Vita di San Romualdo 4/7

21. Romualdo spegne un incendio con la preghiera.


L’isola del Peréo, ora Sant’Alberto, a quindici chilometri a nord-ovest di Ravenna, sarà il luogo dove Romualdo fonda un eremo di breve durata e dove l’imperatore Ottone III fa costruire un monastero donde inviare missionari in Polonia (cf capitoli 30 e 28). Il Guglielmo compagno di cella di Romualdo è da identificarsi con Guglielmo di Pomposa, il quale, eletto abate di quel monastero, vi aggiunse un eremo, in conformità con la prassi di Cuixá e Montecassino.

In un’altra occasione egli abitò nell’isola del Peréo, distante circa dodici miglia da Ravenna. E lì, mentre si intratteneva con un uomo venerabile, cioè un suo discepolo di nome Guglielmo, ad un tratto le fiamme attaccarono le pareti della piccola abitazione e, levatesi in alto, cominciarono a diffondersi con violenza qua e là per il tetto.


Il santo fece subito ricorso al suo solito modo di difendersi. Anziché tirar fuori gli oggetti che erano all’interno, o scoperchiare il tetto, come si fa in questi casi, o gettare acqua in abbondanza, o affannarsi con altri tentativi per spegnere il fuoco, si limitò a pronunciare una preghiera. E immediatamente la potenza divina estinse i turbini crepitanti del fuoco.


 


22. Romualdo ospita l’imperatore; riceve il governo dell’abbazia di Classe.


Ottone III scende in Italia per la seconda volta nel 998; durante una breve permanenza a Ravenna provvede alla nomina dell’arcivescovo e dell’abate di Classe. Alla sede episcopale sale uno degli uomini più eruditi del decimo secolo, il grande Gerberto di Aurillac. Gerberto è amico di Guarino abate di Cuixá; sebbene non abbia mai incontrato Romualdo nell’abbazia catalana, certamente lo conosce di fama. Non è impossibile che la proposta di fare Romualdo abate di Classe venga proprio da Gerberto. Gerberto resterà arcivescovo non più di un anno. Il 4 febbraio 999 muore Papa Gregorio V, giovane ventisettenne parente di Ottone, e subito l’imperatore fa incoronare Gerberto con il nome di Silvestro II. Rimasta vacante la sede di Ravenna, cominciano a correre voci su una possibile nomina di Romualdo; tali voci gli daranno un motivo in più per rinunziare al governo di Classe.


Sebbene gli avvenimenti di questo capitolo siano certamente storici, Pier Damiano descrive il conflitto fra Romualdo abate e la sua comunità sulla falsariga di quanto racconta S. Gregorio Magno (Dialoghi 2,3) di S. Benedetto e dei monaci di Vicovaro.


 



Fu allora che il giovane imperatore Ottone III, desiderando riformare l’abbazia di Classe, concesse ai fratelli la facoltà di eleggere liberamente chi volessero. Ed essi, subito e all’unanimità, chiesero Romualdo.


L’imperatore però si rese conto che difficilmente il beato si sarebbe lasciato convocare a corte da un messaggero. Volle pertanto andare personalmente da lui. Giunse alla sua cella verso il calare del sole. Romualdo, trovandosi a ricevere nella sua casetta un ospite tanto ragguardevole, gli offrì il suo letticciolo per il riposo. Il re però non accettò la sua coperta, giudicandola troppo ispida.


Il mattino dopo, il re lo condusse con sé a palazzo e cominciò a supplicarlo insistentemente di accettare l’abbazia. Romualdo era riluttante e si rifiutava risolutamente di dare il suo consenso alla richiesta del re. Allora il re minacciò di farlo scomunicare da tutti i vescovi e gli arcivescovi e dall’intero concilio sinodale. Ed egli, di fronte all’inevitabile, si arrese e accettò, costretto al governo delle anime. Riferiva, però, che tutto ciò per lui non era affatto una novità, ma gli era stato rivelato da Dio già da cinque anni.


E così governava i suoi monaci secondo la stretta disciplina della regola 33 e a nessuno permetteva di allontanarsene impunemente. Si trattasse di un nobile o di un letterato, nessuno osava deviare con azioni illecite verso destra o verso sinistra o allontanarsi dalla rettitudine della diritta via della vita comune. Insomma il santo teneva gli occhi del cuore rivolti al cielo e, pur di obbedire a Dio in ogni cosa, non aveva timore di dispiacere agli uomini.


I fratelli, che egli aveva accettato di governare, si resero conto di tutto ciò quando oramai era tardi. E dapprima si scambiarono accuse per averlo chiesto come superiore. Poi si misero a denigrarlo con molte mormorazioni diffamatorie e a trafiggerlo duramente con degli scandali.


