Perchè si studia la storia della filosofia (Cap. IX)

LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO (V)
Di Antonio Livi  Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO NONO. LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E  TOMMASO D’AQUINO. La metafisica in rapporto all’etica. Caratteristiche del sistema filosofico tommasiano.

La metafisica in rapporto all’etica 
A partire da Kant l’orientamento comune è stato di scavare un solco profondo tra etica e metafisica. Per Kant la separazione delle due discipline era inevitabile, data la totale incapacità della metafisica di raggiungere verità certe intorno alla realtà (la cosa in sé, il noumeno) e l’esigenza nello stesso tempo di fornire criteri sicuri dell’agire umano. Così Kant poté elaborare una Critica della ragion pratica interamente svincolata dalla Critica della ragion pura. Più recentemente Emmanuel Lévinas, dopo aver respinto le pretese totalizzanti della metafisica, ha conferito all’etica stessa compiti metafisici: «La morale ha una portata indipendente e preliminare. La filosofia prima è un’etica». L’etica non è impiantata nella metafisica, ma è essa stessa la metafisica. In effetti, a parere di Lévinas, soltanto l’etica può fornire la spiegazione esaustiva e conclusiva della realtà umana, non l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la cosmologia, la metafisica. Molto più drastiche e pesanti erano state le critiche di Nietzsche: per far nascere il superuomo è necessario spezzare tutte le catene con cui la cultura ellenico-cristiana ha imprigionato l’uomo, in particolare le catene della metafisica (platonica) e della morale (cristiana). Ciò che si può concedere alle molteplici critiche mosse dalla filosofia moderna e contemporanea alla metafisica classica è la sua inettitudine a procurare un adeguato fondamento alla morale a causa di una concezione troppo essenzialistica dell’essere che ignora il primato assoluto della persona non solo nell’ordine assiologico ma anche ontologico. Solo una robusta metafisica della persona può fornire un proporzionato fondamento all’agire della persona e pertanto all’ordine morale. Per questo, assicurare una fondazione metafisica alla morale vuol dire mettere alla base della morale non una metafisica della sostanza (Aristotele), dell’uno (Plotino), della monade (Leibniz), ma una metafisica dell’uomo considerato come persona. L’opera in cui Tommaso chiarisce meglio i rapporti tra etica e metafisica è il suo commento all’Etica nicomachea, approfondendo il pensiero di Aristotele che su questo punto era stato di un’estrema chiarezza. Nella sua opere Aristotele aveva affrontato la questione dei rapporti tra ragion pratica e ragion speculativa a più riprese e la soluzione che aveva proposto era sempre la stessa: relativa autonomia della disciplina morale, la quale dispone di un oggetto e di princìpi propri, e, allo stesso tempo, sostanziale subordinazione del pensiero morale al sapere speculativo. Questa è anche la tesi che Tommaso fa sua, arricchendola di ulteriori considerazioni, nel suo splendido commento. La questione dei rapporti tra le diverse forme di sapere si presenta subito nel primo capitolo, dove Aristotele afferma che tutto l’agire umano è ordinato a qualche fine e che tra i vari fini esiste un certo ordine a seconda della loro importanza. Lo stesso ordine si rispecchia anche nelle operazioni e nelle scienze, perché «i fini delle scienze architettoniche sono più importanti dei fini di quelle subordinate. Infatti solo in funzione di quelli si seguono anche questi». Commentando questo capitolo Tommaso dice che compito della ragione è “conoscere l’ordine delle cose”. E qui egli distingue subito quattro tipi di ordine e quindi quattro modi di rapportarsi della ragione all’ordine. I quattro ordini sono quello ontologico, quello logico, quello morale e quello artistico. Rispetto all’ordine ontologico, «la ragione si limita a constatare, poiché [la realtà] non è frutto della sua opera»[33]. Rispetto all’ordine logico, la ragione «lo realizza nell’atto suo proprio: per esempio quando ordina tra loro i suoi concetti e i segni dei concetti, perché si tratta di voci significative»[34]. Anche nell’ordine morale è protagonista la ragione; è infatti «l’ordine che la ragione, riflettendo, effettua nelle azioni volontarie»[35]. Della stessa padronanza gode la ragione rispetto all’ordine artistico: è infatti «l’ordine che la ragione realizza negli esseri esterni di cui essa è la causa»[36]. Subito dopo Tommaso precisa che a ciascun ordine corrisponde un genere