FILOSOFIA DELLA CONOSCENZA (3)

CERTEZZA ED EVIDENZA. 1. Forza assertiva e contenuto proposizionale. 2. Il dubbio. 3. L’opinione. 4. La fede. 5. L’errore

Capitolo Terzo

CERTEZZA ED EVIDENZA


Esaminiamo adesso i diversi stati della mente rispetto alla verità, cioè l’aspetto soggettivo dell’apprensione conoscitiva dell’essere.


Forza assertiva e contenuto proposizionale


Nel capitolo precedente, abbiamo visto che la verità si presenta in senso proprio e compiuto nel giudizio. Ora, una delle dimensioni essenziali del giudizio è l’assenso: allorché si formula un giudizio, la mente aderisce alla proposizione nella quale il giudizio si esprime. Uno stesso contenuto proposizionale può avere una diffe­rente forza assertiva, come avviene nelle seguenti frasi: “hai superato l’esame!”; “hai superato l’esame?”; “credo che tu abbia superato l’esame”; “magari tu avessi superato l’esame!”; ecc. Come ricorda San Tommaso, “ bisogna considerare due atti della ragione: uno, per il quale si apprende la verità intorno a qualcosa (…); e l’altro è l’atto per il quale la ragione assente a quanto ha appreso”.

L’assenso rientra nella dimensione riflessiva della verità. Esso a volte è inevitabile: così avviene quando la proposizione è evidente, come nel caso dei primi principi. Ma vi sono altri casi in cui la proposizione non è in sé evidente, poiché la relazione fra soggetto e predicato non appare in modo chiaro: in tale caso l’assenso può essere dato; rifiutato o almeno sospeso. Da questi diversi modi in cui l’assenso può porsi di fronte al contenuto proposizionale, derivano direttamente i diversi stati della mente in rapporto alla verità: la certezza, il dubbio, l’opinione, e la fede. Si ha invece l’errore quando si assente ad una proposizione non conforme alla realtà.


l. La certezza

La certezza è lo stato della mente che aderisce fermamente e senza alcuna esitazione ad una verità. Innanzi tutto, la certezza è un fenomeno soggettivo, una disposizione dell’intelligenza nella quale si formula un giudizio in modo perentorio, dopo aver escluso il dubbio che l’affermazione contraria a quella accolta sia vera. In secondo luogo, per :analogia di attribuzione, può dirsi “certezza” anche l’evidenza obiettiva che fonda la certezza come stato psico­logico. È per questo che, quando un fatto è evidente, lo diciamo “certo”; mentre un’affermazione il cui contenuto generalmente non si realizza, viene definita “incerta”.


1.1. Certezza ed evidenza

L’evidenza è la presenza di una realtà che si dà in modo chiaro e inequivocabile: il fatto per cui il conosciuto è di fronte al conoscente nella propria realtà, cioè che si fa presente la realtà stessa. In tal modo, la certezza è, per dirla con Husserl, “l’espe­rienza vissuta dell’evidenza” (Evidenzerlebnis). L’evidenza costi­tuisce l’unico fondamento sufficiente della certezza (eccettuato, co­me si vedrà, il caso della fede). Come la verità si basa sull’essere del­la cosa, così la coscienza di possedere la verità si basa sulla manife­stazione obiettiva della realtà. Il voler porre un presunto fonda­mento soggettivo della certezza, conduce in un circolo vizioso, come avviene, ad esempio, per il criterio cartesiano della chiarezza e distinzione delle idee.


1.2. Certezza e verità

Da quanto si è detto si deduce che la certezza non si identifica con la verità, anche se si tratta di due nozioni strettamente connesse. Mentre la verità è la conformità dell’intelletto con la cosa, la certezza è uno stato dello spirito che, in condizioni normali, deriva dal trovarsi nella verità, cioè dal sapere. La certezza è una condizione del soggetto, una sicurezza, e, pertanto, in essa possono intervenire diversi fattori: ad esempio, la volontà libera può comandare l’assenso o il dissenso nei confronti di verità che non sono di per sé evidenti. Ciò spiega come, a volte, possiamo essere soggettivamente convinti di cose false. Tuttavia, sarebbe improprio denominare questo tipo di persuasione “certez­za”, poiché l’essere certi, in senso proprio, ha un fondamento obiettivo, nel quale manca l’adesione, per quanto decisa, al falso, cioè all’errore: si tratterebbe, semmai, di una certezza del tutto soggettiva.

Pertanto, diciamo che vi è propriamente certezza quando l’intel­letto aderisce ad una proposizione vera. In alcuni casi l’intelletto è mosso all’assenso in modo immediato dall’oggetto intelligibile. Ciò avviene, come si sa, nel caso dell’intellezione di primi principi, i quali richiedono all’intelletto un’adesione ferma e incondizionata. In questi casi, l’assentire o il dissentire sono talmente spontanei che, almeno inizialmente, sfuggono al nostro controllo. Una tale certezza proviene dall’evidenza obiettiva: sgorga immediatamente e senza il bisogno di discorrere sulla maggiore o minore evidenza delle cose che, per attribuzione, definiamo anche “certe”. Il principio di non‑contraddizione ‑ l’ente non è il non‑ente ‑ è la prima verità che sorge dalla nostra conoscenza della realtà: è la conoscenza umana più certa, e causa della certezza delle altre conoscenze, le quali vengono da essa illuminate.

