San Giovanni Calabria (1873-1954) presbitero

fondatore delle Congregazioni dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza


 


Il primato del Regno di Dio e della sua giustizia


FLAVIO ROBERTO CARRARO


Vescovo di Verona


 


Verona, nella meravigliosa costellazione di santi del periodo moderno, si appresta ad accogliere – nel clima gioioso della Pasqua – il dono della canonizzazione di una delle figure profetiche contemporanee più significative, Don Giovanni Calabria. Durante gli anni della sua vita sacerdotale ha trasmesso la Parola, non la sua parola, ma la Parola, l’Opera del Padre attraverso il Figlio presente nella sua Chiesa, missionariamente, apostolicamente per tutti. «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 33).

«Cercare» esprime bene la genialità del suo carisma, cioè un desiderio sentito, sincero e appassionato, ininterrotto fino alla morte. «Prima» è un avverbio che dice come i molti – spesso troppi – desideri dell’uomo devono avere un centro. In Don Calabria il desiderio prioritario sugli altri è che il progetto d’amore per tutti, la provvidenza preferenziale del Padre per i più poveri, è sempre stato prioritario, subordinando tutto ad esso. Ma il primato del Regno e della sua giustizia non ha mai rubato spazio alla ricerca di mezzi per soddisfare gli altri bisogni: il cibo, il vestito, la salute, la libertà, l’educazione, la cultura soprattutto per i più emarginati. Anzi, il primato del Regno è stato la base per garantire la possibilità di soddisfare tutti gli altri bisogni («e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta»).


Ponendo il progetto d’amore del Padre e la sua provvidenza al primo posto, ogni persona viene liberata dagli idoli, sempre in agguato (il personale interesse, il denaro, l’accumulo sfrenato, il piacere), idoli per cui non ci sarebbe posto per il bisogno di «tutti»: chi si disumanizza perché ha troppo e chi è messo alla prova nella sua fede perché non ha il necessario. L’idolatria genera fatalmente accumulo, divisioni, ingiustizie, egoismi privati e pubblici.


Come figura profetica Don Calabria non è stato un indovino nel senso di predire in dettaglio avvenimenti futuri.



Condotto dalla preminente e decisiva azione-guida dello Spirito, egli ha detto la verità in forza del suo contatto, soprattutto Eucaristico, con il Padre per mezzo di Cristo nella sua Chiesa: la verità per gli Anni trenta, quaranta, cinquanta, illuminando il futuro che noi stiamo vivendo ora a fine secolo.


Non troviamo i dettagli per l’oggi, ma gli orientamenti di cammino da percorrere. «Siamo in un’ora solenne dell’umanità! – scriveva in un Promemoria mandato al Beato Cardinale Schuster il 23 giugno 1951 -. È urgente irradiare di nuovo la luce del Vangelo in tutto il mondo!». È la nuova evangelizzazione su cui tanto insiste Giovanni Paolo II. Contrariamente all’ottimismo, egemone in quegli anni, Don Calabria leggeva in profondità e vedeva un ritorno al «paganesimo peggiore dell’antico» dell’Europa, perfino dell’Italia; «sento ripetere in fondo al cuore il lamento di Gesù: i.la mia Chiesa, la mia Chiesa!ll». Ed è proprio dello spirito pagano – il secolarismo – generare fatalmente accumulo di ricchezza e aumento di miseria, divisioni e guerre.


Può essere utile un raffronto fra il Pro-memoria al Beato Ildefonso Schuster, del 23 giugno 1951, e la Lettera di Giovanni Paolo II ai Vescovi italiani del 6 gennaio 1994. «Qui ai piedi del mio crocefisso – inizia – vado riflettendo al mondo odierno; mi pare proprio che siamo alla vigilia di qualche cosa di speciale (…). Il mondo intero guarda a noi dell’Italia, al cuore della Chiesa (…) di qui il mondo aspetta la luce e le direttive di una vita veramente cristiana, vissuta integralmente, francamente, senza compromessi. Solo il Vangelo integrale può salvare le nazioni (…) se noi saremo completamente di Gesù, se saremo cristiani non solo nell’intimo della coscienza e in Chiesa, ma anche nell’esercizio della vita pubblica, nelle relazioni di lavoro, di studio, di professione, di governo diveniamo una forza perché è con noi Gesù Cristo. In tali condizioni di cristianesimo pienamente vissuto, noi non avremo più alcuna necessità di appoggi umani; saranno altri che sentono il bisogno di appoggiarsi a noi. Ma questo verrà ad un patto: che la nostra vita sia veramente e pienamente cristiana».


«Sono convinto che l’Italia – scrive il Papa ai Vescovi italiani il 6 gennaio 1994 – come nazione, ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa. Le tendenze che mirano oggi ad indebolire l’Italia sono negative per l’Europa stessa e nascono sullo sfondo della negazione del cristianesimo (…). All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli Apostoli Pietro e Paolo. Di questo preciso compito dovrà avere chiara consapevolezza la società italiana nell’attuale momento storico (…)».


«Conviene tentare di attuarlo – rispondeva a Don Calabria il Beato Schuster l’11 luglio 1951 riferendosi al Pro-memoria -, sebbene incontri difficoltà. Quando si getta la rete nel lago, non si prendono già tutti i pesci, ma alcuni certamente se ne tirano su».

Tra le molte testimonianze credo che pastoralmente questa direttiva sia la più attuale, in un momento storico in cui la fede non è più un patrimonio comune, ma soltanto un seme talvolta dimenticato, spesso minacciato dai «signori» di questo mondo, ma destinato a dare frutto per opera dello Spirito Santo. Una testimonianza da parte di Don Calabria, un serio impegno per noi.


 


 


Profeta del volto del Padre


WALDEMAR LONGO


Superiore Generale della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza


«Mi viene in mente un caro episodio letto anni fa. Una nave è in preda alla tempesta; tutti i passeggeri sono in ansia e trepidazione per l’imminente pericolo di naufragare. Eppure fra tutti i terrorizzati, c’è un bambino che in un angolo della nave sta giocando, senza nessuna paura. – Come?! tu giochi? non hai paura. – C’è mio padre che guida la nave; son più che sicuro» (Don Giovanni Calabria).
La scoperta di Dio come Padre buono, il migliore Padre che si possa immaginare, di «Dio che è padre, madre, tutto», è il carisma specifico del santo Fondatore dei Poveri Servi della Divina Provvidenza.
Com’è arrivato a questa scoperta Don Calabria? Egli fu un’opera della Provvidenza. Un uomo nel quale la Grazia non trovò alcun intralcio ai suoi divini progetti. Proprio perché uomo di umilissime origini, di costituzione fisica e psichica gracile e di doti intellettuali non eccelse egli ebbe sempre chiaro che ciò che si stava costruendo sotto i suoi occhi doveva avere le sue radici nella dura roccia della fede, della fiducia e dell’abbandono alla divina Provvidenza. Altro a lui non venne richiesto e il suo impegno fu tutto mirato a vivere radicalmente tale fiducia e tale abbandono.