di sapere e di scienza; infatti, «le diverse scienze derivano dai diversi ordini che sono oggetto di una specifica considerazione della ragione»[37]. La filosofia naturale «ha come oggetto proprio l’ordine degli esseri su cui la ragione umana riflette senza esserne la causa, e nell’àmbito della filosofia naturale facciamo rientrare anche la metafisica»[38]. La logica o filosofia razionale realizza l’ordine della ragione stessa, «considerando l’ordine delle parti del discorso tra di loro, e l’ordine dei princìpi tra di loro e in relazione alle conclusioni»[39]. La filosofia morale «riflette sull’ordine delle azioni della volontà»[40]. Nelle arti meccaniche «la ragione concretizza l’ordine delle cose esteriori come elaborazione del pensiero umano»[41].I tre ordini — logico, etico e artistico — nei quali la ragione è protagonista sono subordinati all’ordine ontologico, di cui la ragione è solo umile testimone. Infatti la logica ordina la ragione speculativa alla conoscenza dell’essere e del vero. La morale ordina la ragione pratica alla conoscenza e alla realizzazione del bene. L’arte ordina la ragione alla conoscenza e all’attuazione del bello e dell’utile. Ma l’essere, il vero, il bene, e il bello cadono tutti sotto la considerazione della metafisica, la quale quindi svolge un ruolo architettonico rispetto a tutte le altre scienze e modi del sapere. Così, dalla ripartizione dei vari ordini a cui si trova relazionata la ragione umana già si evince la subordinazione della morale alla metafisica. Ma su questo punto il pensiero di Tommaso è molto più preciso e articolato e ne parla diffusamente soprattutto nei libri VI e X del Commento all’Etica nicomachea. Gli argomenti principali con cui egli giustifica la subordinazione della morale alla metafisica sono tre: il primo si basa sulla subordinazione della prudenza (regina delle virtù morali) alla sapienza; il secondo sulla subordinazione del bene all’essere; il terzo sul primato della contemplazione della divinità nel conseguimento della felicità.
Nella concezione tommasiana la subordinazione del bene all’essere e quindi della morale alla metafisica è ancora più accentuata che in Platone, in Aristotele e nei neoplatonici. E non si tratta semplicemente di una subordinazione logica ma anche ontologica, reale. C’è anzitutto una subordinazione logica in quanto il concetto di esse nella sua vastità estensiva e nella sua ricchezza intensiva abbraccia ogni altro concetto[42]. Ma c’è anche una rigorosa e profonda subordinazione ontologica, perché il bene che presiede all’ordine dell’agire umano non è altro che una facciata dell’essere, è l’essere stesso visto in quanto appetibile. Per precisare in che modo il bene aggiunge qualche cosa all’essere Tommaso distingue tre generi di aggiunte: a) l’aggiunta dell’accidente riguardo alla sostanza di qualche cosa che non appartiene alla sua essenza o definizione; b) l’aggiunta di una specie al genere, contraendolo e determinandolo in tal modo che il genere diviene parte della sua definizione; c) l’aggiunta che si ottiene mediante la privazione, la quale aumenta la nostra conoscenza di una cosa senza tuttavia aggiungere un nonché di reale alla cosa stessa. Per esempio, quando aggiungiamo il termine “cieco” al termine “uomo” noi richiamiamo la nostra attenzione a una mancanza e non a una aggiunta nell’ordine reale: l’aggiunta avviene soltanto sul piano concettuale e non sul piano dell’essere. In base a questa divisione, ci si aspetterebbe che Tommaso collocasse l’aggiunta del bene all’essere nel secondo tipo, e invece egli non lo fa, anzi lo esclude esplicitamente; infatti, come il bene non è un “accidente“ così non è pure una specie particolare di essere. Il genere di aggiunta a cui appartiene il bene riguarda l’ordine concettuale, logico, non quello reale: «È necessario che il bene, per il fatto che non contrae l’ente, aggiunga all’ente qualche cosa che sia soltanto di ragione. Ora, ciò che è soltanto di ragione non può essere che duplice, cioè o una negazione o qualche relazione. Infatti, ogni positività assoluta significa qualcosa di esistente nella realtà. Così dunque all’ente, che è la prima nozione dell’intelletto, l’uno aggiunge soltanto di ragione una negazione: si dice infatti uno nel senso di ente indiviso; invece il vero e il bene si dicono positivamente, per cui non possono aggiungere se non una relazione di ragione. […] È necessario dunque che il vero e il bene aggiungano al concetto di ente la relazione di ciò che è perfettivo (rispetto all’intelletto oppure rispetto alla volontà)»[43].