 


23. Romualdo rinunzia al governo di Classe; mette pace fra Ottone e gli abitanti di Tivoli.


La Vita dei cinque fratelli ci aiuta a stabilire l’ordine cronologico degli eventi che seguono la rinunzia al governo dell’abbazia:


1. Romualdo «in presenza dell’imperatore getta il pastorale; e ciò per non perder forse se stesso, mentre non poteva guadagnare gli altri» (dicembre 999).


2. Romualdo parte immediatamente per Montecassino (di questo viaggio Pier Damiano ne parla al cap. 26), dove trova l’amico e compagno dei bei tempi presso S. Michele di Cuixá, Giovanni Gradenigo. Nell’autunno dell’anno mille Romualdo si ammala e viene curato da un giovane monaco, discepolo del Gradenigo, di nome Benedetto (cf cap. 28).


3. Nel novembre dello stesso anno Ottone III entra in Roma e si ritira con alcuni membri della sua corte nel monastero dei SS. Alessio e Bonifacio sull’Aventino, una comunità che unisce un gruppo di monaci greci con dei benedettini cluniacensi. Qui Bruno di Querfurt si era da poco fatto monaco, prendendo il nome di Bonifacio, in onore del grande monaco missionario inglese Bonifacio (675-754) «apostolo della Germania».


4. Subito dopo, arriva a Roma S. Romualdo; incontra l’imperatore sull’Aventino, prende con sé Bruno Bonifacio e Tammo (anche lui divenuto monaco come penitenza per il fatto di cui al cap. 25) e si stabilisce fuori città in un eremo provvisorio (forse nelle vicinanze dell’abbazia di Subiaco). L’assedio di Tivoli avviene in questo periodo, fra il dicembre del 1000 e il gennaio del 1001.


5. Il 16 febbraio 1001 Roma insorge contro Ottone; l’imperatore con le truppe tedesche e il «suo» Papa Silvestro II fuggono a Ravenna; Romualdo e i suoi discepoli si ritirano al Peréo.


 


Quando si accorse che così la sua perfezione andava diminuendo, mentre i loro costumi scivolavano verso il peggio, Romualdo si presentò senza indugi al re e, nonostante le obiezioni di costui e dell’arcivescovo di Ravenna, sotto gli occhi di entrambi gettò a terra il pastorale e si dimise dal monastero.


Il re si trovava allora ad assediare la città di Tivoli. I cittadini avevano infatti ucciso il suo illustre duca Mazzolino e, ricorsi alle armi, avevano cacciato lo stesso re dalle loro mura. Pertanto, è indubbio che era stata la divina provvidenza a mandare lì Romualdo, il quale mediò la pace e allontanò così il pericolo che incombeva su tante anime. Fu pattuito che i Tiburtini, come segno di rispetto verso il re, avrebbero demolito una parte delle mura, avrebbero dato degli ostaggi e avrebbero consegnato in catene alla madre l’uccisore del duca. Costei poi si lasciò impietosire dalle preghiere che il santo rivolse a Dio, perdonò il delitto all’uccisore, che già aveva cominciato a far tormentare, e lo lasciò tornare incolume a casa.


 


 


24. Romualdo corregge l’eremita Venerio.


Romualdo ripete all’eremita Venerio le parole che lui stesso ha sentito nella visione di S. Apollinare mentre era «non lontano dal Catria» (cap. 19), cioè che deve «recarsi al suo monastero». L’eremitismo romualdino si colloca all’interno del sistema benedettino, non come alternativa alla vita cenobitica ma come suo arricchimento e completamento. Per questo Romualdo viene chiamato (da Bruno Bonifacio di Querfurt) «il padre degli eremiti ragionevoli», in quanto i suoi discepoli «vivono sotto la Regola», quella di S. Benedetto (cf: Vita dei cinque fratelli, cap. 2).


Si può confrontare questo episodio della vita di Romualdo con quello raccontato da S. Gregorio Magno (Dialoghi 3,16). Dice S. Benedetto a un eremita che si era legato alla sua caverna con una catena: «Se sei servo di Dio, a tenerti legato non sia una catena di ferro, ma la catena di Cristo».



 


Presso Tivoli Romualdo produsse anche un altro frutto di bene, che ritengo di non dover passare sotto silenzio. Un sant’uomo di nome Venerio aveva abitato in un primo tempo entro un monastero. La sua umiltà e la sua semplicità erano così grandi che tutti i fratelli lo deridevano con disprezzo e pensavano che fosse un pazzo privo di ragione. Chi lo prendeva spesso a pugni, chi gli tirava addosso l’acqua sporca della lavatura delle pentole, chi lo esasperava gridandogli rimproveri di ogni specie.


