occorre rispondere che tali equivoci non sono opera dei sensi ‑ salvo nel caso di lesioni organiche ‑ ma della fantasia o immaginazione la quale, non rettamente disposta, può associare e comporre fra loro in modo incongruo le impressioni acquisite attraverso i sensi esterni. Questo accade, sembra, a quei dementi che hanno l’organo cerebrale della fantasia lesionato.

A volte si può dubitare se una sensazione corrisponda o meno ad un oggetto fisicamente presente, poiché la fantasia creatrice può immaginare una sensazione (sensazione immaginaria). Tut­tavia, chi si trovi in stato di veglia e abbia il pieno possesso della propria attività razionale riconosce le sensazioni dei sensi esterni come niente affatto immaginarie, anche se in qualche caso eccezionale possa nutrire dei dubbi. Inoltre, queste illusioni della fantasia non conducono di per sé a dei giudizi falsi, ma soltanto quando ci si lasci vincere dalle apparenze. La forza della posizione realista non viene incrinata nemmeno dal fatto che, nella percezione degli oggetti sensibili, non sempre si distingue chiaramente ciò che appartiene alla sensazione attuale da ciò che viene aggiunto dall’immaginazione fondata su espe­rienze precedenti. Si può certamente parlare, come fa Gehlen, di “struttura simbolica della percezione”: abitualmente noi per­cepiamo una parte degli oggetti e aggiungiamo immaginativa­mente il resto, secondo un modello stabile che acquista un certo carattere simbolico: ad esempio, scorgiamo lo spigolo di un tavolo e immediatamente ne integriamo la figura grazie allo schema percettivo corrispondente. Ovviamente, le integra­zioni apportate dalla fantasia sono vere se procedono realmente dalle esperienze previe adeguate al caso in esame; altrimenti, possono essere false per accidens o dubitabilí, come avviene al mutilato che accusa dolori interessanti il tronco attribuendoli ad una gamba inesistente, ma rappresentata dalla fantasia.

In conclusione, in certe situazioni può essere difficile sapere se una percezione concreta è reale o apparente, ma si tratta sempre di casi limite (similmente può essere difficile, in taluni casi, stabilire se un vivente è animale o vegetale). Ad ogni modo, vi sono dei criteri naturali di discernimento: ogni senso giudica meglio dei suoi sensibili propri che non dei sensibili comuni o di quelli propri di altri sensi; le sensazioni corrispondono a realtà nei soggetti sa­ni; da svegli si distingue chiaramente il sogno dalla realtà, ecc.


4. Analisi del relativismo


Fra gli argomenti scettici, quello della relatività della conoscen­za, da noi sistemato al terzo posto nell’elenco sopra esposto, è forse il più profondo. Anche se la sua diffusione popolare è avvenuta in questo secolo ‑ si pensi al risaputo “tutto è relati­vo” ‑, esso era già stato formulato dai primi scettici e sofisti. Il relativismo è soprattutto un antropocentrismo, che potrebbe essere ben sintetizzato dalla famosa affermazione di Protagora: “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Già abbiamo mostrato l’infondatezza di simile pretesa.


4.1. La critica di Husserl

Il relativismo ha ottenuto un eccessivo credito fra i nostri contemporanei, ma è stato anche bersagliato da critiche implacabi­fi. Husserl afferma che il relativismo individuale, il quale afferma che per ciascuno è vero ciò che a lui sembra vero, è una teoria che viene confutata nel momento stesso in cui la si formula: è un autentico controsenso, perché il senso delle sue affermazioni nega ciò che è implicato dal senso di ogni affermazione, cioè, che ciò che si afferma è in se stesso vero.

Ma anche il relativismo specifico, e in particolare l’antropocentrismo, è una teoria gravata delle peggiori assurdità concepibili in una teoria. Si fa, infatti, portatrice di un ulteriore controsenso, quello per cui una stessa proposizione può essere vera per un soggetto della specie uomo e falsa per un soggetto di una specie diversa. Ma una stessa proposizione non può essere vera e falsa: basta riflettere sul semplice significato delle parole “vero” e “falso”, e si capisce che è un controsenso parlare di una verità per questo o quell’individuo, o per questa o quella specie. “Ciò che è vero è assolutamente vero, è vero (in sé); la verità è unica e identica, sia che la colgano nel giudizio uomini o mostri, angeli o dei”.


4.2. La critica di Frege

Gottlob Frege, anticipatore della critica di Husserl allo psicolo­gismo antropocentrico, si scontrò vigorosamente con il sensismo materialista sotteso al relativismo. Vale la pena riportare alcune delle sue affermazioni contenute nell‘Introduzione a I Fondamenti dell’aritmetica (1884): “Occorre evidentemente ricordarsi bene di ciò: che una proposizione non cessa di essere vera, allorché io non la penso più, come il sole non cessa di esistere allorché io chiudo gli occhi. Altrimenti si giunge a concludere che, nella dimostrazione del teorema di Pitagora, è necessario misurare la quantità di fosforo di cui abbisogna il cervello per compiere questa dimostrazione; o si giunge ad aver timore, in studi come l’astro­nomia, di estendere le proprie osservazioni a tempi troppo lontani, per paura che qualcuno opponga “tu calcoli 2 X 2 = 4; ma non sai che questa rappresentazione numerica si è trasformata col trascorrere dei secoli, che possiede tutta una storia? Si può invece dubitare che essa abbia raggiunto già da molto il grado di sviluppo che ora ha. Chi ti assicura, dunque, che essa fosse vera, fin da quei lontani tempi ai quali ti riferisci? Non potrebbe darsi, invece, che gli esseri allora viventi avessero in mente 2 X 2 = 5, e da questa loro rappresentazione sia poi sorta, solo lentamente, attra­verso una faticosa selezione naturale nella lotta per l’esistenza, l’affermazione attuale 2 X 2 = 4, che a sua volta potrebbe essere destinata a trasformarsi nell’altra 2 X 2 = 3?. (…) Se nel flusso ininterrotto di tutte le cose non esistesse proprio nulla di immobile, di eterno, allora cesserebbe la conoscibilità del mondo, e tutto precipiterebbe in una grande confusione. Qualcuno pensa ‑ a quanto pare ‑ che i concetti germoglino, nell’anima, come le foglie sulle piante, e pensa che debba essere possibile cogliere la loro essenza, cercando proprio di seguire questo modo di formarsi e cercando di spiegarlo psicologicamente per mezzo della natura dell’anima umana. Ma una tale concezione trascina tutto nel soggettivo, e finisce, se sviluppata nelle sue ultime conseguenze, col sopprimere la verità”.