Il primato dell’essere è un primato che sottende anche l’ordine dell’agire. In effetti il bene (o valore), che è ciò che muove all’agire, non esula dall’ordine dell’essere ma lo presuppone e trova proprio in esso il suo coronamento. L’agire, come precisa Tommaso, tende sempre all’essere, è anelito di essere, come poi dirà nell’Action Maurice Blondel.
Il modo con cui Tommaso stabilisce la tesi della subordinazione della morale alla metafisica può anche lasciare perplessi, perché non è chiaro come uno studio delle cause ultime e delle realtà divine possa diventare un utile strumento di guida per l’agire umano nella contingenza storica. Per orientare l’uomo nella sua condotta morale non basta infatti una metafisica delle realtà separate (Dio e gli Angeli) ma occorre una metafisica dell’uomo stesso, una metafisica della persona umana. In effetti si possono fissare solide basi per l’agire umano soltanto se si chiarisce il mistero della persona: ossia se si fa vedere che l’uomo non è una realtà esclusivamente materiale, bensì una realtà primariamente spirituale, vale a dire un ente sussistente nell’ordine dello spirito, una persona. Non si può prescrivere all’uomo — come pretende il formalismo kantiano — di obbedire all’imperativo categorico; non si può imporre alcun precetto alla coscienza se non c’è consapevolezza critica, in colui che sottostà a tali precetti, sulle ragioni per cui è tenuto a osservarli. La questione ontologica precede necessariamente la questione etica. La metafisica della persona precede l’etica della persona. Ciò manca — come ordine logico — alla nuova filosofia morale del Novecento, e in particolare all’etica anti-intellettualistica e antimetafisica della filosofia ebraica (Martin Buber, Vladimir Jankélévitch, Emmanuel Lévinas), che pure è ricchissima di intuizioni valide.
Compito della metafisica è assicurare un solido fondamento alle realtà finite e pertanto contingenti riconducendole ai loro supremi princìpi. La metafisica dell’essere radica e salva gli enti collegandoli all’esse ipsum subsistens. La metafisica dell’uomo fonda e salva il suo essere saldandolo strettamente alla dimensione dello spirito (dimostrando la spiritualità dell’anima e dotandola di un proprio actus essendi) ed elevandolo in tal modo al grado di persona, che è sempre un sussistente nell’ordine dello spirito: è un “subsistens rationale vel intellectuale” secondo la definizione di Tommaso. La metafisica fonda la morale proprio perché chiarisce che lo spirito dell’uomo è uno spirito incompiuto e imperfetto, il quale è chiamato alla piena realizzazione di sé stesso facendo il bene ed evitando il male. L’agire morale, insomma, presuppone — sia pure al livello inespresso del senso comune — precise certezze metafisiche. La prima certezza è che l’uomo sia una persona e non una cosa. La seconda è che il mondo umano in quanto mondo dello spirito sia un mondo sensato: che sia un regno dei fini e non della necessità o del caso; un regno dove si afferma l’essere piuttosto che il non-essere, il significato piuttosto che la perdita di senso. La terza è che l’uomo sia un essere incompiuto, un progetto anziché un’opera finita, e che proprio mediante l’agire morale — agire per il bene e secondo il bene — egli possa autodeterminarsi verso il proprio compimento. In breve: la metafisica chiarisce all’uomo che nel profondo del suo essere egli appartiene all’ordine dello spirito; la morale è la ragione che guida l’uomo nell’ardua fatica della piena realizzazione di sé come spirito finito proteso verso l’infinito.