Considerando che non poteva conservare la sua tranquillità in mezzo a tutti quei disagi, lasciò quella compagnia e se ne fuggì in un luogo solitario. Qui viveva da sei anni, astenendosi dal vino e da qualsiasi pietanza cotta, in un regime di estrema austerità.


Romualdo gli chiese: «Sotto quale autorità ti sei posto? A chi presti obbedienza nel tuo stato di vita?». Egli rispose che era libero da ogni autorità, e che faceva quello che gli sembrava meglio. Romualdo gli disse: «Se tu stai portando la croce di Cristo, ti rimane ancora da non tralasciare l’obbedienza di Cristo. Va’, dunque, fatti dare il consenso dal tuo abate. Poi ritorna e vivi umilmente sottomesso a lui. Così l’edificio dell’opera santa, costruito dalla buona volontà, verrà eretto dall’umiltà e innalzato dalla virtù dell’obbedienza». Gli rivolse questo e molti altri ammaestramenti, gli insegnò come resistere ai propri pensieri, come respingere gli assalti degli spiriti iniqui. Così lo lasciò fortificato, istruito e pieno di zelo.


Allora, accogliendo con gioia gli ammaestramenti del santo, quell’uomo andò subito dal suo abate, ne ottenne il consenso e ritornò al più presto alla sua diletta solitudine. Volendo però abitare in un possedimento del suo monastero, se ne salì su una rupe inaccessibile agli uomini e lontana dalla loro compagnia. Qui, per quattro anni, visse solo, privo di qualsiasi conforto umano, salvo tre panini che aveva portato con sé dal monastero. Non mangiava pane, non beveva vino, non assaggiava nulla di cotto. Viveva esclusivamente di frutta e di radici. Nella rupe c’era una cavità in cui d’inverno si raccoglieva l’acqua di cui il santo si serviva per tutta l’estate.


Quando però si venne a sapere che in quel luogo abitava un servo di Dio, cominciarono ad affluire a lui molte persone, a portargli del cibo e a fornirgli tutto ciò che sembrava necessario. Lui però non aveva bisogno di nulla di tutto ciò e dava tutto ai pastori di pecore o ad altri bisognosi.


Esortato dal vescovo del luogo, acconsentì a far costruire e consacrare in quel luogo una basilica. E all’interno di questa, poco tempo dopo, egli morì. Alcune persone che lo cercavano lo trovarono chinato davanti all’altare, quasi si fosse piegato in preghiera sui gomiti e sulle ginocchia.


Qui il Signore si degnò di compiere alcuni miracoli per mezzo di lui. Così, dunque, rese frutti copiosi la buona terra, che aveva accolto dalla bocca di Romualdo il seme della Parola per poi moltiplicarlo.


 


25. Tammo si fa monaco; anche l’imperatore promette di prendere l’abito.


Gli eventi raccontati in questo capitolo sono ben documentati; accadono nell’anno 998, prima che Romualdo venga a Roma e prima degli eventi raccontati negli ultimi due capitoli.


Il racconto di Pier Damiano ve completato, in quanto è di parte e non del tutto giusto nei giudizi che emette su Ottone III e sul suo cugino, il giovane (ventisettenne) prete tedesco che l’imperatore fece eleggere papa col nome di Gregorio V. Una certa giustificazione di questa “ingerenza” si trova nella decadenza del papato del epoca.


Verso la fine dell’anno 997, il senatore Crescenzio caccia da Roma Gregorio V. Nel febbraio del 998 l’imperatore, in testa alle truppe imperiali, ricondusse Gregorio nel palazzo papale. Crescenzio si rifugia in Castel S. Angelo. Indotto con inganno a uscirne volontariamente, Crescenzio viene preso e decapitato alla fine di aprile.



 


Nelle vicinanze della predetta città, Romualdo convertì Tammo, un tedesco che, a quanto si dice, era così familiare e caro al re che l’uno stava nei panni dell’altro e, mangiando spesso insieme, le loro mani si univano su un unico piatto. Il senatore romano Crescenzio, incorso nell’indignazione del re, si era rifugiato in Monte S. Angelo e, poiché questa è una fortezza inespugnabile, si preparò con fiducia a respingere l’assalto del re.


 Tammo, allora, gli prestò giuramento di fedeltà per ordine del re e così egli venne catturato e, con il consenso del papa che gli era nemico, subì la pena capitale come reo di lesa maestà. La sua moglie fu presa poi dall’imperatore come concubina. Essendosi Tammo reso complice dell’inganno e colpevole di spergiuro, Romualdo gli comandò di lasciare il mondo. E lui ne chiese subito licenza al re, che gliela concesse facilmente, anzi ne fu molto contento.


