Perchè si studia la storia della filosofia (cap. IX)

LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO (I)
Di Antonio Livi  Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO NONO. LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E  TOMMASO D’AQUINO.  1. L’averroismo latino del XIII secolo: Sigieri di Brabante.

Il Duecento è stato il secolo delle grandi cattedrali gotiche, dell’arte di Cimabue e di Giotto e della grande fioritura in tutta Europa della nuova letteratura romanza (in lingua provenzale, castigliana, siciliana, umbra e toscana), e in Italia anche il secolo dei liberi Comuni: un secolo che, grazie a tante geniali realizzazioni che l’Europa cristiana seppe produrre in tutti i campi della cultura, si è guadagnato l’appellativo di “secolo d’oro”. La poesia italiana conosce la lirica cortese di Ciullo d’Alcamo e di Jacopo da Lentini, le laudi religiose di Jacopone da Todi, il Tesoretto di Brunetto Latini. È stato anche il secolo in cui fiorirono le prime grandi università, che in breve tempo portarono la ricerca filosofica e teologica a livelli fino ad allora sconosciuti. Non si pensi che il Duecento sia stata un’epoca di equilibrio armonico, di ordine stabile e di solida affermazione politica della cristianità; Van Steenberghen parla del Duecento come di un secolo di «crisi dell’intelligenza cristiana»; e Gilson (che pure fu in disaccordo con Van Steenberghen in quasi tutto) scrive: «Il mondo poteva scorgere che stava per verificarsi una “crisi”». Ma, in concreto, in che cosa consisteva questa crisi? In primo luogo, è necessario ricordare che il Sacro Romano Impero, sorto con il re franco-germanico Carlo Magno nel secolo IX, da allora in poi era stato incessantemente assediato dall’Islam e minacciato dalle orde asiatiche (il 1241 è l’anno della provvidenziale disfatta dei mongoli a Liegnitz), e di conseguenza la cristianità del Duecento è fortemente condizionata dal fatto di riconoscersi minoranza in mezzo a uno sconfinato mondo non cristiano. L’Oriente pagano, ricco di cultura e di scienza, preme incessantemente alle frontiere, e non soltanto quelle geografiche (nel cuore dell’Asia, nel Karakorum, verso il 1253-1254, alla corte del Gran Khan si svolge un dibattito fra due frati francescani e alcuni religiosi maomettani e buddisti); già da quattro secoli il mondo islamico, che aveva invaso l’Europa, si è imposto non soltanto per il suo potere militare e politico ma anche per la sua filosofia e la sua scienza che, per mezzo delle traduzioni dalla lingua araba a quella latina, si sono installate in buona parte nel cuore della cristianità (lo vedremo per quanto riguarda l’Università di Parigi). È anche vero che questa filosofia e questa scienza non erano propriamente di origine e di carattere islamici; trasmettevano piuttosto l’antica sapienza greca, soprattutto quella di Aristotele, penetrata nel mondo intellettuale dell’Europa cristiana attraverso vie politico-militari; ma in ogni modo rappresentano per l’Occidente cristiano soprattutto qualche cosa di strano, di nuovo, di pericoloso, in quanto “pagano”. Nello stesso tempo la cristianità del Duecento subisce in politica un radicale perturbamento, entrando definitivamente in una età in cui essa smette di essere una unità teocratica; basti ricordare che nel 1214 per la prima volta un re di quelle che saranno poi le nazioni europee vince niente di meno che l’Imperatore nella battaglia di Bouvines. Nello stesso periodo iniziano le guerre di religione all’interno della stessa cristianità: con l’eresia degli albigesi (catari e valdesi) per alcuni decenni il cattolicesimo sembrò avere perduto definitivamente il Sud della Francia e il Nord dell’Italia. L’antico monachesimo, considerato come baluardo spirituale, sembra aver perduto anch’esso gran parte della sua forza come istituzione, malgrado gli eroici tentativi di riforma (Cluny, Cîteaux, ecc.). I papi interrompono la lunga serie di secoli nei quali il capo del Sacro Romano Impero esercita un’autorità politica illimitata, rischiando spesso di sottomettere al potere imperiale anche la persona e le funzioni pastorali del Capo della Chiesa (si ricordi che nel dicembre 1046 l’imperatore Enrico III aveva deposto in un solo colpo tre papi: Silvestro III, Gregorio VI e Benedetto IX; il successore di costoro, il tedesco papa Damaso II, era stato designato dall’Imperatore stesso, il quale poi mandò a Roma una scorta armata il giorno dell’intronizzazione dell’eletto). Le cose erano cambiate con l’elezione di Innocenzo IV (il genovese Sinibaldo de’ Fieschi, che fu eletto papa nel 1243), il quale arriva a deporre solennemente il più grande degli imperatori, quel Federico II di Svevia che aveva trasferito la sua sede nella fastosa reggia arabo-normanna di Palermo; il fatto clamoroso della sua deposizione da parte del papa avviene durante il concilio di Lione, il 17 luglio 1245, giusto due secoli dopo la deposizione dei tre papi da parte di Enrico III: segno di un radicale mutamento negli equilibri di forza all’interno della cristianità. Il Duecento terminerà infatti con il pontificato di Bonifacio VIII, il massimo teorico della supremazia del Papa sull’Imperatore: disegno teocratico irrealizzabile e che di fatto non si realizzerà, ma pur sempre risultato di un’evoluzione, non priva di aspri conflitti, avvenuta proprio nel Duecento.