4.3. Relativismo e sensismo

Esaminiamo ora con maggior attenzione il rapporto fra relati­vismo gnoseologico e sensismo materialista. Se la conoscenza viene ridotta ad una mutazione corporea, allora tutto ciò che appare può essere considerato senza distinzione come vero o come falso. Infatti, se si confrontano le percezioni di soggetti diversi, si vede che lo stesso soggetto è differente per ciascuno di essi, per cui bisogna concludere che tale oggetto è e non è simultaneamente lo stesso (ciò che è così per me, è non‑così per te). In tal modo, l’affermazione che “tutto ciò che appare è vero” ha portato i relativisti, data la diversità delle opinioni umane, a sostenere la realtà della contraddizione.

Discutendo la posizione di Protagora, Aristotele dice che “se, però, non tutto è relativo, ma vi sono anche alcune cose che esistono di per sé, allora ogni apparenza non dovrebbe essere vera, giacché l’apparenza è solo ciò che appare a qualcuno; sicché colui il quale sostiene che tutte le apparenze sono vere, considera tutte le cose esistenti come relative”.

In effetti, se non si stabilisce che tutto è relativo non si può dire che tutto ciò che appare è vero. Qualora ci fossero realtà assolute, che prescindono dalla correlazione con il senso e l’opinione, in esse l’essere non s’identifica con l’apparire, in quanto quest’ultimo dice relazione al senso e all’opinione, poiché deve farsi presente sempre a qualcuno”.

Contro questo tipo di sofisti, Aristotele argomenta ad hominem, facendo notare che, in ogni caso, il relativismo dovrebbe venire formulato in modo più ristretto: “devono ben guardarsi dall’asse­rire l’esistenza dell’apparenza, ma devono precisare che ciò che appare esiste soltanto per la persona alla quale appare, nel tempo in cui appare e nel modo in cui appare. Se sottostanno alla discussione, ma non fino a questo segno, accadrà ad essi di fare ben presto asserzioni che sono in contrasto tra loro. È possibile, infatti, che per la medesima persona un oggetto appaia come miele alla vista ma non al gusto e che, siccome gli occhi sono due, le cose non appaiono identiche a ciascuno di questi due organi, qualora questi abbiano una diversa capacità visiva”. Portata alle ultime conseguenze, la posizione relativista è insostenibile.

È però possibile confutare i relativisti non soltanto ad hominem, ma anche secundum veritatem, cioè mostrando la falsità della tesi da cui essi partono. Perché, come è già stato detto, se tutto l’apparen­te è vero, risulta necessario rendere ogni cosa relativa al senso e all’opinione. Da ciò ne segue che non vi sarebbe nulla se nessuno lo percepisse o lo pensasse. Il che è manifestamente falso, poiché molte cose esistono realmente senza che nessuno le percepisca o abbia delle opinioni intorno ad esse, come tante cose che stanno in fondo al mare o nelle viscere della terra. In conclusione, non tutto è relativo alla conoscenza.

Accettare la tesi relativistica equivarrebbe ad affermare che nessun ente esiste se non è sensibile in atto. Secondo un idealismo vicino a Berkeley (1685‑1753), si potrebbe dire che l’essere si identifica con l’essere percepito (esse est percipi). Esisterebbero soltanto le cose sentite dagli uomini o da altri esseri conoscenti: tutta la realtà sarebbe, come il sensibile in atto, un atto di colui che sente. Insomma, il senso sentirebbe se stesso. Ma ciò è impossibile, poiché la vista, ad esempio, non vede se stessa, bensì il colore.
Neppure è corretto dire che sensibile e senso sono correlativi, in una specie di coimplicazione di soggetto e oggetto, in modo tale che se mancasse l’uno verrebbe meno l’altro. Una cosa simile avviene nella dialettica marxista della coscienza sensibile, secondo la quale la materia si definisce per la sua relazione con il senso e il senso per la sua relazione con la materia. In altra direzione, il concetto heideggeriano di “essere nel mondo” propone una strut­tura unitaria nella quale l’esistente umano è sempre già nel mondo e il mondo stesso è una dimensione del modo di essere dell’uomo. In realtà, non vi è correlazione, ma relazione unilaterale, poiché il senso si riferisce al sensibile e non viceversa. L’oggetto sensibile non viene costituito nella sensazione, né si trasforma per il fatto di essere sentito. L’oggettività non è ancorata alla soggettività, ma alla realtà. L’essere del percepito è indipendente dall’essere percepito: l’essere non si riduce all’essere per l’uomo.

Tratto da: http://home.datacomm.ch/giuseppe.rossi/llano/filosofia__della__conoscenza4.htm