 Ottone era assai benevolo verso l’ordine monastico e nutriva devoto affetto verso i servi di Dio. E quando egli ebbe confessato quel crimine, per penitenza uscì a piedi nudi dalla città di Roma e arrivò fino al monte Gargano, alla chiesa di S. Michele.


 Inoltre rimase per tutta la quaresima nel monastero di S. Apollinare in Classe, con pochi accompagnatori. Qui si dedicava come poteva al digiuno e alla salmodia. Portava sulla carne un cilicio e, sopra, indossava la porpora dorata. E, sebbene gli venisse preparato un letto con coperte splendenti, egli mortificava le tenere membra del suo corpo delicato sdraiandosi sopra una fitta stuoia di papiro. Promise anche a Romualdo di lasciare l’impero e accettare l’abito monastico. Lui, a cui erano sottoposti innumerevoli mortali, si assoggettò così al Cristo povero e, da allora, gli fu debitore di se stesso.


 


26. Romualdo s’ammala a Montecassino, poi torna al Peréo.


Ricordiamo che gli episodi ambientati a Roma e a Tivoli avvengono dopo la permanenza di Romualdo a Montecassino e immediatamente prima del rientro al Peréo con Bruno Bonifacio e gli altri. Nei capitoli che seguono (27-31) Pier Damiano abbandona del tutto l’ordine cronologico; lo precisiamo seguendo sempre la traccia della Vita dei cinque fratelli e di altri documenti contemporanei agli eventi.


 1. L‘imperatore Ottone III fa costruire al Peréo un monastero cenobitico in onore di S. Adalberto, arcivescovo di Praga e monaco del monastero sull’Aventino, che subì il martirio in Polonia il 23 aprile 997 e fu sepolto a Gniezno. Romualdo dà il suo consenso al progetto, attirando su di sé molte critiche (vedi cap. 30). Siamo nell’autunno del 1001.


 2. Ottone propone a Romualdo di mandare alcuni suoi discepoli in Polonia. Con il permesso di Romualdo, Benedetto da Benevento e Giovanni partono ai primi di Novembre 1001 (vedi cap. 28).


 3. Poco prima della loro partenza, infastidito dalla continua presenza nell’eremo dei cortigiani di Ottone, Bruno Bonifacio si trasferisce in un altro posto, e anche Romualdo se ne va, salpando per Parenzo (Croazia), dove conta parenti e terre di proprietà della famiglia.


4. A Natale dello stesso anno, in un sinodo tenuto a Todi e presieduto da Silvestro II, si decide di consacrare Bruno Bonifacio vescovo per la missione nei paesi slavi. Nel gennaio 1002 Ottone III parte all’assedio di Roma, è sconfitto e rifugiatosi nel castello di Paterno vicino al Monte Soratte muore di vaiolo all’età di 23 anni (vedi cap. 30); Silvestro II muore l’anno seguente.


 5. La notizia della morte dell’imperatore arriva alle orecchie di Giovanni e Benedetto in Polonia, dove con alcuni novizi polacchi attendono ansiosi il condiscepolo Bruno Bonifacio con la licenza papale per la loro missione tra i pagani. Attaccati da una banda di ladri muoiono santamente giovedì 11 novembre 1003 (cap. 28).


 6. Nel 1005 Romualdo lascia Parenzo e torna in Italia, dove inizia la fase più prolifica della sua attività di fondatore: lo troviamo a Biforco in Romagna (cap. 34), nella Marca camerinese (Val di Castro, cap. 35), a Orvieto (cap. 37) e altrove.


 7. Il 9 marzo 1009 Bruno Bonifacio cade martire per mano dei Prussi nell’attuale Lituania (cap. 27); Romualdo è a Orvieto.


 


Poi, insieme a Tammo, già ricordato, a Bonifacio, che ora la chiesa russa vanta come suo santo martire, e ad altri tedeschi convertiti, Romualdo giunse da Tivoli al monastero di S. Benedetto che si trova a Montecassino. Lì si ammalò assai gravemente, ma ben presto, per la divina misericordia, guarì.


Possedeva un ottimo cavallo, che gli era stato donato dal figlio del re polacco Boleslao, divenuto monaco per opera sua. Il santo, per umiltà, lo scambiò e, tanto per avere un buon guadagno, da bravo affarista si fece dare un asinello! Per il desiderio di fare come il nostro Redentore, che si era seduto su un’asinella, l’uomo di Dio cavalcava più volentieri questo animale.