Oltre alle università, un’altra importante realtà religiosa e culturale del Duecento è rapresentata dagli “ordini mendicanti”. I “domenicani” (l’ordine dei Predicatori, fondato da san Domenico de Guzman) sono riconosciuti dalla Chiesa nel 1216; i “francescani” (ordine dei Frati minori, fondato da san Francesco di Assisi) nel 1226. Queste nuove comunità religiose, che per praticare la povertà ed esercitare l’apostolato missionario rinunciano alla vita residenziale dei monasteri e si disseminano nel territorio, sono peraltro legate in modo veramente decisivo all’istituzione delle università. I maestri più qualificati del secolo, sia a Parigi che a Oxford, sono senza alcuna eccezione frati mendicanti. Il domenicano Alberto di Colonia traccia questo programma: «Scientiae demonstrativae non omnes factae sunt, sed plures restant adhuc inveniendae [= la maggior parte del sapere scientifico è ancora da scoprire]». Anche negli ordini mendicanti nasce l’impulso di penetrare efficacemente nel mondo d’oltre frontiera: Tommaso scrive il Liber de veritate catholicae fidei, che ha come interlocutori «mahumetistae et pagani [ = musulmani e non cristiani in generale]», e i suoi confratelli domenicani fondano le prime scuole cristiane in lingua araba. Abbiamo detto prima che erano stati dei frati mendicanti a parlare di religione nel Karakorum con maomettani e buddisti; ed è un francescano che, verso la fine del secolo, traduce in lingua mongola il Nuovo Testamento e i Salmi, facendo dono della relativa traduzione al Gran Khan; ed è lo stesso frate (il napoletano Giovanni di Monte Corvino) a edificare proprio a Pechino, vicino al palazzo reale, una cattedrale. L’esempio di Francesco d’Assisi e di Antonio da Lisbona (che tentarono entrambi di attirare al Vangelo le popolazioni musulmane del Nord Africa) era stato eloquente.
Proprio per questi diversi fattori, nel considerare il Duecento si può dire che la storia del pensiero vi si trova in tutta la sua polifonia, e che in quel secolo si è conseguito per un breve spazio di tempo un accordo e una perfezione classica durati per tre o quattro decenni. E questo momento, anche se è passato e in nessun modo può rivivere, nella coscienza storica della cristianità occidentale può essere il paradigma e il modello che, sotto mutate condizioni e pertanto in una nuova formulazione, dovrebbe ispirare la ricerca del bene comune attraverso le arti, le scienze, la cultura, la tecnica. La Divina Commedia di Dante è il primo anello della “grande catena” che tuttora ci lega al Duecento.
Nel passaggio dal sistema esclusivamente feudale alla novità dei regni nazionali in Inghilterra, in Francia e in Spagna, come anche dei Comuni e delle repubbliche marinare in Italia, gli uomini del Duecento conquistano l’autonomia del proprio criterio, il senso delle responsabilità personali, il gusto dell’iniziativa e quella agilità mentale che rivela la padronanza di fronte ai problemi imprevedibili di un mondo in evoluzione. Le scuole urbane, popolate di esuberante gioventù, legate nello slancio e persino nell’intemperanza alla vita comunale e alle corporazioni delle arti e dei mestieri, sono evidentemente il centro di tale presa di coscienza.
