San Riccardo Pampuri

Di Paola Bergamini


Erminio Pampuri nacque a Trivolzio, alle porte di Milano, nel 1897. Per sei anni fu medico condotto a Morimondo. Entrò nell’ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) nel 1927, con il nome di Riccardo. Morì tre anni dopo. È stato canonizzato da Giovanni Paolo II il 1° novembre 1989 con queste parole: «È una figura straordinaria vicina a noi nel tempo, ma più ancora ai nostri problemi ed alla nostra sensibilità. La sua vita breve, ma intensa, è uno sprone per tutto il popolo di Dio, ma specialmente per i giovani, per i medici, per i religiosi».

Ne raccontiamo la vita, in questo colloquio immaginario tra persone che gli furono vicine: la sorella Longina, suora missionaria in Egitto; gli zii Carlo e Maria Campari che lo allevarono; un compagno di studi in Università; la sorella Margherita; don Riccardo Beretta, sua guida spirituale; padre Zaccaria Castelletti, provinciale dell’ordine del Fatebenefratelli; il nipote Alessandro Pampuri.


Il dialogo è costruito utilizzando alcune testimonianze raccolte per la causa di beatificazione e canonizzazione.

«Abbi grandi desideri, cioè desiderio di grande santità, di fare opere grandi; mira sempre più in alto che puoi per riuscire a colpire giusto: fa poiché non sempre sarai chiamato ad azioni gloriose, fa anche le cose piccole, minime, con grande amore». «…far sempre la volontà del Signore nell’esatto adempimento dei propri doveri, e in una lotta perseverante… questo dovrebbe veramente essere il mio programma. E noi ci sforzeremo di servirlo sempre non con timore servile dei castighi, ma per amore, con un amore sempre più grande che ci farà trovare sempre più lievi le sue croci e più soave il suo giogo». «Avevo 30 anni quando mio fratello Riccardo mi scrisse queste poche righe, a me suora missionaria in Egitto. Era il 28 ottobre l928. Due anni dopo sarebbe morto. Santo. San Riccardo Pampuri, medico del Fatebenefratelli. Te lo ricordi zia?».


«Certo. Il mio Erminio, questo era il suo nome prima di prendere i voti. Ricordo quando tuo padre lo portò a casa nostra, a Trivolzio. Tua madre era da poco morta di tubercolosi, lui era il decimo di undici figli. Io e Carlo, fratelli della mamma, lo accogliemmo in casa nostra come un figlio. Era un bambino tranquillo, bravo negli studi. Una consolazione per noi. Eh, Carlo?».


«Altroché! Ero orgoglioso di lui. Soprattutto quando mi disse che voleva seguire le mie orme. Anche lui medico. Anche lui all’università di Pavia. Se non fosse stato per la parentesi bellica – Prima guerra mondiale – forse si sarebbe laureato in due anni…».


«Io lo conobbi proprio in università. Per me fu un vero compagno di studi. Pur estraniandosi dalle varie congreghe era sempre con e per noi.


Faceva parte del circolo San Severino Boezio, associazione fondata nel 1898 dal vescovo locale, monsignor Riboldi, per la formazione morale degli studenti “quasi a dimostrazione solenne che era ancora possibile l’unione della scienza con la fede e la pratica della morale cattolica”. E vi assicuro che non erano tempi facili quelli. Tra i giovani studenti di allora vi era chi ostentava una vita dissoluta e sfrenata. L’ambiente intellettuale era ancora dominato da un agnosticismo religioso e, nelle concezioni biologiche poste a base dei nostri studi medici, da un meccanicismo sostenuto in buona fede da menti assai colte di scienze profane e digiune di cultura religiosa. I circoli universitari cattolici ebbero gran merito nel preparare quel miglioramento dell’ambiente e nel preservare singoli giovani dal contagio dell’agnosticismo e dell’irreligiosità. Vi erano altresì molti giovani esemplari per rettitudine e dignità. Erminio era uno di questi. Ho in mente un fatto preciso. Lo rivedo, durante una sollevazione studentesca, accostarsi ai cadaveri di due studenti uccisi, unico ad osare di farlo. Pregò su di loro, ritirandosi poi indisturbato. I dimostranti che erano ad una vicina finestra lo rispettarono, mentre spararono immediatamente ad un altro che tentò di avvicinarsi. Non fu solo una prova di coraggio».