Con tutte le persone sopra menzionate, Romualdo ritornò poi al Peréo, dove già aveva abitato in precedenza. Qui si associò quelli e molti altri fratelli e assegnò a ciascuno una cella. Sia lui che gli altri erano tanto ferventi nell’osservare con rigore la vita eremitica, che dovunque arrivasse notizia della loro vita, questa veniva giudicata ammirabile. E chi non si stupirebbe o non avrebbe acclamato a un mutamento dovuto alla destra di Dio, se vedesse dapprima degli uomini vestiti di seta o addirittura d’oro, circondati di stuoli di servitori e abituati a delizie di ogni genere in abbondanza e li rivedesse poi contenti di un rozzo mantello, solitari, scalzi, incolti e rinsecchiti da un’astinenza così rigida? Tutti si impegnavano in lavori manuali: chi faceva cucchiai, chi tesseva, chi intrecciava reti.







 


27. Bruno Bonifacio rende testimonianza a Cristo in mezzo ai Prussi.


Questo capitolo, il più lungo della VR, contiene l’errore storiografico più serio dell’opera: S. Pier Damiano chiama «re dei Russi» il principe pagano dei Prussi, fra cui Bruno Bonifacio trovò il suo martirio. Dopo il millenario del battesimo di Vladimiro, il santo principe della Rus’ di Kiev (celebrato nel 1988), è importante precisare il rapporto che il nostro Bruno Bonifacio ebbe con lui.


In una lettera indirizzata a Enrico II successore di Ottone III, Bruno Bonifacio parla dell’ospitalità del «signore dei Russi» che preoccupato per l’incolumità dell’ospite, lo scongiurava di non avventurarsi fra le tribù pagane. Al loro addio Vladimiro gli disse: «Ti ho condotto fin dove finisce il mio territorio e incomincia quello dei nemici. Ti scongiuro per amore di Dio, non voler perdere la tua giovane vita: sarebbe un disonore per me. So che in un futuro molto prossimo dovrai soffrire acerba morte, inutilmente e senza motivo». Rispose Bruno Bonifacio: «Ti apra Iddio il paradiso, come tu ci apristi la via verso i pagani».


L’amicizia fra i due santi della Chiesa indivisa è un segno per i nostri tempi: mille anni fa, alla vigilia della scomunica della Chiesa di Costantinopoli da parte di Roma e viceversa (le scomuniche furono cancellate nel 1966 alla fine del Concilio Vaticano II), i santi delle due Chiese sorelle – S. Bruno Bonifacio inviato da Roma, S. Vladimiro erede spirituale di Bisanzio – vivevano in perfetta comunione e collaboravano per la diffusione del Vangelo nel pieno rispetto delle diverse tradizioni e discipline ecclesiastiche.


Bruno Bonifacio muore il 9 marzo 1009. S. Romualdo è a Orvieto, e quando riceve la notizia parte per Roma e va dal Papa Sergio IV per chiedere l’autorizzazione di andare missionario in Ungheria (vedi cap. 39).



 


La vita condotta da [Bruno] Bonifacio superava di molto quella di tutti gli altri. Egli era stato consanguineo del re e questi lo aveva così caro che non lo chiamava con altro nome se non «anima mia». Ben presto era stato istruito nelle arti liberali, ma soprattutto eccelleva negli studi musicali. Quando faceva parte della cappella reale, vedendo una chiesa intitolata all’antico martire Bonifacio, si era subito sentito sollecitato dal desiderio del martirio a imitazione del suo omonimo e aveva detto: «Mi chiamo Bonifacio anch’io. Perché dunque non dovrei anch’io essere un martire del Cristo?».


In seguito, divenuto monaco, si attenne a un’astinenza così frugale che sovente nella settimana prendeva da mangiare soltanto la domenica e il giovedì. Qualche volta, se scorgeva fitti cespugli di ortiche o addirittura di spini, vi si gettava e vi si rotolava. Per questo, una volta un fratello lo riprese, dicendogli: «Ipocrita, perché fai questo davanti a tutti per attirarti l’ammirazione della gente?». E lui non gli rispose che questo: «A te i confessori, a me i martiri».


Dopo un prolungato periodo di vita eremitica, iniziò i preparativi per recarsi a predicare. Volle prima raggiungere Roma e ivi ricevette, dalla sede apostolica, la consacrazione archiepiscopale. Un monaco anziano, che lo aveva accompagnato lì dal territorio di Ravenna, mi riferiva che per tutto il viaggio quell’uomo di Dio procedette a piedi insieme ai suoi accompagnatori, salmodiando in continuazione, precedendo gli altri di un buon tratto di strada, e sempre a piedi nudi. In ragione delle fatiche del viaggio, prendeva cibo ogni giorno, mezzo pane e acqua al giorno, mentre nelle feste, pur escludendo qualsiasi minestra, aggiungeva al vitto quotidiano un po’ di frutta o di radici.