La filosofia cristiana si era sviluppata all’inizio nell’alveo della cultura ellenistica, assumendo prima elementi stoici, poi platonici (la “seconda Accademia”) e infine  neoplatonici (Plotino, Porfirio, Proclo): Giustino martire, Clemente di Alessandria  e Agostino di Ippona sono i maggiori testimoni dello spirito aperto, pronto al dialogo, che caratterizza la speculazione dei “padri della Chiesa”, anello di congiunzione tra la filosofia cristiana della tarda Antichità e quella del Medioevo latino. Platone, Aristotele e Proclo sono gli autori pagani costantemente presenti, sia pure implicitamente, nella filosofia cristiana medioevale; di Platone verrà costantemente ripresa l’antropologia (soprattutto per quanto riguarda la spiritualità e l’immortalità dell’anima umana), mentre di Aristotele verrà adottata la logica, e di Proclo la concezione gerarchica della realtà, tendente a ritrovarsi nell’Uno divino dalla quale procede.
L’Università di Parigi diventa il centro degli studi di filosofia e di teologia; vi confluiscono i fermenti culturali già maturati in Francia nella scuola di Chartres e in quella di Saint-Victor, che sviluppano la tradizione platonizzante della prima Scolastica (Scoto Eriugena) e affinano gli strumenti della logica, soprattutto ad opera di Pietro Abelardo. L’atto di nascita dell’Università di Parigi (1200) coincide con il decreto del re di Francia, Filippo Augusto, con il quale i maestri e gli studenti dello Studium generale Parisiense venivano sottratti alla giurisdizione civile ordinaria e posti sotto la giurisdizione del vescovo di Parigi, il quale avrebbe governato l’Università attraverso un cancelliere; nel 1215 l’Università istituisce la facoltà delle Arti (ossia di Filosofia) accanto a quella di Teologia, con degli statuti redatti dal rappresentante del Papa e con un sistema didattico che servirà ben presto da modello per l’Università di Oxford, in Inghilterra, che era stata fondata nel 1214.

1. L’averroismo latino del XIII secolo: Sigieri di Brabante.
Tra la fine del XII e l’inizio del secolo XIII, nella complessa vicenda storica della filosofia cristiana si registra un avvenimento di decisiva importanza: la scoperta di un “nuovo” Aristotele, quello della Metafisica e dei tre trattati di etica (l’Etica nicomachea, l’Etica eudemia e la Grande Etica). Grazie alle versioni latine delle opere di Avicenna, di Averroè e di Maimonide (i filosofi arabi ed ebrei che avevano fatto largo uso di Aristotele) e poi grazie alle traduzioni in latino di alcune opere importanti ma ancora quasi sconosciute dello stesso Aristotele, il pensiero del grande metafisico greco comincia a penetrare anche nel mondo latino e a guadagnarsi le simpatie di molti filosofi cristiani, soprattutto a Oxford e a Parigi. La riscoperta di Aristotele segna una svolta decisiva nel pensiero filosofico e teologico dei pensatori cristiani, che fino a quel momento nelle loro speculazioni avevano attinto quasi esclusivamente alle opere dei platonici e dei neoplatonici per la filosofia, e agli scritti di Agostino e dello Pseudo-Dionigi per la teologia, cosicché il loro pensiero restava ancorato a una problematica marcatamente platonica e agostiniana. Con la migliore conoscenza della filosofia di Aristotele le cose cambiano: il suo influsso si fa sentire nelle scienze, nella filosofia e nella teologia e non risparmia nessuno, neppure coloro che nelle dottrine più importanti di metafisica e di antropologia continueranno a mantenersi fedeli allo spirito di Platone e di Agostino (come si vedrà nel prossimo capitolo a proposito di Bonaventura da Bagnoregio). Il “nuovo” Aristotele costringe tutti i teologi scolastici a porsi il problema della filosofia — della sua natura, del suo valore intrinseco, della sua autonomia formale — nell’intento di utilizzarla in un contesto teologico coerente. Questo intento determinerà gli sforzi divergenti delle grandi scuole teologiche dell’età d’oro della Scolastica. Il Duecento, peraltro, è dominato da un conflitto: non tra aristotelismo e l’agostinismo, ma tra il paganesimo dello spirito filosofico e il cristianesimo dello spirito teologico. Dal punto di vista strettamente filosofico, il “nuovo” Aristotele non soppiantò Platone, anzitutto perché di Platone i medioevali non conoscevano direttamente quasi nulla. Aristotele lo rivelarono all’Occidente cristiano i commentatori giudei e arabi, i quali, attraverso l’Africa settentrionale e la Spagna, lo introdussero nella cristianità. Platone invece continuerà a restare mal conosciuto, e solo in pochissime opere, nonostante l’“atmosfera” platonica — o neoplatonica — in cui è immerso tutto il pensiero medioevale. Ma se è falso che il Duecento abbia scelto Aristotele e rigettato Platone, si deve peraltro riconoscere che Aristotele si prestava meglio di Platone al compito che avrebbe dovuto assolvere.