Caratteristiche del sistema filosofico tommasiano
Quanto detto finora sul sistema tommasiano potrebbe magari indurre a considerarlo come un sistema razionalistico, dove tutto è chiaro e distinto e tutto è perfettamente spiegato. In realtà, il sistema di Tommaso è di per sé — per i suoi princìpi — aperto e dinamico. Il carattere “aperto” della filosofia tommasiana fa sì che essa si distingua nettamente dal razionalismo moderno (Descartes, Spinoza, Hegel), e allo stesso tempo anche dai grandi sistemi classici pre-cristiani. Come si vedrà nel par. 6 di questo capitolo, la metafisica tommasiana è del tutto nuova e irriducibile alle fonti greche, arabe e giudaiche cui Tommaso fece ricorso. Solo Tommaso, infatti, concepisce l’essere come «perfectio omnium perfectionum»[44], come «actualitas omnium actuum»[45], talché senza l’essere tutto precipita nel nulla: «Né si deve pensare che all’essere si possa aggiungere qualche cosa di formale, poiché l’essere di cui stiamo parlando è essenzialmente diverso dall’essere cui si possono fare delle aggiunte (cioè l’esse commune). Infatti nulla può venire aggiunto all’essere che gli sia estraneo, poiché all’essere nulla è estraneo se non il non essere, che non è né forma né materia»[46]. Infatti «l’essere è più nobile di qualsiasi altro elemento che l’accompagni. Perciò, in sede assoluta l’essere è più nobile anche del conoscere, supposto che si possa pensare di conoscere facendo astrazione dall’essere»[47]. Tommaso ribalta l’ordine gerarchico dei neoplatonici, i quali ponevano al supremo vertice del reale l’Uno, cui facevano seguire il Pensiero e quindi l’Essere. E si tratta di un rovesciamento non solo ontologico e logico, ma anche assiologico: l’essere infatti è il plesso di ogni perfezione ed è la corona di ogni nobiltà. Mentre tutti gli altri filosofi (i platonici, gli scolastici, gli idealisti) hanno dell’essere un concetto debole, cioè il concetto che vede nell’essere sola la linea di demarcazione tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra l’esistente e il nulla, Tommaso ha dell’essere un concetto fortissimo: l’essere tutto racchiude e dall’essere tutto promana, gli enti sono partecipazioni dell’essere, le perfezioni sia trascendentali sia predicamentali sono modalità dell’essere. Con questo nuovo concetto intensivo dell’essere Tommaso ha ricostruito tutta la metafisica: la metafisica su Dio (sulla sua esistenza, la sua natura, i suoi attributi, le sue operazioni: tutto viene rivisto e riletto alla luce dell’esse inteso intensivamente); la metafisica sull’uomo (l’anima è dotata di un proprio actus essendi che comunica anche al corpo quando la persona viene ridefinita come subsistens rationale vel intellectuale); la metafisica sugli angeli (la cui finitezza viene spiegata mediante la distinzione tra l’actus essendi e l’essentia, escludendo dalla natura angelica qualsiasi componente materiale).
Stando ai più recenti studiosi, la distinzione tra esse e id quod est, intesa come distinzione tra essere e l’ente particolare concreto, si troverebbe già nella famosa proposizione boeziana: «Diversum est esse et id quod est». Ma in Severino Boezio mancano l’idea della distinzione reale e la consapevolezza della fecondità che tale distinzione contiene in ordine alla soluzione di tutti i problemi più impegnativi della metafisica. In Boezio la distinzione pare avere più un valore logico che reale; infatti nel commento al De Hebdomadibus Tommaso afferma categoricamente che un ente composto non può essere il suo atto di essere, ma lo deve ricevere[48]. La grandissima importanza storica di  Boezio sta nel suo ruolo di traduttore e di commentatore di Platone, di Aristotele, di Porfirio e di Tolomeo, ma l’originalità di Tommaso rispetto ad Aristotele sta nel fatto che questi non ha concepito l’essere intensivamente, come una realtà a sé stante, bensì come un atto che accompagna una realtà determinata e in particolar modo la sostanza. L’essere (ente), per Aristotele, ha come analogato principale la sostanza e non l’actus essendi sic et simpliciter o l’esse ipsum subsistens. Ma Tommaso è originale anche rispetto a Platone e ai platonici: infatti, pur facendo proprio il concetto di partecipazione e l’iter speculativo dell’exodus e del reditus, egli non li applica all’Uno, alla Verità, alla Bontà e alla Bellezza come avevano fatto i neoplatonici, bensì all’essere (esse).