Dopo essere stato consacrato, celebrava le ore recitando ogni giorno sia l’ufficiatura monastica sia quella canonica. Durante il viaggio per i territori oltramontani, andò a cavallo. Ma, si dice, il pontefice stava sempre a gambe e a piedi nudi e soffrì il rigore insopportabile di quelle gelide regioni fino al punto che, quando voleva smontare da cavallo, difficilmente poteva staccare il piede dalla staffa senza ricorrere all’acqua calda.


Una volta arrivato presso i pagani, incominciò a predicare con un fervore così costante da non lasciare dubbi che il santo desiderasse il martirio. E, poiché dopo il martirio di S. Adalberto si erano convertiti molti slavi per lo splendore dei suoi miracoli, per paura che si ripetesse una simile eventualità, per lungo tempo quelli si astennero, con calcolata malizia, dall’aggredire il beato uomo. Così non volendo ucciderlo, risparmiarono crudelmente chi aveva un desiderio vivissimo di morire.


L’uomo di Dio giunse fino alla presenza del re dei Russi [Prussi] e vi predicò con fermezza e ardore. Il re, vedendolo vestito miseramente e a piedi nudi, pensò che il santo parlasse così non tanto per motivi di religione, quanto per far incetta di denaro. Gli promise perciò di colmare la sua povertà con ricchissime elargizioni, se si fosse astenuto dai suoi vaneggiamenti. Bonifacio tornò subito alla sua abitazione, si rivestì convenientemente dei suoi abiti pontificali più preziosi e si ripresentò così al palazzo del re. E il re, al vederlo in quelle splendide vesti, disse: «Ora sappiamo che ti dedichi ai tuoi vani ammaestramenti non per miseria, ma per ignoranza della verità. Tuttavia, se proprio vuoi farci credere quello che affermi, si preparino due alte cataste di legna, molto vicine l’una all’altra, si appicchi il fuoco, e, quando l’incendio avrà unito i due mucchi in una sola fiamma, tu passaci in mezzo. Se riporterai delle bruciature da qualche parte, noi ti faremo consumare da quello stesso fuoco. Se invece accadrà l’incredibile e tu ne uscirai sano, tutti quanti crederanno senza difficoltà al tuo dio». Il patto piacque sia a Bonifacio che ai pagani presenti. Bonifacio, dunque, indossò i paramenti della Messa, girò attorno al fuoco con acqua santa e con incenso, poi entrò in mezzo alle fiamme crepitanti e ne uscì illeso. Nemmeno il più piccolo dei suoi capelli era rimasto bruciato. Allora, il re e gli altri spettatori si gettarono insieme ai suoi piedi, gli chiesero perdono piangendo e lo supplicarono insistentemente di battezzarli.


Le folle che cominciarono ad affluire per farsi battezzare erano così numerose che il santo dovette recarsi presso un vasto lago e battezzarli là, dove c’era acqua in abbondanza. Il re decise di lasciare il regno al proprio figlio e di non separarsi da Bonifacio per il resto della vita. Un suo fratello, che abitava con lui, fu fatto uccidere dal re, durante un’assenza di Bonifacio, per non aver voluto credere. Un altro fratello, che già viveva in un’abitazione separata da quella del re, fin da quando aveva visto arrivare da lui l’uomo di Dio, non l’aveva mai voluto ascoltare. Anzi, quando il fratello si convertì, subito bruciò di grande ira contro di lui. E per evitare che, mantenendolo in vita, il re lo sottraesse alla sua vendetta, lo fece decapitare davanti ai suoi propri occhi e alla presenza di una numerosa folla. Immediatamente, però, egli rimase cieco e lo stupore che invase gli astanti fu tale che nessuno di loro poteva più parlare o sentire o compiere una qualsiasi attività umana. Tutti erano rimasti rigidi e immobili come pietre.


Il re, quando ne ebbe notizia, fu colpito da grande dolore e deliberò non solo di far uccidere suo fratello, ma di far trucidare con la spada tutti gli altri fautori del delitto. Si recò subito sul posto e vide, in mezzo, il corpo del martire e, tutto intorno, il fratello e gli altri starsene insensibili e immobili. Allora, lui e i suoi uomini convennero di dover prima pregare per quegli uomini, perché la divina misericordia restituisse loro l’uso dei sensi, e dopo, se avessero accettato di credere, avrebbero avuto il perdono e la vita, altrimenti sarebbero morti tutti di spada vendicatrice.