Il periodo degli studi, che molti di noi ricordano con gioia, fu per Don Calabria tempo di prove e di brucianti umiliazioni. Guardando con il senno di poi ai suoi primi anni di sacerdozio vediamo come la sua vita fosse un intrecciarsi di fili che la divina Provvidenza tesseva per condurlo a dar vita a quella che fu poi per lui un’Opera «tutta speciale».


Ma anche per lui l’esperienza di un Dio che è Padre e che ha cura dei suoi figli avvenne nell’incontro reale e profondo con la parola del Vangelo. Guardando alla vita dei santi vediamo come per essi vi sia sempre un momento particolare, direi carismatico di incontro con la grazia di Dio.


Inevitabilmente quel momento coincide sempre con l’incontro con la parola del Vangelo quale pozzo inesauribile di acqua pura che non si esaurisce mai e che affascinando uomini e donne, rende nuove in continuità tutte le cose. La parola che assunse questo significato Don Calabria la trovò nel Vangelo di Matteo, Capitolo 6, versetti 25-33. Furono quelle parole «guardate gli uccelli del cielo… guardate i gigli dei campi… » a offrirgli la luce necessaria dopo una notte di angosciose domande passata a leggere e rileggere il Vangelo.


Se gli studi gli avevano fatto difetto ciò che invece non mancava a Don Giovanni era un profondo intuito spirituale e fu proprio questa intuizione a portarlo al centro stesso del Vangelo e ad individuare in quei versetti matteani la parola capace di rendere nuove tutte le cose e donargli quella pace di cui il suo cuore era bisognoso.


Su quelle pagine egli ha trovato in Gesù il proprio maestro. È, infatti, Gesù che vive per il Padre, e il Padre è per


Gesù l’estrema passione e il solo punto di riferimento. La volontà del Padre è per Gesù l’alimento e il suo sogno è portare a termine la missione ricevuta da Lui.


In una parola, il Padre è il clima, l‘habitat della vita di Gesù. Ed Egli vive il pieno abbandono e la completa fiducia nel Padre. Essere il riflesso del volto del Padre divenne per lui scopo ed esigenza di vita. Contemplare Gesù, imparare da Gesù divenne per don Calabria la via per far risplendere nel mondo la luce del volto di Dio-Padre.


Oltre al significato teologico comune di divina Provvidenza, Don Calabria ha approfondito il lato speciale riguardante i mezzi materiali occorrenti allo svolgimento dell’apostolato che il Signore assegna all’Opera.


È un aspetto caratteristico, al quale Don Giovanni ha dato una interpretazione tutta propria, al di fuori e al di sopra della normale interpretazione comunemente adottata nella Chiesa. Per lui, per l’Opera, il «non v’angustiate» esclude ogni ricerca dei mezzi materiali; vuole che questi si aspettino da oblazioni spontanee di benefattori; esclude qualsiasi riserva, proprietà di immobili per eventuali bisogni ecc.; esclude qualsiasi réclame, qualsiasi orma di propaganda sotto ogni pretesto, per quanto buono e legittimo potesse sembrare. «Niente domandare, niente rifiutare».


Ed è Gesù stesso che ha voluto l’Opera così: «E per le cose temporali segui la via ordinaria, senza angustie, senza ansie, con viva fede in Me, perché altrimenti come vi potete dire e chiamare figli della Provvidenza e mostrare questo mio attributo che voglio, per vostro mezzo, far conoscere al mondo?».


E aggiunge Don Calabria: «Questa è la nostra gioia, il nostro vanto. A noi la Provvidenza ci guarda, ci cura, ci protegge, con modo non generale, ma tutto particolare». Così «l’Opera deve essere una grande luce, un sole che mostra a tutti la Divina Provvidenza, che Dio esiste e pensa a noi; e che la sua Parola, la sua divina Parola non viene meno, mai».


Questo diventa il carisma specifico di Don Calabria: «riportare nel mondo la fede in Dio Padre provvidente; quella fede viva e operosa che genera la fiducia in lui e nella sua paterna e materna Provvidenza; noi dobbiamo essere fari accesi nella notte oscura del mondo; da noi si deve irradiare la pura luce di Cristo e del suo Vangelo».


Grazie alla scoperta del volto di Dio-Padre, Don Giovanni ha vissuto la vera paternità nei confronti dei fratelli e di tutte le persone che avvicinava. Ogni fratello si sentiva il prediletto del padre Don Giovanni.


La sua era una pedagogia che partiva dall’amore e dalla donazione di sé, perché l’altro crescesse. Questa pedagogia creava legami profondi che lo faceva gioire con coloro che gioivano e soffrirecon coloro che soffrivano. Don Calabria ha vissuto la paternità nei confronti dei ragazzi abbandonati, degli ammalati, dei poveri, degli anziani, dei reietti e l’ha vissuta perché voleva rendere visibile il volto del Padre.


Il vuoto di paternità e maternità si colma solamente con persone mature che, più che accontentarsi di ruoli o posizioni nella Chiesa, vivano una paternità e maternità vera che promuove, responsabilizza e rende le persone libere nel loro rapporto con il Padre di tutti.


Don Calabria chiedeva l’atteggiamento della «patri-maternità» anche ai laici, perché, al di sopra di ogni professione, il cristiano è chiamato ad esercitare la paternità affinché attraverso le opere buone che si compiono si glorifichi e si renda visibile quel volto di Dio come Padre.


Vive tale dimensione chi ha fatto esperienza dell’amore di Dio come amore di Padre, amore che libera e non costringe, accoglie e non imprigiona, dà respiro e non soffoca, dà la vita e non la  chiede. Esperienza dell’amore di Dio che è amore di Madre.


Come la madre attrae il figlio al proprio ventre per sentirlo frutto delle proprie viscere e dunque sempre suo, così


Dio, che ci ha donato la vita, ci attrae continuamente a sé per rinnovarci con il suo amore e la sua misericordia.


Giovanni Calabria concepisce la vita cristiana in una duplice direzione: dal Padre tutto prende origine e a Lui tutto ritorna attraverso Gesù Cristo e nella forza dello Spirito Santo. Sicché il lavoro silenzioso e nascosto del Padre protende ogni persona alla ricerca delle cose che non passano, a desiderare ardentemente di vivere nella Casa del Padre, dove Lui ci aspetta per coronarci di gloria e immergerci nel suo gaudio.