Una simile certezza derivata immediatamente dall’oggetto non si dà soltanto nel caso dei primi principi, ma anche, in altra forma, allorché constatiamo sperimentalmente un fatto ‑ con i sensi, il quale, pertanto, viene conosciuto anche immediatamente dall’intel­ligenza. Inoltre, anche i primi principi non sono innati, bensì derivano per induzione (epagoghè) da queste certezze sensibili. Come dice Aristotele, essi non procedono in modo deduttivo da altre conoscenze intellettuali più universali e conosciute: derivano soltanto dalla sensazione.


1.3. Evidenza quoad se ed evidenza quoad nos

Le certezze che procedono immediatamente dall’oggetto cono­sciuto, si hanno nelle proposizioni in cui il predicato è incluso nel soggetto, e in molti giudizi di esperienza: si tratta di proposizioni evidenti di per sé (per se notae). In effetti, si dice “evidente” ogni enunciato nel quale, non appena si comprende il significato dei termini, si coglie la validità della proposizione. Ad esempio, sapendo ciò che i termini “tutto” e “parte” significano, imme­diatamente si comprende che il tutto è maggiore di ciascuna delle sue parti.

Conviene, però, fare una distinzione fra ciò che è evidente di per sé (per se notum quoad se) e ciò che è evidente per noi (per se notum quoad nos). Una notevole importanza metafisica riveste l’applicazione di questa distinzione alla proposizione “Dio esi­ste”: in sé stessa (quoad se) essa è evidente, poiché il predicato si identifica col soggetto, essendo Dio il suo stesso essere; ma rispetto a noi (quoad nos), che non sappiamo cosa sia Dio, e che non abbiamo una conoscenza chiara della sua essenza, essa non è affatto evidente. L’esistenza di Dio, pertanto, deve essere dimostra­ta a partire da realtà a noi più evidenti, anche se per loro natura lo siano meno, a partire cioè dai suoi effetti . Si tratta quindi di un’evidenza mediata, ottenuta per via dimostrativa.

Tale tipo di evidenza, l’immediata, si impone di per sé e forza in un certo modo l’intelletto all’assenso. Tuttavia, può succedere che l’uomo, in quanto dotato di libertà, non esiti a resistere a tale immediata manifestazione; può decidere di sospendere il giudizio, può cioè dubitare perfino dei primi principi dell’intelletto e delle evidenze sensibili; l’uomo ha quindi la possibilità di proporsi di dubitare di tutto. t questo il tentativo cartesiano, il cui dubbio metodico aspira a divenire universale e, naturalmente, deve essere frutto di una libera decisione: si vuole dubitare di tutto. Che poi un tale dubbio universale possa mai realizzarsi è tutt’altro problema.

Sottolineamo, poi, che le cose sono tanto più evidenti e cono­scibili in sé stesse quanto meno potenziali e più attuali siano; vale a dire quanto più intensamente posseggano l’atto di essere, che è come una certa luce delle cose stesse. (Sebbene la luce troppo intensa renda impotente il nostro sguardo, e ci risultino più evidenti cose che di per sé lo sono meno). Il procedere discorsivo della filosofia consiste proprio in questo progresso della nostra conoscenza la quale, partendo da ciò che è evidente quoad nos, perviene a ciò che è più evidente quoad se.


1.4. L’evidenza mediata

Vi sono casi in cui l’assenso della mente è richiesto da un oggetto che non è conosciuto di per se stesso, in modo immediato, ma per mezzo di altro (per aliud notum). È ciò che avviene con le conclusioni della scienza. Accade, allora, che la certezza di cui gode l’intelligenza derivi dal fatto che la conclusione si risolve, per mezzo del ragionamento, in alcune premesse già conosciute (o perché sono evidenti di per sé stesse, o perché sono state a loro volta dimostrate). È questo il caso delle conclusioni metafisiche meno immediate, dei teoremi matematici e di molte affermazioni delle scienze della natura e dell’uomo: l’evidenza oggettiva, propria della stessa verità che si manifesta. Non si tratta di un’evidenza per se e immediata, ma di un’evidenza che si fonda su altre conoscenze, per le quali deve venire considerata mediata.


1.5. Gradualità della certezza

E’ chiaro che in quest’ambito di conclusioni la certezza può essere più o meno grande. Già Aristotele ricordava che “non dobbiamo cercare lo stesso grado di certezza in tutte le cose”. Sarebbe assurdo, infatti, pretendere che i discorsi di un politico procedessero mediante dimostrazioni matematiche, o che il geome­tra si affidasse all’arte del persuadere. Il tipo di certezza dipende dalla materia che si studia. Sicché, “in materie contingenti ‑ come i fatti fisici e le azioni umane ‑ è sufficiente la certezza che un evento si realizzi nella maggior parte dei casi, sebbene poche volte non si dia”.