Quando il re e gli altri cristiani ebbero pregato a lungo, non soltanto tutti riebbero l’uso dei sensi, ma, in più sopraggiunse in loro la decisione di chiedere la vera salvezza. Infatti, si misero subito a chiedere piangendo una punizione per il delitto commesso, ricevettero il sacramento del battesimo con grande prontezza d’animo e, sul corpo del martire, costruirono una chiesa.


 Se dovessi provarmi a riferire tutti i doni di virtù che di quest’uomo ammirabile si possono raccontare secondo verità, potrebbe forse venirmi a mancare la lingua, non certo la materia. Poiché però la vita virtuosa di Bonifacio tuttora attende di essere messa per iscritto separatamente, noi qui vogliamo ricordarlo al di sopra e insieme agli altri discepoli di Romualdo, per mostrare, lodando costoro, quanto fosse grande il loro glorioso maestro. E così, fino a quando risuonerà alle orecchie dei fedeli la sublimità della sua cerchia, si potrà conoscere dai suoi scolari quanto sublime dovette essere il loro istruttore.


 




28. Giovanni, Benedetto e i loro compagni polacchi muoiono perdonando gli assassini.


Nella Vita dei cinque fratelli Bruno Bonifacio racconta la storia dei due discepoli romualdini che con tre novizi polacchi versarono il loro sangue innocente perdonando gli uccisori. Il libro è un inno all’amicizia ed è pieno di calore umano e di grande zelo per il Vangelo di Cristo. Bruno Bonifacio sottolinea l’attenzione che Giovanni e Benedetto prestavano alla cultura e ai costumi della gente fra cui avrebbero svolto la loro missione. I due monaci deposero l’abito tradizionale per vestirsi secondo l’uso locale; si sono sforzati di imparare bene la lingua del popolo; e non è inverosimile che anche nelle celebrazioni liturgiche usassero la versione slava della Messa romana fatta dai Santi Cirillo e Metodio, la cosiddetta «Liturgia di S. Pietro» o «Messa glagolitica».


 Un’altra inesattezza di Pier Damiano: Giovanni e Benedetto furono in Polonia appena due anni, non sei. Morirono nelle prime ore di giovedì 11 novembre 1003.


 


Frattanto, nel tempo in cui Romualdo abitava al Peréo, il re Boleslao fece pervenire all’imperatore una supplica per chiedergli di mandargli uomini spirituali che chiamassero alla fede la popolazione del suo regno. L’imperatore si rivolse subito a Romualdo e lo supplicò di mettere a disposizione alcuni suoi monaci, in grado di essere destinati con frutto a quella missione. Questi non volle però farne a nessuno dei suoi un obbligo con autorità di superiore. Lasciò a ciascuno la facoltà di scegliere se restare o partire. Su una materia così densa di rischio egli non sapeva quale fosse la volontà di Dio e pertanto volle rimetterla alla decisione dei fratelli, piuttosto che alla propria. Allora il re prese a consultarli e a pregarli umilmente, finché, alla fine, fra tutti se ne trovarono soltanto due che offrirono spontaneamente la propria disponibilità a partire. Si chiamavano Giovanni e Benedetto.


I due, una volta arrivati presso Boleslao, dapprima sostentati da costui, abitarono in un eremo e si applicarono con impegno ad apprendere la lingua slava per poter poi predicare. Sei anni dopo, quando ormai possedevano bene la lingua, mandarono a Roma un monaco a chiedere al Sommo Pontefice la licenza di predicare. Lo incaricarono anche di portare, al ritorno, altri fratelli del beato Romualdo, bene avviati nella vita eremitica, che avrebbero abitato insieme a loro nel territorio polacco.


 Boleslao desiderava ottenere dall’autorità romana la corona del regno. Per questo pregò con insistenti suppliche i predetti uomini venerabili di recare personalmente al papa molti suoi doni e di riportargli la corona dalla sede apostolica. Ma essi ricusarono assolutamente di acconsentire alla richiesta del re. Gli dissero: «Noi siamo costituiti nell’ordine sacro; non ci è permesso in alcun modo occuparci di affari secolari». E così lasciarono il re e fecero ritorno alle loro celle.


 Alcune persone erano al corrente del progetto del re ma non avevano saputo della risposta dei santi. Immaginarono così, che questi avessero portato nelle loro celle una copiosa quantità d’oro da portare al papa. Si riunirono e pattuirono di entrare nottetempo nell’eremo di nascosto, di uccidere i monaci e prendersi il denaro.