Auguriamoci di saper scoprire, sull’esempio di Don Calabria, il volto di Dio come Padre provvidente poiché proprio in questo modo ognuno di noi potrà sin d’ora vivere e gustare frammenti di quella beatitudine eterna che Egli ha preparato per noi.


 


L’«Opera Don Calabria» ai nostri giorni


GIUSEPPE PASINI


Vicario Generale della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza


 


Con il termine «Opera Don Calabria» s’intende un insieme di istituzioni, gruppi e iniziative che s’ispirano al carisma del Beato Giovanni Calabria. In particolare: la Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza; la Congregazione delle Povere Serve della Divina Provvidenza; la Congregazione delle Sorelle Missionarie dei Poveri; la Famiglia Calabriana, che riunisce Fratelli e Sorelle Esterni, Associazione ex allievi, Associazione e Gruppi di volontariato, Gruppi giovanili, Fondazione Exodus, Ummi (Unione medico missionaria italiana), cooperative, società, enti che s’ispirano all’Opera, e in generale tutti i laici che collaborano con l’Istituto sotto diverse forme: responsabili, insegnanti, istruttori, impiegati, catechisti, medici, operatori sanitari, operatori pastorali, amici dell’Opera.


Lo stile operativo


Non è semplice interpretare il carisma di Don Calabria sul piano operativo. Il Fondatore diceva che «lo spirito puro e genuino dell’Opera» è come l’onda radio, basta un piccolo spostamento della sintonia e si perde il contatto. 


Per questo le tre Congregazioni sono particolarmente attente che nessun aspetto del carisma vada perduto.


Il punto fondamentale è l’abbandono alla Provvidenza. Don Calabria lo intendeva in modo originale: non chiedere denaro, non fare pubblicità, non cercare protezioni umane, non avere rendite fisse, non fare ringraziamenti pubblici, cercare i luoghi e le persone meno rimunerativi. Si tratta certamente di una provocazione per la mentalità contemporanea. Ma Don Calabria desiderava che l’intervento di Dio fosse ben visibile, allo scopo di suscitare la fede in una società ormai incapace di guardare oltre gli orizzonti della materia. Con il suo sguardo profetico egli intuiva che quando Dio scompare dalla vita di un popolo, tutti i valori umani si corrompono. In tal caso è insufficiente intervenire sugli effetti periferici: ingiustizie, povertà, violenza. Occorre contemporaneamente cercare di sanare il cuore stesso della società, suscitando la fede. La fiducia nella Provvidenza si traduce concretamente anche in un atteggiamento di flessibilità, che permette all’Opera di attuare i suoi interventi a partire dalle situazioni reali, più che da teorizzazioni sistematiche. Si è creata così, nel corso degli anni, una rete di interazioni sul territorio tra pubblico e privato, religiosi e laici, prestazioni professionali e volontariato, ambito civile ed ambito ecclesiale, che rende più completo e pertinente l’intervento dell’Opera.


Infine, per ottenere nelle comunità un clima più squisitamente evangelico, Don Calabria indicava ai suoi religiosi, e ai collaboratori e collaboratrici, uno stile di vita sul modello delle prime comunità cristiane: assiduità nella preghiera, profondo senso di fraternità e comunione, spirito di famiglia, parità tra sacerdoti e fratelli, valorizzazione dei laici, attenzione agli ultimi, disponibilità all’accoglienza. In una parola: «essere vangeli viventi».


Nei Continenti


Attualmente l’Opera Don Calabria è presente nei seguenti Continenti: Europa (Italia, Romania, Russia); America


Latina (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Paraguay, Uruguay); Africa (Angola); Asia (Filippine, India).


Senza dimenticare che l’obiettivo principale dell’evangelizzazione è suscitare la fede, l’Opera Don Calabria ha anche il carisma di intervenire sulle situazioni d’emergenza, nelle quali la fiducia in Dio rischia di essere offuscata.


Elenchiamo qui una breve tipologia dei nostri interventi nei vari paesi.


 


Accoglienza di minori. È l’attività primigenia. Don Calabria iniziò raccogliendo ragazzi poveri nelle «Case Buoni Fanciulli». Oggi nei Paesi più sviluppati questo tipo di attività è ridimensionato e si orienta verso situazioni più gravi, come i figli di famiglie disgregate, la delinquenza minorile ed altre. In molti Paesi invece i ragazzi di strada sono ancora un fenomeno accentuato. C’è da osservare infine che oggi è molto cambiata la metodologia. L’accoglienza si esprime in forme più flessibili, che vanno dal convitto, all’ospitalità diurna o notturna, alla casa famiglia, all’affido e all’adozione.


 


Scuola e formazione professionale. È l’attività che impegna maggiormente nei vari Paesi. L’istruzione e la preparazione al lavoro non è una questione meramente tecnica, ma comprende aspetti culturali, critici, di scelta di valori e di fede, che coinvolgono la persona del giovane nella sua globalità. La convinzione è che promuovere la persona in senso culturale, professionale e cristiano, sia il migliore aiuto che si può dare ai Paesi in via di sviluppo. In Italia, in seguito alla riforma della Scuola media superiore e all’innalzamento dell’obbligo, la formazione professionale nei centri dell’Opera si sta ridimensionando a favore di altri servizi, in risposta alla domanda del mondo giovanile.


 


Attività con i disabili. Questo tipo di attività si sviluppò soprattutto in relazione alla formazione professionale. Alla base vi è il concetto di «integrazione». L’attività di stimolo e recupero si svolge all’interno di una struttura normale, favorendo il più possibile il contatto tra i disabili e i ragazzi che non presentano particolari problemi. A seconda della gravità dell’handicap, l’intervento può essere finalizzato ad un inserimento lavorativo o alla crescita individuale per una migliore integrazione sociale.


 


Attività con i nuovi poveri. Accanto all’emarginazione di tipo tradizionale, oggi sono sorte nuove forme di povertà, come la presenza di extracomunitari, la tossicodipendenza e varie forme di disadattamento sociale. L’Opera ha tentato qualche risposta anche a questi problemi. Sono sorte comunità per l’assistenza in carcere, l’accoglienza post-carceraria o alternativa alla detenzione, per i malati di Aids, le ragazze madri, il recupero di tossicodipendenti, di ex terroristi, e qualche iniziativa di prevenzione.