È caratteristico dell’interpretazione razionalista della scienza esigere lo stesso grado di certezza ‑ completo ‑ per ogni tipo di sapere. Si persegue l’ideale di un sapere onnicomprensivo, basato su di un metodo unico sul quale si fonderebbe ogni certezza. Per i razionalisti, il campo delle conoscenze certe sarebbe del tutto separato dal campo dei dubitabile: vengono nettamente delimitati dalla frontiera costituita dall’applicazione del metodo scientifico. La filosofia classica, invece, ammette diversi metodi scientifici, adeguati ai diversi tipi dì oggetti studiati. Essa non pretende, quindi, di ottenere lo stesso tipo di certezza nelle diverse scienze. Sottolinea, anzi, che in molti settori non regna la “chiarezza e distinzione” di un’evidenza puramente formale, è bensì necessario muoversi in un “chiaro­scuro intellettuale”, che si tenta di illuminare progressivamen­te; comunque, riconoscendo i limiti dell’intelligenza umana e senza far coincidere arbitrariamente questi limiti con quelli della scienza, concepita in senso unilaterale e univoco.

Nei fenomeni fisici, la contingenza cui sopra abbiamo accennato proviene dalla materia, che è principio di individuazione numerica e fa sì che non vi possano essere eventi fisici esattamente uguali. Inoltre, in ogni fenomeno naturale intervengono molte cause varia­bili e non ben conosciute. Per questo spesso le scienze del mondo fisico hanno, accanto ad affermazioni sicure, ipotesi, tesi probabili o semplici opinioni. L’incertezza deriva dalla trasformabilità della materia sensibile.

Non tutto in natura avviene necessariamente. Contro il deter­minismo fisico, occorre riconoscere nel mondo naturale ampi mar­gini di accidentalità e di indeterminazione, che impediscono di prevedere la totalità degli eventi futuri. Tuttavia, nelle conoscen­ze fisiche vi è anche vera certezza, poiché non esiste alcuna realtà, per quanto contingente, che non abbia in sé una qualche necessi­tà, di contro a quanto sostiene il contingentismo assoluto dei nominalisti e di alcune recenti teorie indeterministe. È importante non identificare le nozioni di analitico, a priori e necessario, come invece è stato fatto fino a non molto tempo fa nella filosofia postkantiana. Tenendo tali nozioni distinte, infatti, non si preclude il riconoscimento di una necessità a posteriori, che è proprio quella posseduta, in modo diverso, dalle essenze delle cose naturali.

Nelle scienze umane si è soliti parlare di “certezza morale”, poiché entra in gioco la libertà, che non è semplice contingenza. In effetti, i fenomeni tipicamente umani non sono sottomessi alla necessità fisica, ma nemmeno costituiscono un campo dove regna l’irrazionalità o il puro arbitrio. La libertà umana non è una semplice velleità, ma possiede una logica interna studiata dall’etica. Ai nostri giorni, assistiamo ad un promettente movimento di riabilitazione della filosofia pratica, nel quale vengono utilizzati dei metodi adeguati per ottenere certezze anche nei molteplici ambiti della prassi umana.


2. Il dubbio


Il dubbio è quello stato psicologico in cui l’intelletto oscilla fra l’affermazione e la negazione di una proposizione determinata, senza propendere verso l’uno o l’altro lato dell’alternativa. Si suole distinguere il dubbio positivo da quello negativo.

In quest’ultimo, la mente non ammette alcuna delle due tesi contrapposte, per mancanza di motivi sufficienti: non vi sono ragioni concludenti a sostegno dell’una o dell’altra. Nel dubbio positivo, invece, le ragioni a favore di un estremo dell’alternativa o a favore dell’altro sembrano avere uguale peso.

Il dubbio presuppone un sia pur debole barlume di verità. “Quando dubitiamo non prendiamo come vero ciò che è falso, né siamo del tutto privi di ogni notizia sulla verità. Questa è presente al nostro intelletto; ma non come verità, dato che in tal caso non dubiteremmo, ma come una delle parti di un’operazione contrad­dittoria, rispetto alla quale, però, non sappiamo se prestarvi credi­to”.

Nel dubbio si dà una sospensione del giudizio, che è conveniente mantenere se non v’è l’evidenza che il problema in questione richiede. Diverso è l’atteggiamento di colui che domanda, poiché questi manifesta piuttosto di non sapere. Lievemente differente dal dubbio è la congettura, la quale non è ancora un giudizio, ma la tendenza a dare un giudizio, motivata da qualche segno, e tuttavia troppo debole per determinare l’atto dell’intelletto.