«Se vogliamo parlare di coraggio, mio nipote la prova la diede durante il servizio militare. Lui non ne voleva mai parlare. Forse perché da quel fatto la sua salute fu compromessa. Comunque… Era la ritirata di Caporetto, gli ufficiali medici della sua compagnia avevano abbandonato tutto il materiale sanitario ed erano fuggiti con i soldati. Erminio, non volendo che medicinali tanto preziosi andassero perduti, li caricò su un carretto trainato da una mucca e, completamente solo, sfidando il nemico sotto una pioggia battente, camminò per 24 ore verso la sua compagnia che raggiunse quando ormai era dato per disperso. Gli costò una pleurite grave da cui non guarì mai completamente. Ne sai qualcosa tu Margherita che, da buona sorella, ti trasferisti con lui, dopo la laurea, a Morimondo dove per sei anni esercitò la professione di medico condotto. Dal 1921 al 1927».


«Già. Che anni! In quel paesino sperduto nelle campagne della Bassa milanese. Non aveva un attimo di sosta, anzi non si dava un attimo di sosta. Potevano chiamarlo in qualsiasi ora del giorno o della notte. Era l’uomo della carità. E prima di tutto della carità spirituale, perché agli ammalati, oltre a curarli, cercava di dire una buona parola e di dare buone letture. Curava i corpi per giungere a curare le miserie dell’anima. Aveva istituito una mutua per la quale gli iscritti pagavano due lire all’anno ed egli scalzando questo misero compenso li visitava in qualsiasi momento. Siccome poi la mutua non forniva le specialità, le forniva e pagava di sua tasca. Quando poi non pagava i conti dei suoi ammalati dal panettiere, dal macellaio… Col risultato che a metà del mese non avevamo più soldi. Lui, il medico, non aveva più soldi e doveva chiederli in prestito. Longina, dall’Egitto, gli aveva scritto di pensare al futuro, alla vecchiaia, agli imprevisti. E lui cosa rispose? Che investiva in un fondo sicuro con degli utili altissimi. Scoprii dopo che i suoi denari li “investiva” nelle missioni. Ma per lui non era sufficiente svolgere bene la sua professione. Era diventato il centro del paese. Per riunire i giovani fondò il circolo dell’Azione cattolica. Ogni anno organizzava gli esercizi spirituali a cui partecipavano non solo giovani, ma anche adulti. Mise in piedi anche un corpo musicale. Per l’acquisto degli strumenti andò personalmente a chiedere offerte di cascina in cascina e poi dava del suo. Fece fiorire attorno a sé una collana di opere di apostolato. Ogni giorno non mancava mai di andare a Messa, di fare una visita, anche fugace, al Santissimo Sacramento. Questo era ciò che lo muoveva: la fede. Era una fede profonda la sua, irradiata dalla luce della speranza cristiana. Se fu grande l’amore per gli ammalati, per i poveri, per i peccatori era perché la sua fede, il suo amore per Dio gli facevano trovare il riflesso divino su quei volti sfigurati dal dolore, dall’indigenza, dal peccato. Ecco perché ogni volta ch’egli doveva incontrarsi con i poveri cercava luce e grazia al Crocefisso, sicché spesso lo si udiva ripetere: “Tutto per Voi, solo per Voi”. Gli ammalati volevano il “dottorino santo”: egli irradiava Iddio. Ma, beninteso, il suo era un comportamento normale: non indugiava in manifestazioni di pietà o di preghiera che sapessero di ostentazione. Eppure tutti guardavano a lui. Fu in quegli anni che prese i voti di Terziario francescano. Io intuivo che però per lui non era sufficiente. Ne sa qualcosa don Riccardo Beretta che lo seguì nella maturazione della sua vocazione spirituale».


«Sì. Io lo conobbi attraverso l’Azione cattolica. Capii che lui si sentiva attratto più verso l’apostolato sacerdotale che alla vita religiosa. Mi disse che per lo stato precario della sua salute aveva già dovuto subire due ripulse: dai minori Francescani e dai Gesuiti. Ne parlai con il padre provinciale dell’Ordine ospitaliero dei Fatebenefratelli, padre Zaccaria Castelletti, che dopo aver avuto un colloquio con lui mi disse: “Dovesse rimanere anche un sol giorno membro effettivo dell’Ordine nostro sia egli il benvenuto. in cielo ci sarà poi un angelo di protezione”».


«È vero, dissi quelle parole. Dopo la grande bufera – il Modernismo – scatenatasi sulla gioventù nell’immediato dopo guerra con lunghe tenaci vibrazioni di spirito ribelle e dentro e fuori il seno della famiglia, intuivo che la presenza di quel giovane medico avrebbe portato una nota di grande equilibrio morale in anime trepide e vacillanti. Il suo sguardo mite, dolce, ma capace di attirare a sé, di avvincere: era appunto quanto occorreva tra nostri novizi».