 


Attività sanitaria. Questa attività è presente nei vari Paesi, a volte con strutture ospedaliere vere e proprie, a volte con piccoli centri medici. Ci sono anche strutture più specializzate, come i centri di riabilitazione neuromotoria e i centri per traumatizzati cranici. Oltre ad un servizio efficiente e di qualità, il settore sanitario offre spazi per alcune forme di malattia e disagio oggi particolarmente trascurate, come le persone anziane, non autosufficienti, i malati terminali. Inoltre le strutture dell’Opera si propongono di offrire un servizio con spirito cristiano: amore per il malato, illuminazione sul senso della sofferenza, rispetto dell’etica cristiana.


 


Attività parrocchiale. La prassi in questo settore è quella di assumere la cura pastorale di parrocchie in situazione di particolare difficoltà. Una volta superata l’emergenza, la Congregazione normalmente lascia il posto al clero diocesano. Il metodo pastorale si distingue per una sottolineatura delle tematiche calabriane, per uno spirito di gratuità e per una particolare attenzione ai poveri, ai lontani e ai giovani.


 


Attività vocazionale e formativa. Don Calabria non intendeva la promozione vocazionale come una forma di reclutamento di vocazioni per il proprio istituto. Egli si preoccupò sempre di formare «vocazioni per la Chiesa». I giovani anche oggi sono formati nelle case dell’Opera fino al conseguimento del diploma, poi possono scegliere: o la diocesi, o un altro istituto, o l’Opera stessa, potendo optare per essere fratelli o sacerdoti. Per questo spirito di apertura, in alcuni paesi di missione è stata affidata all’Opera la direzione di qualche seminario diocesano.


 


Attività ecumenica. Il Fondatore fu un anticipatore dell’ecumenismo spirituale, basato cioè sulla conoscenza reciproca e la preghiera in comune, più che sul confronto dottrinale. Ora l’Opera ha aperto un Centro Ecumenico in Italia, che sta muovendo i primi passi. La speranza è che anche questo settore possa avere un adeguato sviluppo in un prossimo futuro.


 


«Don Calabria è uno dei preti più singolari del nostro secolo. Veronese, dato alla carità in una maniera si direbbe paradossale, cioè audace, meravigliosa, fidata nella Provvidenza e vissuta nella povertà assoluta. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, Don Calabria, quindi potete pensare come lo porto nel cuore e come sono sicuro, sicuro di speranza, che un giorno lo venereremo tra i Santi del Cielo»


(Paolo VI a un gruppo di pellegrini di Verona all’udienza generale del 21 dicembre 1972)


 


«L’amore alla Chiesa suscitò in Don Calabria anche l’impegno per l’unità dei Cristiani. Egli pregò per questo scopo, ebbe contatti di amicizia con membri di altre Chiese e Comunità Ecclesiali, offerse l’abbazia di Maguzzano come sede della Sezione Italiana della Catholica Unio. Dalle sue lettere risulta chiaramente la sua intuizione che la piena comunione dei cristiani passa per una via importante, quella che cerca di coinvolgere l’intero popolo di Dio nel desiderio e nella ricerca dell’unità desiderata da Cristo» (Giovanni Paolo II all’omelia durante la Santa Messa di Beatificazione di Don Calabria, celebrata nello stadio di Verona il 17 aprile 1988)


 


L’attualità di un messaggio e il fascino di un carisma


LUIGI PIOVAN


Postulatore


 


Giovanni Calabria nacque a Verona l’8 ottobre 1873, settimo e ultimo figlio di Luigi e Angela Foschio. La povertà gli fu maestra di vita fin dalla nascita. Alla morte del babbo, dovette abbandonare la scuola elementare e cercarsi un lavoro per aiutare la famiglia. Aveva già 19 anni, quando, preparato privatamente, scavalcando le cinque classi ginnasiali, si presentò agli esami per l’ammissione al liceo nel Seminario. Superò la prova e vi fu ammesso. L’ultimo anno dovette però sospenderlo per il servizio di leva che durò due anni. «Furono – diceva più tardi con una certa ilarità – gli anni più belli della mia vita». Con la sua carità riuscì a portare alla fede tanti suoi commilitoni e anche qualche suo superiore. Ripresi gli studi, in una fredda notte di novembre del 1897 – frequentava il primo anno di teologia – tornando da una visita agli infermi dell’ospedale, trovò accovacciato sull’uscio di casa un bambino fuggito dagli zingari. Se lo portò dentro, condividendo la mensa e dandogli il suo letto. Fu questo il primo seme della sua futura opera a favore dei ragazzi orfani e abbandonati. L’anno seguente fondò la «Pia Unione per l’assistenza agli ammalati poveri».


Ordinato sacerdote l’11 agosto 1901, fu nominato Vicario Cooperatore nella parrocchia di s. Stefano e confessore nel Seminario.


Nel 1907 il Vescovo gli affidò la Rettoria di San Benedetto al Monte. Il 26 novembre di quell’anno diede inizio alla «Casa Buoni Fanciulli», che trovò la sistemazione definitiva in Via san Zeno in Monte, attuale Casa Madre dell’Istituto. Con i ragazzi il Signore gli mandò anche dei laici desiderosi di condividere con lui la donazione al Signore.


Sorse così il primo nucleo di quella Congregazione che l’11 febbraio 1932 verrà approvata dal Vescovo di Verona col nome di «Poveri Servi della Divina Provvidenza». Nel 1910 nacque anche il ramo femminile, le «Sorelle», che nel 1952 diventeranno Congregazione col nome di «Povere Serve della Divina Provvidenza».


Non pensò solo ai poveri, agli abbandonati e agli emarginati, ma allargò la sua azione anche agli anziani e agli ammalati fondando per questi «la Cittadella della Carità». Pensò anche ai paria dell’India, mandandovi quattro Fratelli. Dal 1939-’40 fino alla morte, superando l’ambito delle proprie istituzioni, in contrasto col suo innato desiderio di nascondimento, allargò i suoi orizzonti fino a raggiungere le frontiere della Chiesa, divenendo una delle persone più consultate di quell’epoca, un «punto di riferimento», «una stella», che indicava la via da seguire in un momento di generale sbandamento.


Intuì fin da allora che per rinnovare il mondo, accanto ai sacerdoti e ai religiosi, dovevano esserci anche i laici. «Questa è l’ora dei laici!» scriveva. Perciò, nel 1944, fondò la «Famiglia dei Fratelli Esterni»: laici che, nell’ambito della famiglia e della propria professione, si impegnavano a vivere integralmente il Vangelo secondo lo spirito della Congregazione.