2.1. Valore gnoseologico del dubbio

Gli scettici e i criticisti di tutti i tempi, ma soprattutto i moderni, hanno presentato il dubbio come lo stato dello spirito proprio del saggio: il dubbio sarebbe la via per assicurare le poche certezze che l’uomo può raggiungere. Ora, di per sé il dubbio è uno stato potenziale e, pertanto, imperfetto; è una situazione di inquietudine, dalla quale la mente tende naturalmente ad uscire, per trovare la quiete nella verità. Il criticista, invece, indugia nel dubbio perché ritiene di non poter accertare alcuna certezza che non sia stata stabilmente costituita da lui stesso, a partire da uno stato di non‑certezza.


2.2. Impossibilità del dubbio universale

Concretamente, il criticismo cartesiano pretende di pervenire ad un elenco sicuro e sistematico di certezze, a partire dal dubbio universale, stabilito metodicamente e in seguito a un atto di volontà del soggetto pensante. Ma il dubbio universale è semplicemente impossibile, poiché vi sono delle conoscenze indubitabili dalle quali non si può prescindere, nemmeno quando ci si impegni a dubitare di tutto. In effetti, “chi afferma che bisogna dubitare di tutto formula già un giudizio, che rappresenta la sua stessa tesi ed è già un’eccezione a ciò che con essa si pensa, dato che se si dubitasse di tutto non si potrebbe affermare nulla: nemmeno la tesi secondo la quale tutto deve essere oggetto di dubbio. Non è possibile, poi, pretendere di sostenere tale tesi presentandola come semplicemente probabile, poiché anche la probabilità deve avere un fondamento certo. Neppure ha senso affermare come dubbio che tutto sia dubbio, dal momento che questa affermazione e tutte le altre che in modo indefinito le si aggiungessero per aumentare il dubbio, sarebbero delle eccezioni alla universalità di questo. Chi dice di avere un dubbio sa già qualcosa: sa di dubitare, poiché, se non lo sapesse, nemmeno potrebbe affermarlo. La stessa coscienza del dubbio è già una conoscenza certa”.

La coscienza di dubitare ‑ come anche quella di agire libera­mente ‑ è coscienza pura: è un fatto immediato di coscienza nel quale, come sottolineava Sant’Agostino, non è possibile errare. In se stessa, la cogitatio è infallibile, poiché l’esperienza vissuta della soggettività è immanente, non implica il passaggio a qualcosa di distinto dalla coscienza dove, date le prevenzioni del criticista, vi potrebbe essere il rischio dell’errore. Se si negasse tale infallibilità, si negherebbe la possibilità di qualsiasi conoscenza. Rispetto ai facta interni, di pura coscienza, non vi è possibilità di errore (in quanto sono soltanto fatti di coscienza).

Alla luce di queste elementari considerazioni, ci si rende conto che il dubbio universale è strutturalmente impraticabile, dato che implica la propria negazione. Da una prospettiva più ampia, si potrebbe anche addurre l’incontrovertibile evidenza dei primi prin­cipi e dell’esperienza sensibile. Insomma, quello del dubbio univer­sale è un cammino impercorribile.


3. L’opinione


A volte l’intelletto propende per una fra due tesi contraddittorie piuttosto che per un’altra. Tuttavia, le ragioni addotte non sono sufficientemente forti per determinare una decisa presa di posizio­ne in loro favore. In un simile contesto, la mente assente a una delle tesi, ma con il sospetto che possa essere vera quella opposta. È questa la situazione di chi opina: l’assenso alla verità di una parte della contraddizione, con il timore che la verità stia nella parte opposta. Nel caso dell’opinione, l’intelletto non dà il pieno assenso che caratterizza la certezza, poiché l’oggetto conosciuto non si impone ineluttabilmente. Ciò che porta l’intelletto a pro­nunciarsi in un senso piuttosto che in un altro è una scelta della volontà che orienta ad una delle parti.

Pertanto, è proprio dell’opinione un assenso non fermo, contra­riamente a quanto avviene per l’assenso scientifico. È, quindi impossibile la concomitanza di scienza e opinione sullo stesso argomento valutato da un medesimo punto di vista. La scienza, per sua natura, giudica impossibile che ciò ch’essa conosce stia in modo diverso da come essa vede, mentre l’opinione ammette la possibilità che il proprio giudizio sia falso.


3.1. Opinione e certezza

Nella pratica è importante distinguere tra opinione e certezza: è ingiustificabile sia il ritenere certo ciò che è opinabile, sia, vicever­sa, opinabile ciò che è certo. Si può prendere il certo per opinabile se, per una verifica insufficiente, non si conoscono in modo adeguato le ragioni sulle quali si fonda tale certezza. Tuttavia, un’opinione può essere sostenuta con tanta forza da trasformarsi ingiustamente in certezza: si avrà allora una certezza meramente soggettiva fondata sulla ferma decisione di una volontà poco ragionevole. Avere criterio significa, soprattutto, sapere distinguere le diverse situazioni nelle quali la mente si trova in ogni momento rispetto alla verità delle cose. Non bisogna dimenticare che la volontà interviene a favore di un’opinione poiché la giudica vero­simile o come un bene; se questo avviene senza fondamento, confondiamo i nostri desideri con la realtà alla quale bisogna attenersi.