«Non disse niente della sua scelta, neanche a me che ero la zia, la mamma che lo aveva tirato su. Nemmeno a sua sorella Margherita. Nemmeno ai compaesani. Un giorno prese e se ne andò. Io lo accompagnai al convento dell’Ordine ospitaliero, senza sapere niente. Padre Norberto mi disse: “Allora il dottore si ferma con me”. Cominciai a piangere e a gridare: “Per carità, Erminio non mi abbandonare”. E lui con grande calma e fermezza di spirito mi ripeteva: “Devo seguire la chiamata di Dio; voglio farmi santo” e se ne andò con il maestro al Postulandato. Dopo quindici giorni, erano le dieci, ritornai per persuaderlo a tornare a casa. Lo feci chiamare e lui tramite suor Cherubina mi disse: “Dica alla zia che io devo seguire la chiamata di Dio. Me la saluti tanto”. Non mi arresi. Almeno vederlo. Lo aspettai nel cortile fino alle 13 per vederlo passare. Ma lui, apposta per non incontrami, fece il giro da dietro. Solo per intercessione del padre Maestro riuscii a parlargli. Da quel colloquio capii che quella era la sua vocazione».


«Il 21 ottobre 1927 fu canonicamente vestito. Gli imposi il nome di fra Riccardo. Voglio sottolineare che il nostro ordine unitamente ai voti di povertà, castità ed obbedienza ha il voto della ospitalità, cioè l’assistenza degli infermi ricoverati nei nostri ospedali e in quelli ad essi affidati. Ecco, frate Riccardo compì appieno questo voto. Non solo verso i malati, ma verso tutti coloro che avvicinava. Era il primo a maneggiare la scopa, il primo a vuotare i vasi e le sputacchiere. Con la stessa semplicità e naturalezza con la quale compiva questi uffici, quando mancava il direttore medico o il Primario, all’invito del Superiore indossava la vestaglia bianca e iniziava la visita medica. Quando si accorgeva che qualche confratello sfuggiva a lavori che destavano ripugnanza o comunque capiva che li faceva di malavoglia, diceva: “Sono le piccole umiliazioni, sono le cose che ripugnano che dobbiamo cercare noi religiosi, se non facciamo queste cose, quando esercitiamo un po’ di umiltà? Le fanno i borghesi queste cose, tanto più le dobbiamo fare noi”. Per fra Riccardo la vita religiosa era il mezzo per realizzare appieno il suo ideale di medico che era tutt’uno col suo ideale di religioso. La carità verso il prossimo per lui non era che emanazione di quella verso Dio. Quando la scienza doveva dichiararsi vinta… senza mezzi termini diceva all’ammalato quanto conveniva per il bene dell’anima. Curare i corpi per giungere a curare le miserie dell’anima. La malattia si inserisce nella nostra vita spirituale e ci offre l’occasione di perfezionamento. Questo soprattutto fra Riccardo incarnò su di sé, quando la malattia, che da tanti anni lo affliggeva, lo portò alla morte. Rimase con noi solo tre anni. Nel 1929 le sue condizioni si aggravarono ulteriormente. Su insistenza dei parenti, da Brescia fu trasferito a Milano. La sua ultima missione fu verso i suoi antichi compagni di università. Fece chiamare alcuni di loro che sapeva lontani da Dio. Allorché l’amico invitato giungeva, licenziate le persone che stavano in quel momento nella cella, da solo a solo si tratteneva con lui. Anche il più ateo usciva con le pupille inondate di lacrime. Il I maggio 1930 spirò. Nella Gloria di Dio».


«Un’ultima cosa voglio dirla io, su mio zio Erminio, anche se sono quello che meno lo ha conosciuto. Ricordo quando andavo in vacanza a Trivolzio e mi capitava di stare con lui. Parlava di Dio e della Madonna con un accento tale che veniva dal cuore, come se parlasse di suo padre e di sua madre, di una persona conosciuta. Io lo guardavo sbigottito, perché per me Dio era una grande cosa, ma lontana da tutto quello che potevo vedere o immaginare. Invece per lui era una realtà ben sentita, di cui non poteva fare a meno».



 




  • “… non aver paura di conoscere la verità; noi dobbiamo sempre cercare la verità con ardore e con sincerità, poiché dove è la verità è anche il nostro sommo bene, poiché ivi è Dio il quale disse: Io sono la verità.”




  • “… i contrasti tra la scienza e la fede dipendono solo dalla nostra ignoranza e dalla nostra presunzione o malafede che gabella per fior di scienza semplici teorie, o parti di cervelli malati.”