Questo fu anche il periodo più misteriosamente doloroso della sua vita. Sembrava portasse su di sé il peso del male di tutto il genere umano e che il Cristo l’avesse associato all’agonia del Getsemani e del Calvario, accettando quell’offerta di «vittima» che più volte aveva fatto per la santificazione della Chiesa e per la salvezza del mondo. Il Beato Card. Schuster lo paragonò al Servo di Jahvé.


Il 3 dicembre 1954, gravissimo, sentendo che il Pio XII stava molto male, si offrì vittima per lui. Morì il giorno seguente mentre in Vaticano – dove non si conosceva quel gesto -, si gridava al «miracolo» per l’improvviso e misterioso ricupero della salute del Papa che riprese subito la sua intensa attività apostolica vivendo altri quattro anni.


 


Campione di carità

Pio XII, informato della morte di Don Calabria, mandò un telegramma di condoglianze alla Congregazione definendolo «campione di evangelica carità».

Ha una qualifica, dunque, la carità di Don Calabria. È «carità evangelica». Paolo VI, nell’udienza generale del 20-12-1972, la definirà anche «paradossale, audace, meravigliosa e fidata nella Provvidenza».

Il compianto Mons. Salvatore Garofalo, nell‘Osservatore Romano del 29 aprile 1988, pochi giorni dopo la sua beatificazione, commentò: «La carità di Don Calabria era universale, riflesso di quella del Padre celeste di tutti. Non era specializzata, abbracciando ogni bisogno spirituale e materiale del prossimo, in ossequio alle parole di Cristo».

Il primo scritto di Don Calabria che possediamo in Archivio è proprio un cantico sulla carità! È inserito nel tema d’italiano degli esami di ammissione al liceo. Il Calabria aveva allora diciannove anni e pur non venendo dalle aule della teologia, ma dall’ambiente del lavoro, ebbe l’intuizione di identificare la Carità col Verbo che incarna l’affetto del Padre: «Oh Carità, purissimo e nobilissimo degli affetti discesi dal cielo… Salve o Carità!…».

«Don Calabria aveva – disse il Card. Martini nell’omelia della Santa Messa di ringraziamento per la sua Beatificazione – una chiarezza profonda sul mistero dell’amore di Dio, sulla Provvidenza, sul primato dei poveri, sull’attenzione ai più poveri, che quasi lo portava ad uscire fuori di sé, a dimenticarsi totalmente quando si trattava di qualche povero, di qualche necessità… Un testimone oculare mi raccontava – continua il Cardinale – che un giorno si trovava a pranzo con lui e si sentì passare un aereo un po’ basso, poi si sentì un gran tonfo un po’ lontano e lui, subito… alzarsi da tavola, piantare lì tutto, correre fuori dicendo: «Ci sarà qualcosa, una disgrazia, forse degli orfani da sollevare…là». Quando, nell’ultima grande guerra, gli alleati bombardarono Verona e qualche Istituto religioso e parecchie famiglie rimasero senza casa, Don Calabria riempì ogni angolo del suo Istituto di questi poveri senza tetto.

In quel periodo accolse anche una quindicina di ragazzi ucraini, quasi tutti di religione ortodossa, venuti in Italia al seguito delle truppe, dopo l’insuccesso della campagna di Russia. Il 4 maggio 1949, sentendo per radio che l’aereo che dal Portogallo riportava in Italia la squadra di calcio del Torino si era schiantato contro Superga, non si diede pace. Volle subito il nome e l’indirizzo delle famiglie di tutte quelle persone per assicurarle della sua partecipazione al loro dolore e per confortarle come solo  i santi possono e sanno fare.

Quando, nel 1951, le acque del Po ruppero gli argini e inondarono il Polesine, Don Calabria mobilitò subito tutta la Congregazione: «Una gravissima sciagura ha colpito la nostra cara Patria: tanti nostri fratelli sono rimasti senza tetto, si son visti portar via dalla furia delle acque i loro averi, le loro case, persino i loro cari congiunti! Chi può misurare il cumulo di dolori e di privazioni che in così pochi giorni si sono abbattuti su tante famiglie d’Italia?

«Miei cari fratelli e figlioli, come mi sanguina il cuore al pensiero di tante sventure! Come vorrei poter sollevare


tante sofferenze, andare incontro a tanti bisogni! Solo il Signore lo sa, Lui che istantemente prego perché dia sollievo e consolazione agli afflitti e dia a coloro che possono la grazia grande di comprendere l’occasione provvidenziale che loro si offre di aiutare con ogni mezzo i fratelli sofferenti.


«Pregate anche voi, cari fratelli, preghiamo tutti insieme e facciamo pregare: per i vivi che sono nel bisogno e per coloro che la furia degli elementi ha strappato da questa terra per condurli al giudizio di Dio. E poi facciamo tutti quanto sta in noi, per lenire tante sofferenze, ricordando che sono nostri fratelli coloro che soffrono. Siamo poveri, ma nelle nostre Case non rimangano in questi giorni posti vuoti; vuoto soprattutto non rimanga il nostro cuore, chiudendosi all’altrui dolore».


Non si accontentò, ma aprì a Ferrara «La Città del ragazzo» per i figli delle famiglie colpite dall’alluvione. Nel novembre del 1953 un’altra calamità colpì l’Europa: l’inondazione dei Paesi Bassi. E ancora una volta Don Calabria fece sue le sofferenze e i disagi di tutta quella povera gente ed ecco cosa scrisse ai suoi religiosi: «Sono qui ai piedi del mio Crocefisso e ho davanti agli occhi più che mai viva la visione dell’immenso cataclisma abbattutosi sui vasti territori dell’Europa settentrionale.


«Come il cuore mi si stringe, come sanguina al pensiero che decine e decine di migliaia di nostri fratelli sono rimasti da un momento all’altro privi di tutto, perché tutto fu travolto dalla furia delle acque! E penso in modo particolarissimo a tanti ammalati, ai vecchi, alle donne, ai bambini piangenti, smarriti, dispersi, nell’ansiosa ricerca dei propri cari, che forse non ritroveranno più. Penso a tanti poveretti rimasti vittime sotto il crollo delle case o spazzati via e ingoiati dalle onde paurose del mare; ai moltissimi altri in preda al terrore nell’imminente pericolo di essere essi pure travolti, che da ore e ore lanciano il loro disperato S.O.S. e dal cuore affranto sale supplichevole l’umile preghiera: Signore salvali!…


«Cari ed amati fratelli, unitevi tutti con me nella medesima preghiera. In ognuna delle nostre Case si celebri una Santa Messa e si faccia una intera giornata di preghiere per i nostri fratelli, così duramente colpiti. Poi guardate se nelle vostre case potete mettere a disposizione dei posti, anche a costo di sacrificio, per accogliere dei giovanetti particolarmente bisognosi di quelle regioni.