3.2. Opinione e contingenza

Di per sé l’opinione è un giudizio relativo al contingente, cioè ciò che può essere e non essere. Poiché non tutto è contingente, non tutto è opinabile. Non si può sviluppare una scienza del contingente in quanto tale, poiché la sua instabilità impedisce di ottenere la ferma certezza che il sapere scientifico richiede. Tutta­via, non è ammissibile opinare su ciò che, non potendo essere diversamente da come è, è necessario, nonostante i limiti conosciti­vi dell’opinante.

L’opinione è uno stato intellettuale tipico dell’uomo, come già avevano notato i primi pensatori greci, i quali contrapponevano la dóxa, sapere imperfetto e instabile, alla epistéme, conoscenza certa e stabile che culmina nella sophía, la pienezza della conoscenza. di cui l’uomo partecipa e alla quale amorosamente tende, senza giungere mai a possederla in modo perfetto.

L’uomo è destinato ad avere delle opinioni poiché, per la limitatezza delle proprie capacità conoscitive, spesso non può raggiungere la certezza. Ciò non significa, ovviamente, che tutte le opinioni siano ugualmente plausibili, come invece sostengono i relativisti i quali, considerando tutto opinabile, attribuiscono il medesimo valore a qualunque opinione, proprio perché in realtà non danno valore a nessuna. Invero, non è facile in certi ambiti scoprire la verità, soprattutto dove intervengono le libere azioni umane o è presente una molteplicità di fattori difficilmente cono­scibili nella loro reciproca connessione. In tali problemi è naturale e positivo che nascano, negli uomini che li studiano, diverse opinioni; tuttavia, il pluralismo non è altrettanto lecito in altri campi; e comunque mai esso deve fondarsi sul relativismo o in questo terminare.

L’uomo si avvicina alla conoscenza della verità grazie all’osser­vazione attenta della realtà, allo studio, alla riflessione e al dialo­go. Se si esaminano i problemi con maggior rigore e profondità, si raggiungono delle opinioni più fondate e, spesso, si arriva a conoscere la verità con certezza. Nel corso di questa indagine sulla verità, vengono confermate o rettificate precedenti opinioni: nel secondo caso si constata la defettibilità gnoseologica del conoscen­te. Nel vasto territorio dell’opinabile, la recta ratio è, in buona misura, correcta ratio. La disponibilità a ritrattare le proprie opinioni garantisce il progredire della conoscenza: lo riconosce anche la sapienza popolare nel detto “rettificare è da saggi”. L’espressione classica ars longa vita brevis ricorda, inoltre, che il traguardo della verità non si raggiunge in questa vita, dove è sempre possibile una conoscenza ulteriore e più perfetta.


4. La fede

La differenza fra fede e opinione dipende dal fatto che, nel caso della fede ‑ umana e soprannaturale ‑ la volontà muove l’intelletto ad asserire con certezza, senza il timore che sia vera l’opinione contraria, fondandosi sulla testimonianza e l’autorità di un altro m.

Non bisogna confondere la fede con la credenza la quale, nel linguaggio ordinario, viene assimilata all’opinione. Si dice, ad esempio: “Credo che Maria sia uscita, ma non ne sono sicuro”; dove il termine “credo” equivale a “opino” o “mi pare”.


4. 1. Certezza di fede ed evidenza

Nella fede non vi è, a differenza che nell’opinione, il timore di sbagliarsi. Pertanto, dal punto di vista della sua fermezza, la fede è un tipo di certezza. La certezza, infatti, si può distinguere in certezza di evidenza, fondata sulla manifestazione obiettiva della verità, o certezza di fede, basata sull’autorità di un testimone, manifestata dall’evidenza della sua credibilità. Dal punto di vista dell’essenza del conoscere, la prima è sempre più perfetta della seconda; tuttavia, la certezza di fede, nonostante l’oscurità della conoscenza, può essere più perfetta quanto alla fermezza dell’ade­sione.


4.2. La libertà della fede

La certezza di fede è libera perché dipende dalla volontà; mentre la certezza di evidenza è libera soltanto indirettamente, in quanto cioè vi è la libertà di prendere in considerazione o meno ciò che è evidente. La caratteristica di libertà della certezza di fede si manifesta nel modo seguente: conosciuta l’autorità del testimone per l’evidenza della sua credibilità, e conosciuta la sua testimo­nianza intorno ad una verità, la mente non si sente ancora trascinare all’assenso. Solo la volontà si dispone a muovere l’intel­letto all’assenso, poiché in quelle circostanze, il credere si presenta come un bene per l’uomo. Siccome però tale bene non è assoluto, ma particolare, la volontà non ne viene necessariamente attratta: essa può portare l’attenzione dell’intelletto altrove e impedire così l’assenso.