L’Università di Parigi, agli inizi del Duecento, è già la roccaforte dell’aristotelismo; il primo documento che abbiamo al riguardo è una disposizione emanata dai vescovi francesi nel 1210 in cui si stabilisce tra l’altro: «I libri della filosofia naturale di Aristotele non siano letti né in privato né in pubblico, sotto pena di scomunica». Questa proibizione era stata causata dal cattivo uso che un celebre professore dell’università parigina, David de Dinant, aveva fatto della Fisica e della Metafisica di Aristotele, sostenendo che Dio e la “materia prima” sono la stessa cosa. Il decreto era stato sollecitato dalla facoltà di Teologia, nonostante le energiche proteste della facoltà delle Artes, cioè di Filosofia. Da allora questa facoltà fu in continuo subbuglio, tanto che nel 1229 si giunse a proclamare uno sciopero generale di tutti i docenti. Per ristabilire la pace intervenne il papa Gregorio IX in persona, il quale promise che la condanna di Aristotele sarebbe stata revocata appena fossero stati emendati i «libri naturales» (così venivano chiamate tutte le opere aristoteliche che non fossero di logica e di etica, ossia i trattati Sull’anima, Sul cielo e sul mondo, Sulla generazione e corruzione, e soprattutto la Fisica e la Metafisica). A tal fine il Papa nominò una commissione, di cui faceva parte anche l’arcivescovo di Parigi Guglelmo d’Auvergne, buon filosofo e grande conoscitore di Aristotele. Accadde però che la commissione non riuscisse mai a mettersi seriamente al lavoro; così l’insegnamento di Aristotele continuava a essere ufficialmente limitato ai testi di logica e di etica. Di fatto però molti professori commentavano tutto Aristotele liberamente.Nel 1245 il francescano Ruggero Bacone (vedi più avanti, par. 3) introduce nei suoi corsi di filosofia il commento alla Metafisica. Due anni più tardi fa altrettanto il domenicano Alberto di Colonia, cui va soprattutto il merito di avere spalancato ad Aristotele la porta della filosofia cristiana. Alberto, come vedremo più avanti, aveva un’ottima preparazione scientifica oltre che filosofica e teologica e aveva compreso che era ormai inutile, anzi dannoso, continuare a respingere Aristotele come “pagano”. Sul terreno scientifico la fede non contava nulla, e la superiorità di Aristotele in campo scientifico era indiscutibile. Qua e là c’erano indubbiamente gli errori filosofici, ma sarebbe stato più facile combattere gli errori che fare a meno di quella ricchezza di osservazioni che in tanti punti della biologia, della botanica, della zoologia, dell’astronomia, toccava vette sconosciute al mondo culturale latino. Alberto aveva per Aristotele una stima altissima, fino al punto di affermare che «la natura l’aveva posto a regola della verità e in lui aveva dato mostra della più alta perfezione dell’intelletto umano». Così si impegnò in un gran lavoro interpretativo di Aristotele, per renderlo adatto al mondo cristiano. Prima di assumere la direzione dello Studio domenicano di Colonia (1248) il dotto domenicano iniziò una parafrasi completa di tutte le opere di Aristotele.