E, se il Signore vi ispira di fare qualche altra cosa, ditemi subito il vostro pensiero, e io sarò ben lieto di benedire ogni provvida iniziativa che sia conforme al nostro spirito».


Tra il primo scritto di Don Calabria sulla carità e l’ultimo atto della sua vita, che è un gesto meraviglioso di carità, ci sta… tutta la sua vita. E «la sua vita di ogni istante era la personificazione del meraviglioso cantico di San Paolo sulla carità». Così scrisse il 13 marzo 1964 a Paolo VI la dottoressa ebrea Mafalda Pavia per domandare la Canonizzazione del suo salvatore. Don Calabria l’aveva infatti sottratta dalla persecuzione nazi-fascista nascondendola, vestita da religiosa, col nome di Suor Beatrice, in un suo istituto.


E il Pastore luterano svedese Sune Wiman, nel domandare – anche lui – a Paolo VI la canonizzazione del suo grande amico Don Calabria, testimoniava nella sua lettera postulatoria il 26 marzo 1964: «Aveva in sé un ardente spirito di carità… Era tutto a tutti, nella carità di Cristo, per tutti unire a Cristo».


Il parroco-Cardinale Giulio Bevilacqua, amico intimo di Don Calabria, nella Prefazione al libro Instaurare omnia in Christo «sgorgato – a detta di Don Calabria – dal cuore dell’Opera», scriveva: «Il messaggio di questo libro non parte dalla scuola, ma da un focolare vivo che avvicina ogni miseria e disfatta umana, da un focolare sul quale la carità, prima di essere legge, è stata vissuta esperienza di ogni ora. Si tratta quindi di verità pura, che non nasce dalla speculazione, ma dall’esperienza e dall’amore. Verità soprattutto incarnata nella vita di Don Giovanni Calabria, costantemente ed eroicamente piegata su ogni canna fessa e accanto ad ogni lucignolo morente».


«È quasi incredibile – scrisse Mondrone nel primo numero de La Civiltà Cattolica apparso subito dopo la morte di Don Calabria – come un uomo così rintanato nel silenzio e nell’umiltà fosse presente a tutti i problemi che travagliano la società e in modo particolare la Chiesa. È vero che don Calabria leggeva molto, ma ci è più facile immaginare la sua anima come un’antenna altissima, una specie di ricevente capace di captare tutte le onde cariche degli echi più svariati delle umane miserie. Ed allora, divorato com’era dallo zelo per la gloria di Dio e per le anime, quel povero prete non poteva rimanere inerte e barricato sempre nel suo silenzio. Da ricevente la sua anima si faceva anche trasmittente, e quanti erano in ascolto si accorgevano bene da quali altezze scendesse la sua parola» (Una gemma del clero italiano, Don Giovanni Calabria, in La Civiltà Cattolica, Quaderno 2509, pp. 12-13). Da quali altezze scendeva la parola di Don Calabria? Senza volerlo ce lo rivela lui stesso.


Scrive al Card. Schuster nel 1948: «Poiché le parlo con tutta confidenza, le voglio dire, Eminenza, come da anni con crescente insistenza sento ripercuotersi in fondo al mio cuore il lamento di Gesù: «la mia Chiesa!». Qualche volta mi pare che non ci sia fede, certo vi è tanto guasto, siamo così lontani dalla santità a cui dobbiamo tendere, per cui il Cuore di Gesù mi sembra tanto addolorato. E mi domando: si può sempre tacere, lasciar correre, e non si dovrebbe piuttosto parlare, gridare, affinché anche i più riottosi e distratti sentano, si scuotano e si ravvedano? Evidentemente non è possibile un ravvedimento del popolo se non vi è prima un ravvedimento nostro sincero, leale, costante. I tempi, l’ora attuale, gli sconvolgimenti avvenuti lo richiedono, e guai se non viene da noi, e presto!».


«Em.za Rev.ma – insiste il 20-8-1949 -, le confido che, specie nella Santa Messa, sento il lamento di Gesù: «la mia Chiesa! La mia Chiesa!l» e mi par di vedere Gesù ricaduto sotto la pesante croce dalla quale sta a noi risollevarlo». Don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate Christiana in una lettera del 24 luglio 1945 gli diceva: «Quel suo Crocifisso vicino al quale scrive (Don Calabria iniziava ogni sua lettera con le parole: «Ai piedi del mio Crocifisso… » – n.d.r.) è davvero un Crocifisso che le parla e l’ispira. Sono deliziosamente belle le sue lettere; m’auguro che tutti i sacerdoti d’Italia le possano leggere». Ecco da quali altezze scendevano le parole di don Calabria! «Va’ a casa e di’ alla mamma che stia tranquilla. I tuoi due fratelli fatti prigionieri in Jugoslavia e dei quali non avete notizie si trovano ora in Germania. Stanno bene. Avranno da soffrire, ma torneranno sani e salvi tutti e due. Dillo alla mamma!». Così, dopo l’8 settembre 1943, aveva detto a bruciapelo Don Calabria a un giovane medico che gli aveva manifestato la preoccupazione dei suoi genitori per la sorte dei suoi fratelli, dei quali non avevano più alcuna notizia. Finisce la guerra e… i due fratelli ritornano, sani e salvi, come aveva detto Don Calabria. «Dopo un po’ di tempo – testimonia il medico -, in una visita a Don Giovanni, mi azzardai a domandargli: «Scusi, Padre, ma… come aveva fatto lei a sapere quelle cose, circa i miei fratelli?». Don Calabria, a quella domanda, rimase un po’ turbato, ma poi, con uno sguardo di benevolenza e come stesse per farmi una confidenza, mi sussurrò: «Hai notato che quando vai in montagna, man mano che sali ti si allarga l’orizzonte?». «Sì, padre». «Se poi riesci ad arrivare sulla cima… beh! allora vedi anche dall’altra parte!». «Grazie, padre. Ho capito tutto!».


 


«Ecclesiae lumen»


Che Don Calabria fosse arrivato sulla cima l’aveva sperimentato anche il Beato Card. Schuster, suo grande confidente. Morì quattro mesi prima, ma ne aveva già preparato l’epigrafe con queste parole: «Johannes Calabria presbyter… vita, scriptis et providis institutis, pauperibus consulens, Dei Ecclesiae lumen effulsit».