Chi crede ha dei motivi sufficienti che lo inducono a credere: non crede senza fondamento. Tuttavia, non è l’oggetto che causa l’adesione dell’intelligenza; per questo vi è sempre la libertà di assentire o meno. E ciò vale anche nel caso della testimonianza di un testimone senz’altro credibile: ad esempio, le verità rivelate da Dio e non evidenti, di per se stesse non possono muovere l’intellet­to all’assenso.


4.3. La credibilità

In definitiva, si crede qualcosa perché si vede che la scienza e la veracità del testimone ne garantiscono la verità (evidenza di credibilità). Credere a qualcosa è sempre anche credere a qualcuno. Si noti che noi accogliamo un gran numero di verità naturali sulla base di testimonianze altrui: la maggior, parte delle notizie, delle descrizioni geografiche, delle vicende storiche, delle conclusioni scientifiche che non sono alla portata di una personale sperimenta­zione. ecc. Inoltre, molte verità che ora ci appaiono evidenti, le abbiamo accolte in precedenza prestando fede a persone dotate di maggiore esperienza e di più elevata sapienza. Diffidare sistemati­camente di tutto ciò che ci viene proposto di credere, significa limitare drasticamente il nostro bagaglio di cognizioni e rendere impossibile la nostra vita nella società. Il sospetto assunto come metodo non porta a nulla.

A volte, quando si conoscono bene le qualità del testimone e concordano fra loro testimonianze diverse, l’influenza della volontà è di scarso rilievo; tuttavia, la decisione è sempre necessaria. Certamente l’atto di fede è formalmente intellettivo, non volitivo o emotivo; e non è meno ovvio che, affinché uno possa credere, è necessario che un altro sa ia Tuttavia nel soggetto che crede, la fede in ultimo termine si basa sul suo volere e non sul suo sapere. Come diceva Newman, “crediamo perché amiamo”.


4.4. La Fede soprannaturale

Nella Fede soprannaturale si credono le verità divine predicate da uomini che offrono certe garanzie di essere stati inviati da Dio per comunicare tali verità. Ma, in realtà, è Dio stesso che parla al credente attraverso lo strumento umano. L’accoglimento della parola di Dio porta con sé un decisivo impegno esistenziale: perciò esso presuppone la retta disposizione della volontà verso il bene. Inoltre, in quanto si tratta di verità e beni soprannaturali, che quindi trascendono la capacità umana, l’intelligenza necessita dell’azione illuminante del lumen fidei e la volontà della mozione della grazia soprannaturale. “Il credere, dice S. Tommaso, è l’atto dell’intelletto che assente alla verità divina, imperato dalla

volontà mossa da Dio mediante la grazia”.

Per la Fede si crede alla stessa Verità prima, la quale è infallibile e, pertanto è più stabile della luce dell’intelletto umano. Ne segue che la Fede gode di una certezza maggiore ‑ in quanto a fermezza di adesione ‑ della scienza o dei primi principi, pur avendo un’evidenza minore. La forza con cui il credente assente alle verità di fede è persino superiore a quella con cui riconosce i principi primi della ragione. Tanta intima sicurezza dell’uomo di Fede nell’aderire a verità razionalmente non evidenti, è il parados­so di un’oscura chiarezza, che può essere a malapena percepito da chi non è disposto a ricevere il dono di una certezza che lo elevi al di sopra di se stesso.


5. L’errore


5.I. Nescienza, ignoranza ed errore

Innanzi tutto è necessario distinguere fra nescienza, ignoranza ed errore. La nescienza è la semplice assenza del sapere. L’igno­ranza aggiunge un’ulteriore caratteristica alla pura mancanza di conoscenza: essa è infatti la privazione di un sapere per il quale si possiede un’attitudine naturale. Infine, l’errore consiste nell’affer­mare come vero il falso. Pertanto, paragonato all’ignoranza, l’erro­re aggiunge un nuovo atto; si può infatti essere ignorante senza affermare qualcosa intorno a ciò che si ignora, e in tal caso non si sbaglia; invece l’errore consiste nel formulare un giudizio falso intorno a ciò che si ignora.


5.2. La falsità

E’ chiaro che il falso si contrappone al vero. Sappiamo già che “dire che non è ciò che è, o che è ciò che non è, è falso; e dire che è ciò che è, e che non è ciò che non è, è vero” . Se la verità è adeguazione dell’intelletto con la realtà, la falsità è proprio la loro inadeguazione.

Il bene dell’intelletto è la conoscenza della verità. Di conse­guenza, gli abiti che perfezionano l’intelletto in quanto conosce si chiamano anche “virtù” (dianoetiche), poiché facilitano alla mente la realizzazione di atti buoni. La falsità, invece, non è soltanto carenza di verità, ma ne è anche la corruzione. Infatti, è diversa la disposizione di colui che è del tutto privo della conoscenza della verità, da quella di chi ha una opinione falsa, la cui valutazione dei fatti è contaminata dall’errore. Come la verità è il bene dell’intelletto, la falsità è il suo male. San Tommaso arriva a dire che la falsità negli esseri conoscenti è paragonabile sul piano fisico al mostruoso: qualcosa che non appartiene alla fine dell’intelligenza, la quale è di per sé ordinata alla verità.