Così stavano le cose a Parigi nel 1249, l’anno della morte di Guillaume d’Auvergne. Con la sua morte cadono definitivamente i divieti aristotelici e con essi cade il muro che per mezzo secolo aveva impedito ad Aristotele di fare il suo ingresso ufficiale nella facoltà delle Arti e in quella di Teologia. Il 1249 pertanto segna l’inizio della grande svolta che consente ad Aristotele di fare il suo ingresso ufficiale nelle facoltà universitarie cristiane. Nel 1252 si compiono tre settenni dal 1231 (gli anni allo scadere dei quali la Santa Sede rivede la situazione dell’università) ed ecco che proprio Aristotele fa la sua entrata ufficiale nell’università parigina alla facoltà delle Arti col trattato Sull’anima adottato come testo di base. Fra il 1252 e il 1255 è una vera irruzione di opere aristoteliche nel campo universitario degli artisti o filosofi parigini di tutte le nazioni: tanto che nel 1255 si sente il bisogno di fissarne, per così dire, il calendario scolastico. L’anno 1255 non segna dunque il momento dell’introduzione, sebbene quello della regolamentazione. La normativa dell’insegnamento aristotelico viene fissata solennemente in un documento dell’Università di Parigi, pubblicato la domenica delle Palme (19 marzo) del 1255. Passato un decennio dalla regolamentazione del 1255, Aristotele ottenne cittadinanza, anche nel mondo dei grandi maestri di teologia. Scrivendo nel 1285 al vescovo di Lincoln, John Peckham, arcivescovo di Canterbury, si lamenta che da venti anni le novità (intendeva dire le novità aristoteliche) si erano purtroppo introdotte anche nel campo teologico a scapito della tradizione agostiniana.
Il contatto con l’intero corpus Aristotelicum consentì ad Alberto di Colonia e, specialmente, al suo geniale discepolo Tommaso d’Aquino — divenuto, nel mondo parigino, il più valido sostenitore del valore del pensiero di Aristotele — di ripensare tutta l’epistemologia teologica elaborando una teoria dello statuto epistemologico della teologia secondo cui la ratio (ragione) interviene non più dall’esterno ma dall’interno nel lavoro dell’approfondimento della fede. Molti sono i meriti che fanno di Alberto di Colonia uno dei massimi teologi di ogni tempo; tra essi va in primo luogo segnalato quello di avere stabilito con grande esattezza la scientificità specifica della teologia. Ma l’artefice principale dell’acquisizione di Aristotele alla filosofia cristiana fu Tommaso d’Aquino. Questi, alla scuola di Alberto, prima a Parigi e poi a Colonia, scoprì la bellezza e il valore delle dottrine filosofiche dello Stagirita e ne divenne il principale fautore, difendendolo da tutte le accuse che gli venivano mosse sia dagli agostiniani (tenacemente attaccati alla tradizione platonica) che degli averroisti (che con la loro interpretazione troppo chiusa e letterale di Aristotele ne rendevano impossibile l’utiIizzo in una filosofia cristiana). L’intervento di Tommaso a favore di Aristotele fu decisivo. Mediante un’esegesi più aperta e intelligente di tutte le sue opere principali, egli poté dimostrare come il Filosofo[1] con i suoi princìpi metafisici fornisse alla teologia uno strumento ermeneutico preferibile a quello che era stato mutuato da Platone, e allo stesso tempo per tanti problemi fondamentali dell’antropologia proponeva soluzioni più soddisfacenti di quelle che erano state raggiunte con i princìpi platonici. Ma, come si vedrà, l’opera filosofica di Tommaso non consistette in una mera ripresa di Aristotele ad usum Christianorum; servendosi di Aristotele, egli elaborò un nuovo modulo di filosofia cristiana, talmente originale da essere riconosciuto nei secoli più solido e più coerente di quello platonico e neoplatonico creato da Agostino e riproposto da Bonaventura negli stessi anni in cui insegnava Tommaso.