«Ci si può domandare quale sia stato il movente essenziale che abbia fatto di un uomo, che sembrava votato all’anonimato, un Ecclesiae lumen» si chiedeva il Card. Pietro Palazzini – allora Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi -, nell’omelia della Santa Messa di ringraziamento per la sua Beatificazione, il 25 aprile 1988. Alla sua domanda aveva già risposto Mons. Salvatore Garofalo nel suo «Voto» per le virtù eroiche: «Don Giovanni Calabria è indubbiamente una figura emergente nella Chiesa e nella società della prima metà del nostro secolo, non solo con la testimonianza delle sue virtù ma per la sua illuminata sensibilità per i mali e le esigenze del nostro tempo. È la voce più alta in un coro di nobili spiriti che ne subirono il fascino e l’influsso. Vede giusto il primo Censore dei suoi scritti – continua il celebre biblista -, il quale afferma che «Don Calabria ha sentito la vocazione del Precursore, che vuol preparare la via al ritorno di Cristo nella società. La sua attività di sacerdote e di Fondatore è ordinata tutta quanta a tale scopo, né è rimasta allo stato di puro desiderio perché effettivamente ha aperto un solco nella Chiesa che non rimarrà senza fruttole».


Ecco perché i Vescovi del Triveneto, domandando a Giovanni Paolo II la Canonizzazione di Don Calabria, il 23 febbraio 1983 scrissero: «Ci pare, Santità, che non solo la sua vita, ma la sua stessa persona costituisca una «profezia» del Vostro appassionato grido a tutto il mondo «aperite portas Christo Redemptor!».


Don Calabria, «la sua vita e la sua stessa persona… una profezia» del Signore Gesù! Questo aspetto di Don Calabria, l’aveva già messo in risalto un anno prima, il 13-14 aprile 1982, Silvio Riva in un articolo su L’Osservatore Romano.


«Nell’immediato dopoguerra – scriveva – in cui gli uomini smarriti e disfatti, delusi e irrequieti, cercavano un punto di riferimento per ricostruire sé stessi, la società, il mondo, riprendere fiducia nella vita, riconciliarsi con l’uomo, era impresa da far rabbrividire. Sacerdoti e religiosi stessi cercavano una «stella» da seguire. Sulle macerie di un mondo distrutto, anche l’idea di Dio aveva perso il suo mordente, e gli uomini non sentivano più la sua presenza in mezzo a loro. Don Calabria, uomo massiccio e d’intatta fede, niente affatto letterato, prese il coraggio a due mani e diede alle stampe, con l’anonimato, quattro pubblicazioni, uscite senza il nome dell’autore (Don Calabria diceva che quei libri erano «sgorgati dal cuore dell’Opera» – cfr. Lettera al Card. Schuster del 29-8-1953 – n.d.r). Il messaggio di Don Calabria, in apparenza duro, era invece una voce di consolazione e d’incoraggiamento. Il mondo ne aveva veramente bisogno. [… ] Quei suoi libri che richiamavano il progetto e le fondamenta evangeliche del servizio pastorale, furono una ventata pentecostale che rinverdì nei giovani sacerdoti l’autenticità della loro missione di carità» (Don Giovanni Calabria, maestro di spiritualità – Un apostolo dei nostri tempi).


 


L’idea di un Concilio


Don Calabria fu veramente un coraggioso profeta del Signore! «Occorrerebbe un Concilio!» scriveva al Card. Schuster. E l’Arcivescovo, terrorizzato solo al pensarci, gli rispondeva il 17 gennaio ’48: «L’idea di un Concilio sembra buona. Ma è impresa lunga, delicata, e che solo Roma può eseguire…


«opus terribilis».


Don Calabria non si scoraggiò e, cinque giorni dopo, mandò a Mons. Olgiati, Direttore della «Rivista del Clero Italiano» un brano da aggiungere ad un articolo da lui stesso precedentemente inviato. Non possiamo ignorare questo audace testo di letteratura cristiana, questo grido profetico, che condiziona la nuova evangelizzazione e la ripresa dello spirito della povera umanità al verificarsi di quattro «se». Porta la data del 22 gennaio ’48. Eccolo: «Se per ipotesi i duemilacinquecento Vescovi cattolici disseminati sulla faccia della terra potessero trovarsi raccolti attorno al Papa in qualche straordinaria assise, come un Concilio o quasi, per ripetere solennemente con Lui il grido suo «guerra alla guerra»; «se così insieme riuniti richiamassero al mondo intero la grande verità che Dio è l’unico Padre di tutti, e che di conseguenza siamo tutti fratelli»; se ispirandosi alla sola politica del Vangelo, al di sopra delle contese, degli interessi e dei contrasti, rivendicassero agli uomini il diritto di amarsi e non di uccidersi; se in nome di Dio Padre impegnassero i cattolici di tutto il mondo e tutti gli uomini onesti e ben pensanti a creare un’atmosfera di pace che, secondo le esigenze dell’amore fraterno, consentisse di comporre i dissidi secondo giustizia e carità, i popoli sentirebbero come il sollievo di aver conquistata la luce dopo le tenebre, il Vangelo apparirebbe davanti  a  tutti  nel  suo  fascino di divina paternità, il mondo acquisterebbe conoscenza di una Chiesa che per divina istituzione funziona da società delle genti; la ripresa dello spirito sarebbe assicurata».


Ringraziamo il Signore che, per la fede coraggiosa di Giovanni Paolo II, la Chiesa oggi sta camminando per questa strada!


Ma cosa ha fatto Don Calabria per essere «lumen Ecclesiae», «profeta del Signore»?


Ha sentito impellente la chiamata del Signore alla santità. L’ha desiderata tanto. L’ha chiesta con continue suppliche. E, contemporaneamente, ha collaborato con la grazia del Signore con tutte le sue forze, per ottenerla. Si è fatto anche «mendicante» di preghiere presso tutti coloro con i quali aveva una qualche relazione perché domandassero al Signore per lui il dono della santità e si dimostrava addolorato quando aveva l’impressione che il suo interlocutore non desse importanza a questa sua richiesta. «Lo confesso: la bontà, la misericordia del Signore non mi abbandona – scriveva nel suo diario l’8 gennaio 1913 -. Gesù mi è sempre vicino, mi chiama, mi ama e vuole che mi faccia santo. Guai a me se non mi metto proprio sul serio». E lo ripeterà per altre 170 volte. E per ben 210 volte vergherà con quella sua scrittura nervosa le parole: «O santo o morto!… O s. o m.!».