Tutto il sistema metafisico è strutturato da Tommaso a partire dalla nozione di esperienza del mondo, che la ragione possiede come prima conquista di ciò che la circonda. Se tutta la metafisica per Tommaso è fondata sulla nozione di “ente”, ne consegue la necessità di una coscienza; Tommaso non considera l’oggetto come qualcosa di assolutamente indipendente dal soggetto, ma lo vede in relazione al soggetto, cioè in rapporto alla coscienza con cui è appreso e giudicato; il primo principio della metafisica tomista è sintesi di soggetto e oggetto, quale prima autorivelazione della ragione che si apprende come coscienza dell’essere in quanto verum, cioè intelligibile; la verità, infatti, è per Tommaso percezione intellettuale dell’adeguamento del soggetto conoscente all’essere (actus essendi) proprio dell’oggetto conosciuto[49]. Perciò errano coloro che giudicano il pensiero dell’Aquinate alla luce di un arido oggettivismo, che offuscherebbe la ricchezza e la fecondità del soggetto, quali il genio di Agostino aveva rivelato.Per Tommaso la realtà è l’essere degli enti; non solo l’opaca e insignificante presenza del mondo quale mi appare nelle sue manifestazioni fenomeniche, percepite dai sensi (quella presenza senza senso che provoca la nausea nel celebre romanzo di Sartre), ma l’essere pieno di senso, cioè la realtà appresa e intesa razionalmente in un «quid» che esiste. Dalla coscienza ontologica perciò abbiamo l’essere come primo valore metafisico. La coscienza ontologica, dunque, è la valorizzazione dell’essenza aristotelica mediante l’actus essendi che ne è la base, il fondamento: l’atto di essere, infatti, è l’essere stesso come atto; nei suoi confronti, la potenza che lo limita negli enti finiti è appunto l’essenza; di qui che Tommaso operi tra l’essere e l’essenza di un ente concreto una specifica distinzione. Tale distinzione è necessaria per comprendere la diversità di valore che intercorre tra l’essenza (astratta) di un ente e la sua concreta esistenza; infatti non tutti gli enti, per il fatto che si apprendono come possibili in base a un’essenza astratta conosciuta, hanno di fatto l’esistenza, in quanto questa è una determinazione attuale percepita dalla coscienza ontologica tramite i sensi; quindi è un aspetto particolare dell’ente che connette l’oggetto al soggetto che l’ha appreso come ente, cioè come essenza che si dà nella realtà, in base alla nozione di essere, nozione universalissima e trascendente che sostanzia la coscienza soggettiva. L’esistere dunque, non è l’essere, ma ne è una determinazione, una particolare attuazione che la ragione coglie e giudica attraverso i sensi che lo avvertono.
Come abbiamo visto, l’essenza per Tommaso è quello che era per Aristotele, ossia “ciò che una cosa è”, mentre l’esistenza è attività di ciò che è, atto di essere; così la sostanza si può dire sinonimo di ente, in quanto è considerata «ente in sé esistente» mentre l’accidente è ciò che non ha in sé la ragione di essere. La causa è l’origine dell’ente mentre l’effetto ne è il prodotto; il fine è il motivo fondamentale di tutti gli atteggiamenti esistenziali dell’essere, nelle sue determinazioni sia generiche che specifiche; tali determinazioni, per Tommaso, sono appunto le categorie.
L’essere delle cose è dunque la «prima notitia» metafisica della realtà; non si tratta di una concezione dell’essere monistica, alla maniera di Parmenide, ma di una visione realistica, con fondamento logico nella prima evidenza del senso comune, che è quella del mondo come insieme dinamico di enti diversi; la nozione tommasiana dell’essere non esclude, anzi presuppone la molteplicità del reale. L’essere infatti è l’atto fondamentale e originario che l’intelletto coglie come elemento comune di un insieme innumerevole di enti, tra i quali ci siamo noi stessi e le cose che apprendiamo per mezzo della sensazione.

NOTE
[33] Tommaso d’Aquino, In primum librum “Ethicorum” Aristotelis ad Nichomacum expositio, I, 1.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Tommaso d’Aquino, In primum librum “Ethicorum”, cit., I, 2.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Ibidem.
[42] Cfr Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 1, a. 1.
[43] Tommaso d’Aquino, op. cit., q. 21, a. 1.
[44] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 4, a. 1 ad 3.
[45] Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de potentia Dei, q. 7, a. 2 ad 9.
[46] Ibidem.
[47] Tommaso d’Aquino, In primum librum “Sententiarum” Petri Lombardi, 7, 2 ad 9.
[48] Tommaso d’Aquino, In librum “de Hebdomadibus”, 2, n. 32.
[49] «Adaequatio intellectus ad rem» o «adaequatio intellectus et rei» (Cfr Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q.16, a.1).