5.3. La falsità si dà soltanto nella mente

Come la verità anche la falsità è presente principalmente nella mente. Ma, mentre riconosciamo nelle cose una verità ontologica, non è possibile parlare di “falsità ontologica”. A rigore di termi­ni, le cose non possono essere false, perché omne ens est verum. Nonostante che alcuni propugnino la “filosofia del sospetto”, sta di fatto che le cose sono sempre identiche a se stesse, non hanno alcuna spaccatura interna che ne renderebbe impossibile una coe­rente percezione. Ciò nonostante, la realtà non appare all’uomo in tutta la sua pienezza: nel fenomeno ci si dà l’essere, ma questi non si esaurisce nel suo mostrarsi, ha in sé un plus di realtà, che va al di là del fenomeno. Ciò rende possibile che alcune cose appaiano ad un soggetto determinato come in realtà non sono, dando luogo, pertanto, all’errore: vengono dette, allora, “false”. Si parla, ad esempio, di una “moneta falsa” perché, sebbene essa sia un autentico disco di metallo coniato, è priva di corso legale.

Può essere formalmente falso soltanto il giudizio della mente. Secondo Tommaso d’Aquino, la falsità dipende dal procedere difettoso del pensiero, così come un parto mostruoso dipende da un difetto della natura. Nell’ambito conoscitivo, il male è l’errore, il quale sta nell’intelletto e non nella realtà. Da questo segue che ogni valutazione erronea deriva dal difetto di qualche principio conoscitivo.

Nell’uomo, l’errore segue spesso a un ragionamento scorretto, nel quale la conclusione falsa non è un’attualizzazione adeguata di ciò che è potenzialmente contenuto in premesse vere. Invece, ciò che è sempre in atto sfugge all’errore. Non vi può essere errore nell’astrazione delle essenze, ottenuta grazie alla luce intenzionale ‑ sempre in atto ‑ dell’intelletto agente: “quelli che astrag­gono non mentono”; in modo naturale, l’intelletto agente penetra con sicurezza la natura delle cose, anche se non ne può pienamen­te comprendere la loro realtà più intima. È possibile invece l’errore dove vi sia passaggio dalla potenza all’atto; infatti, ciò che è in potenza è suscettibile di perfezione o di privazione.

Come ogni male, anche la falsità non si dà di per sé, poiché l’intelligenza tende naturalmente a raggiungere il proprio fine, cioè la conoscenza della verità. Solo per accidens può sbagliarsi, analogamente a quanto avviene negli esseri non spirituali, i quali di solito realizzano il proprio fine e soltanto talvolta vi vengono meno.


5.4. L’errore come privazione

Da quanto detto si deduce che non esiste positivamente l’errore: nessuno conosce propriamente il falso; piuttosto, non conosce il vero. L’errore, ripetiamo, è una privazione. La conoscenza falsa è un’anomalia della conoscenza, un male naturale, che viene meno al­la propria regola di adeguazione con la realtà, così come un atto umano che non rispetti i principi etici è moralmente cattivo.

L’errore consiste in una mancanza di conoscenza: non deriva da dati ben conosciuti, sorge perché questi mancano e non ci si rende conto della loro assenza’. Nel giudizio erroneo si prende la parte (ciò che si conosce) per il tutto, cioè per la conoscenza completa o almeno per quella sufficiente a dare un giudizio vero. Si ha allora un’apparenza, nella quale ciò che è sbagliato sembra vero. È  ovvio che non si debba confondere la nozione di apparenza con quella di fenomeno: mentre quest’ultimo, infatti, si riferisce ad una parziale manifestazione dell’essere, quella si riferisce invece al suo parziale occultamento. L’errore consiste, dunque, nell’abbandonarsi alle ap­parenze: non nasce in seguito a una qualche evidenza, ma perché non si prende in considerazione ciò che è necessario alla formula­zione di un giudizio. Come facevamo già notare, l’errore si può presentare a conclusioni di un ragionamento non corretto; altre volte dipende dall’accettazione di una testimonianza falsa.

Oltre all’errore teoretico esiste anche l’errore pratico. La ragione realizza, infatti, i principali tipi di atto: quello essenzia­le, intorno al suo proprio oggetto; e l’altro, in quanto dirige le altre potenze. L’errore pratico si produce in questa seconda specie di atti, quando cioè gli orientamenti della volontà e delle facoltà inferiori non si adeguano alla regola morale proposta dalla ragione e, quindi, alla realtà.