 Gli uomini beati, quando si accorsero che quelli tentavano di fare irruzione, si resero subito conto dei motivi di quell’arrivo. Si confessarono tra loro e incominciarono a cercare rifugio nel segno della santa croce. Presso di loro c’erano due servitori, messi a loro disposizione dalla corte. Per quanto glielo permisero le loro forze, essi tentarono di difendere i santi e di opporsi ai ladri. Ma i ladri, una volta riusciti ad entrare, estrassero le spade e uccisero tutti quanti. Poi cercarono affannosamente il tesoro, misero tutto a soqquadro, ma non trovarono niente.


 Allora, volendo nascondere il loro grave delitto, e far credere che l’accaduto fosse dovuto a un incendio anziché alle loro armi, cercarono di dar fuoco alla cella e così bruciare i cadaveri dei martiri. Ma il fuoco perse le sue prerogative naturali. Quando veniva accostato, nonostante gli sforzi di quegli uomini, non poteva assolutamente appiccarsi ad alcunché. La materia stessa delle pareti lo respingeva, come se fosse selce durissima anziché legno.


 Così delusi, i ladri tentarono di darsi alla fuga, ma la provvidenza divina negò loro anche questo. E per quanto si affannassero per tutta la notte a cercare la strada del bosco attraverso cespugli, larghe gole e buie boscaglie, i loro passi erravano qua e là e non riuscirono in nessun modo a trovarla. Non poterono nemmeno riporre nei foderi i loro pugnali: le loro braccia si erano come paralizzate.


 Sul luogo in cui giacevano i corpi dei santi, fino al mattino non cessò di brillare una luce intensa e di risuonare un canto d’angeli dolcissimo e soave.


Quando fu giorno, l’accaduto non poté sfuggire al re. Questi si recò subito all’eremo con molta gente e, per non lasciare scampo ai ladri, circondò di uomini ogni lato del bosco. Infine essi furono trovati e riconosciuti palesemente colpevoli del delitto, dato che le loro mani, per punizione divina, erano attaccate alle spade.


 Il re, esaminando il caso, rifletté sulla sorte da riservare loro e, infine, decise di non farli uccidere, come avrebbero meritato, ma di destinarli, incatenati, al sepolcro dei martiri. Sarebbero così vissuti miseramente in catene fino alla morte, a meno che i santi martiri, decidendo diversamente, non avessero voluto liberarli per misericordia. Non appena, per ordine del re, essi furono trascinati alla tomba dei santi, subito, per l’onnipotenza ineffabile di Dio, i legami si spezzarono, lasciandoli liberi. Sul corpo dei santi venne poi costruita una basilica, dove si verificarono allora e si verificano tuttora innumerevoli prodigi, per virtù divina.


 


29. Un monaco polacco, messo in prigione da Enrico II, viene liberato da un angelo.


Per quanto riguarda il duca Boleslao Chrobry, né la Vita dei cinque fratelli né altre fonti parlano di un tentativo da parte di Boleslao di «comprare» dal papa la corona del re. La Santa Sede non ha alcuna possibilità di prestare aiuto ai polacchi contro l’imperatore sassone Enrico, e per più di venti anni dovranno lottare da soli per conservare la loro indipendenza dall’egomonia tedesca. Pier Damiano si presume che abbia ricevuto questa notizia da persone vicine alla corte di Enrico II, il quale era notoriamente ostile a Boleslao e ai polacchi (vedi cap. 65). Siamo nel 1004; alla fine del 1005 si stipula una pace di breve durata fra Enrico e Boleslao, e Bruno Bonifacio inizia la sua missione in Polonia.


 


L’imperatore Enrico non ignorava i progetti di Boleslao e aveva fatto sorvegliare le varie strade per poter subito catturare eventuali inviati di Boleslao a Roma. Pertanto, il monaco mandato poco tempo prima dai santi martiri, venne preso e immediatamente tradotto in carcere. Ma durante la notte, venne un angelo del Signore a visitarlo in carcere, lo informò della sorte subita dai suoi mandanti e, subito dopo, apertosi per potenza divina il carcere, gli fece sapere che c’era un’imbarcazione pronta per lui presso il fiume che egli avrebbe dovuto attraversare. Il monaco vi si recò in fretta e poté verificare che la promessa dell’angelo corrispondeva al vero.


 


Note:


33 Notiamo il senso che Pier Damiano e Romualdo danno alla «stretta disciplina della regola»: si tratta soprattutto della vita comune, della koinonia che unisce i monaci e li fa tutti uguali. In una società feudale le distinzioni di classe e di cultura inevitabilmente si mantenevano anche in monastero. E’ proprio questo che Romualdo non tollera.