Il sorgere di obiezioni e difficoltà contro il tentativo di conciliare la filosofia aristotelica con la fede cristiana, pur nel rispetto della reciproca autonomia, è in parte dovuto al diffondersi, fra il 1260 e il 1265, di una interpretazione dell’aristotelismo per nulla preoccupata di tale conciliazione. Questa interpretazione va sotto il nome di “averroismo latino”, in quanto fa perno su alcune tesi caratteristiche di Averroè, in particolare quella dell’unità dell’intelletto “possibile e agente”[2]. Esponente principale di questa corrente di pensiero è Sigieri di Brabante (1240-1284 circa). Egli insegnò nella facoltà delle Arti dell’Università di Parigi, ove dal 1255 tutte le opere di Aristotele allora conosciute erano incluse nei programmi di studio. Nel suo insegnamento e nelle sue opere (una serie di commenti ad Aristotele, fra cui le Quaestiones in tertium librum Aristotelis de anima, e diversi opuscoli, fra cui un De anima intellectiva), Sigieri professa un rigido aristotelismo, aderente all’interpretazione di Averroè e incurante delle divergenze che si possano verificare fra le ipotesi di un filosofo e i dogmi accettati da un credente. All’origine di tale posizione c’è un certo suo modo di intendere il metodo filosofico, consistente essenzialmente nell’interpretazione dei grandi filosofi del passato, soprattutto Aristotele: «Quando procediamo filosoficamente — dice — noi ricerchiamo più l’intenzione dei filosofi che non la verità», volendo dire che nei filosofi si trova ciò a cui può giungere la ragione umana con le sue forze, mentre la verità più autentica e completa la si ha solo tramite la fede. In particolare egli professa, come tesi filosofiche da ammettere necessariamente, l’eternità del mondo e l’unicità dell’intelletto (sia possibile che agente), pur dichiarandosi eventualmente disposto, per motivi di fede, a non accettarle come vere. La proclamata antinomia fra ragione e fede che risultava dalle posizioni di Siger (anche se egli non giunse a sostenere la teoria della «doppia verità», come fu detto) suscitò forti discussioni e reazioni. Bonaventura — come poi si vedrà — denunciò con vigore gli errori di Siger, e ne prese spunto per condannare l’aristotelismo nella sua globalità, e Tommaso scrisse contro Sigieri il trattato  De unitate intellectus contra Averroistas Parisienses (1270), contestando la tesi interpretativa di Averroè e dichiarando quest’ultimo più un «corruttore» che un «commentatore» di Aristotele. Nel 1270 inoltre, il vescovo di Parigi, Étienne Tempier, dichiarò incompatibili con l’ortodossia tredici proposizioni averroiste, di cui la prima dice: «L’intelletto di tutti gli uomini è uno solo e identico di numero». Le discussioni che seguirono furono violentissime, e sfociarono nella dichiarazione pronunciata dallo stesso Tempier nel 1277 (tre anni dopo la morte di Bonaventura e di Tommaso) contro 219 proposizioni riguardanti l’insegnamento di certi maestri della facoltà delle Arti, fra cui appunto Siger e poi anche Boezio di Dacia (di cui si ignorano le date di nascita e di morte), anch’egli rappresentante della corrente averroista. Nell’elenco delle proposizioni condannate, oltre alle tesi degli averroisti, figuravano però anche diverse tesi dello stesso Tommaso. Il decreto significò quindi una reazione contro l’aristotelismo in generale da parte della corrente teologica tradizionale, di ispirazione agostiniana, che in esso vedeva un pericolo per la fede. Sembra che Sigieri, in seguito alle critiche di Tommaso e alla condanna ecclesiastica, abbia poi modificato le sue posizioni fino ad avvicinarsi notevolmente, per quanto riguarda il problema dell’intelletto, alle posizioni tomiste. Sottoposto a processo, sarà assolto dall’accusa di eresia e morirà a Orvieto verso il 1284, pugnalato dal suo segretario, improvvisamente impazzito. Dante lo porrà in Paradiso, accanto ad altri spiriti illustri, quale rappresentante della grande filosofia aristotelica: «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘I lume d’uno spirto che ‘n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che leggendo nel Vico de li Strami [= Università di Parigi], / sillogizzò invidiosi veri»[3]. La teoria della “doppia verità”, attribuita a Siger, verrà poi effettivamente sostenuta nel Trecento da Marsilio di Padova e nel Quattrocento da Pietro Pomponazzi.

NOTE
[1] Alberto di Colonia, e poi anche molti altri, tra i quali Tommaso, si riferivano ad Aristotele chiamandolo “il Filosofo” per antonomasia: «Sicut dicit Philosophus…».
[2] Aristotele chiama «intelletto passivo» o «possibile» quella funzione della mente che recepisce i dati dell’esperienza. Cfr Antonio Livi, Dizionario storico della filosofia, Società Editrice Dante alighieri, roma 2003.
[3] Cfr Dante Alighieri, Commedia, Paradiso, c. X, vv. 132-138.