L’intelligenza per se stessa non può sbagliare. Come qualsiasi ente ha l’essere relativo alla propria forma, così anche la facoltà conoscitiva ha l’atto di conoscere relativo alla similitudine della cosa conosciuta. Orbene, un ente di natura non può mancare dell’essere che gli spetta secondo la propria forma, tuttavia può essere privo di alcune cose accidentali o complementari: un uomo può non avere i due occhi, ma non può cessare di essere uomo. In modo simile, la potenza conoscitiva non può sbagliare nell’atto di conoscere quanto alla similitudine della cosa da cui è informata, anche se può errare rispetto a ciò che è accidentale o da essa derivato. La vista, ad esempio, non si sbaglia riguardo al sensibile proprio, anche se a volte può cadere in errore rispetto ai sensibili comuni e a quelli per accidens. Nel caso dell’intelligenza avviene quanto segue: come il sensibile proprio informa direttamente il senso, così anche l’intelletto viene informato dalla similitudine dell’essenza della cosa. Pertanto, l’intelletto non si sbaglia intorno a ciò che è; ma può cadere in errore nell’atto di comporre e dividere, cioè di giudicare, poiché può attribuire alla cosa, di cui conosce l’essenza, qualcosa di improprio o ad essa opposto.


5.5. Il riconoscimento della falsità

L’intelligenza, inoltre, può conoscere la falsità. Allo stesso modo che, per una certa riflessione, ci rendiamo conto della verità di un giudizio, sempre per riflessione possiamo mettere in evidenza la falsità, e così, riconosciutala, possiamo uscire dall’errore. “Ciò che si manifesta in modo evidente e obiettivo nel fatto di correg­gersi è l’evidente nella sua stessa evidenza e l’apparente secondo la propria apparenza”.

C’è dell’inavvertenza nell’errore, manca cioè una riflessione che invece dovrebbe esserci. Tale assenza di attenzione è dovuta alle sollecitazioni, a volte molto forti, dei sensi, all’eccessiva fretta, alle dimenticanze, alla stanchezza, ecc. In fin dei conti, la possibilità dell’errore rivela i limiti della condizione umana: si tratta di un evento specificamente umano al quale i bruti non arrivano e nel quale gli angeli non cadono. Inoltre, la nostra stessa costituzione psicosomatica fa sì che non siamo pienamen­te consapevoli dei limiti della nostra conoscenza, e quindi è possibile che a volte giudichiamo intorno a un problema senza renderci conto che non lo conosciamo sufficientemente.


5.6. La causa dell’errore

La falsità, essendo una privazione, non ha una causa efficien­te, ma difettiva. L’errore, invece, in quanto è un giudizio, esige una causa efficiente.

Poiché il giudizio falso non è dovuto all’evidenza, la sua causa si trova spesso nella facoltà intellettuale che muove l’intelletto, cioè la volontà. Questa non vuole l’errore per sé stesso, poiché ciò comporterebbe l’averlo già riconosciuto come errore, ma soltanto in quanto il giudizio corrispondente appare come un bene, poiché si presenta come la meta della ricerca della verità.

Voler giudicare senza evidenza è una forma, per quanto piccola, di presunzione. Una tale decisione può essere più o meno deliberata, e secondo i casi può essere diversa la fermezza dell’adesione all’errore, nella quale sono compresi, soggettiva­mente, i diversi stati della mente, da noi già esaminati (certezza, opinione, ecc.). La volontà, per indurre all’assenso l’intelletto, lo porta a concentrarsi su alcuni aspetti della cosa, reali ma incompleti, o su alcune apparenze. Quando la volontà si o­rienta al male, è perché lo ritiene un bene e, pertanto, presup­pone un errore nell’intelligenza’; ma tale errore, a sua volta, è causato dalla volontà, la quale fa giudicare buono ciò ch’essa vuole in quel momento, a motivo di una passione o di un abito cattivo.

In un certo senso, lo stesso dubbio può essere già un errore. Il dubbio non è una meta desiderabile e, a volte, non e nemmeno legittimo come situazione iniziale, scientifica o pre­scientifica, perché la retta disposizione del soggetto dovrebbe portare all’accettazione delle certezze che inizialmente gli sono date, anche se deve sempre sforzarsi di passare dall’oscurità alla luce. Quando si ignora tutto intorno a un determinato argomen­to, la posizione iniziale è quella dell’ignoranza, ben diversa da quella del dubbio: in quella infatti la mente riconosce di non sapere, in questa sembra propendere già verso la negazione.

Da quel che abbiamo appena detto, segue che, almeno in questioni di rilevanza esistenziale, le disposizioni morali del soggetto hanno una grande importanza per raggiungere la verità ed evitare l’errore. Se dobbiamo ricercare soltanto i nostri interessi personali, come sembrano ritenere alcune teorie gno­seologiche contemporanee, ci faremo dominare facilmente dalle apparenze che consideriamo convenienti ai nostri propositi. Se, invece, ricerchiamo il bene in se stesso rimarrà aperta, anche se sempre stretta, la via verso la verità, la quale, come il bene, trova il proprio fondamento nell’essere reale.
Tratto da: http://home.datacomm.ch/giuseppe.rossi/llano/filosofia__della__conoscenza3.htm