  • “Iddio ci chiama alla verità, alla luce, alla vita, al bene, alla felicità in questa vita nella sua pace, nell’abbandono alla sua misericordiosa provvidenza, ed alla beatitudine eterna, e la sua parola non inganna, ce ne sono garanti l’esempio dei santi, i continui miracoli anche contemporanei.” (ad un amico – 1926)




  • “Cercate di mettere in pratica i vostri propositi e non fermatevi alle sole promesse, poiché ben sapete che queste da sole non contano, contano bensì i frutti, i quali, se vi metterete veramente d’impegno, non potranno mancare…” (ai nipoti – 31 Agosto 1927)




  • “Se volete poi da tutti essere rispettati e benvoluti, cercate di non mostrarvi mai orgogliosi e superbi coi compagni, e di essere sempre obbedienti e rispettosi coi superiori.” (ai nipoti – 31 Agosto 1927)




  • “Non chiacchierare troppo, ma abituati a tacere ed a restare un po’ raccolto in te stesso poiché la bottiglia aperta lascia svaporare la forza del vino che contiene e lo fa inacidire.” (al nipote – 8 Settembre 1928)




  • “Studia, prega, metti in pratica i buoni consigli dei genitori e superiori (senza bisogno di tralasciare la sana e allegra ricreazione, che è indispensabile) e il Signore ti sarà abbondante con le sue tante grazie e benedizioni, come di tutto cuore ti auguro per la intercessione della nostra tenerissima Madre Celeste…” (al nipote – 8 Settembre 1928)




  • “Per qualsiasi prova o croce non dovremo però mai perdere quella santa pace e tranquillità che ci viene dalla grazia di Dio e dal nostro pieno e filiale abbandono a Lui, e possibilmente non dovremo perdere nemmeno quella sana allegria che rende più leggero il peso dei quotidiani doveri, e più gradita e giovevole la compagnia nostra agli altri. Quale grave torto faremo a Nostro Signore se dovessimo servirlo con una spanna di broncio!” (al nipote – 27 Ottobre 1928)




  • “E quando avrai fatto del tuo meglio, tanto nello studio quanto nel resto, riponi tutto con piena fiducia nel cuore del Signore e della nostra Madre Celeste senza altra preoccupazione di un completo filiale abbandono in Loro, sicuro che tutto andrà sempre per il nostro meglio.” (al nipote – Maggio 1929)




  • “Non guardate tanto al numero, quanto alla fermezza della fede, all’ardore dell’apostolato ed all’amore ai Sacramenti.” (al Sig. Mario Bologna – 10 Aprile 1930)



 


Mia carissima Sorella,


grazie della tua ultima lettera e delle tue fervide esortazioni: far sempre la volontà del Signore nell’esatto adempimento dei propri doveri, e in una lotta perseverante, generosa contro le proprie cattive inclinazioni con gli occhi fissi in Dio, nostra ultima meta e Bene supremo, in Gesù nostro modello Divino, sempre più avanzare nella via della perfezione: crescere sotto l’occhio di Dio, questo dovrebbe veramente essere il mio programma, ed in esso dovrei trovare indubbiamente il più grande contento dell’anima e la più grande pace dello Spinto. Quando infatti ho perso il bene di tale gaudio e di tale pace, se non forse quando nella mia vita ho perso di vista tale suprema meta e mi sono allontanato da così sicura via? Gesù Bambino mi insegnerà e mi aiuterà ad accettare e portare almeno con serena rassegnazione, se non con gioia, quelle croci che Egli vorrà permettere o mandare e mi aiuterà pure ad avere sempre viscere di fraterna carità per coloro che nelle Sue mani potranno essere direttamente o indirettamente di tali croci lo strumento provvidenziale. Il Signore non mancherà di compiere l’opera sua, e di mano in mano che riuscirò a diventare un sempre più buon frate vedrò anche sempre più risplendere in me quella gioia, quel gaudio e quella pace che con tanto amore mi auguri e che di tutto cuore auguro a te pure nella sovrabbondanza delle benedizioni di Dio, soprattutto in queste feste del Santo Natale in cui tutta la Chiesa, anzi tutto il mondo, esulta di riconoscenza e d’amore per il Verbo Divino fattosi per noi uomo come noi, e si è caricato di tutte le nostre iniquità, per fare noi tutti simili a Lui, come Lui figli di Dio qui nella Grazia e nella fede viva, e poi per sempre nel godimento perfetto della sua infinita carità.


Sempre a te unito nel Cuore Sacratissimo di Gesù Bambino coi miei migliori auguri ti saluto.
Brescia, 9 dicembre 1928 


Aff.mo fratello


Fra Riccardo