E ai suoi religiosi scriveva: «Pregate per me, per il vostro padre che vi porta nel cuore, … che non sia come le insegne stradali che indicano la direzione per i viandanti e restano sempre ferme e si consumano e sono rose dalla ruggine e dalle intemperie, ma sia un‘insegna invitante e semovente per arrivare insieme» (23-6-49). «Aiutami – scriveva a un altro – a compiere sino alla fine la divina volontà; a capire il dono della sofferenza; a non essere come una semplice indicazione stradale: «per il Cielo», ma sia come la stella che ha condotto i Magi ai piedi di Gesù» (16-7-53).


Ma la santità gli costò sofferenze inaudite. Se, come Gesù, aveva pronunciato il suo «pro eis sanctifico meipsum» (cfr Gv 17, 19), come Gesù, anche lui, doveva pagarne il prezzo. «Sì, ma il Signore manda il conto!» aveva detto un giorno, con un fil di voce, accasciato sulla sua poltrona, al fratello portinaio che era ritornato da lui a dirgli che la persona entrata da lui affranta dal dolore, ne era uscita raggiante. Riceveva tutti i giorni lettere di persone o le persone stesse, sofferenti e affrante da dolori fisici o morali. E lui che aveva detto di essere una «pianta sensitiva», come Gesù, «sentiva compassione» (cfr Mt 15, 32) e intercedeva presso il Signore per tutte loro, che uscivano dal suo studio rinnovate, forti dell’amore del Signore che Don Calabria aveva fatto loro sperimentare, e sicure e gioiose del progetto di Dio su di loro. Ma lui rimaneva come schiacciato dal carico delle sofferenze, delle angosce e dei dubbi di tutta quella gente. È stato la personificazione vivente della Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (n. 1).


Non per niente il Beato Card. Schuster, che l’aveva definito lumen Ecclesiae, l’aveva anche accostato al Servo di Jahvé.


«Mi pare che in queste sofferenze ci sia la mano di Dio – aveva detto il Cardinale dopo una visita al suo amico Don Calabria immerso in dolori misteriosi d’ogni genere -. Il Signore, quando vuole adoperare un’anima, la stritola… Mi pare di poter applicare il passo di Isaia (53, 10)… La nuda croce. Quando la tribolazione viene da Dio, quando Dio vuole provare sul serio un’anima, nessuna consolazione umana può giovare. Qui c’è la mano del Signore. È il Signore che vuole provare la sua anima. Mi dispiace dire queste cose a Don Calabria, ma è così. Come a Maria il santo vecchio Simeone… » (Positio super virtutibus S. D. Ioannis Calabria, Summ., Appendice estraprocessuale, p. 657).


Consapevole di questo, il Vescovo di Crema, Mons. Franco Costa, ora defunto, che da Don Calabria aveva ricevuto tanta luce per la sua vocazione, nel suo ultimo corso di Esercizi tenuti ai sacerdoti aveva definito don Calabria: «testimone della morte di Cristo». E aveva anche aggiunto: «Qualche volta alle anime che Dio ama di più, chiede la testimonianza della sua morte» (Franco Costa, Tu sei colui che ci ama, A.V.E., Roma 1978, p. 59).


 


Ritorno al Vangelo»


Come la carità, così anche la santità di Don Calabria ha una qualifica: «santità tutta Vangelo». Gliel’ha data un Consultore teologo nel Congresso celebratosi per definire l’eroicità delle sue virtù. Il Card. Pietro Palazzini, che ha accompagnato la Causa di Canonizzazione di Don Calabria dalla Dichiarazione delle virtù eroiche alla Beatificazione, nell’omelia della Santa Messa di ringraziamento per la sua Beatificazione, il 25 aprile 1988, affermava: «La caratteristica essenziale della santità di don Calabria fu il suo radicalismo evangelico…


In don Calabria si nota l‘equivalenza tra santità e spirito puro del Vangelo, una equivalenza tale che trova riscontro soltanto nella vita di San Francesco di Assisi. Con una drastica formula, spesso ripetuta, egli afferma che noi cristiani dobbiamo essere «Vangeli viventi».


«Don Calabria – disse il Card. Martini nell’omelia della Santa Messa di ringraziamento per la sua beatificazione nella Parrocchia di s. Girolamo Emiliani a Milano – ebbe una chiarezza profonda su un problema che nella coscienza cristiana dei nostri tempi è emerso solo più tardi con il Concilio e poi con il post Concilio e con le insistenze del Santo Padre, oggi, cioè la distanza tra Vangelo e vita. Oggi si parla molto di questo, ne ha parlato il Concilio, ce lo ha ripetuto più volte Giovanni Paolo II, ne ha parlato la Chiesa italiana a Loreto, se ne parla nei nostri documenti, ma per lui, per Don Calabria, era già un problema dolorosissimo, cioè, egli lo intuiva quando molti non se ne accorgevano. «C’è troppa dissonanza – scriveva e diceva -, tra ciò che il Vangelo insegna e ciò che da noi si pratica. Dobbiamo togliere questo contrasto, allora non si potrà più dire che la Chiesa ha fatto il suo tempo, che non risponde alle esigenze odierne. Torniamo alle pure genuine fonti del santo Vangelo, senza egoismi e campanilismi considerando che tutto il mondo è di Dio. Siamo Vangeli viventi e prima di predicarlo, pratichiamo. Stiamo ben attenti, tutti, a non travisare il pensiero di Dio». Ecco, queste frasi che sembrano moderne, attuali: «siamo Vangeli viventi», l’unità tra Vangelo e vita, egli le sentiva prima ancora di ogni aggiornamento del Concilio, prima di ogni riflessione sulla natura della Chiesa per una sua istintiva connaturalità col santo Vangelo di Dio.


Sono noti – ne ha accennato anche il Papa nell’omelia della Beatificazione il 17 aprile 1988 – i suoi appassionati, sofferti e arditi appelli alle più alte autorità ecclesiastiche, ai sacerdoti, ai religiosi e ai laici impegnati, per un ritorno radicale al Vangelo, all‘apostolica vivendi forma.


Sentiamone uno, scritto il 12 settembre 1949, ai «piedi del suo crocifisso». È un grido di allarme di un’attualità impressionante: «Ai piedi del mio Crocifisso». «Finché l’Europa non torna ai principi cristiani, ossia al santo Vangelo pratico, nulla si potrà ottenere, e quello che si dice per l’Europa, si dica per il mondo intero. (…) «Quanto ma quanto si fa, si studia, si parla, per trovare la via e dare all’umanità  che  agonizza  la  vita,  la prosperità, la pace. Tutto è inutile, solo con Gesù Cristo e con la sua Chiesa, si può arrivare a questo, e questo il Signore lo vuole».


«Il Signore continuamente ci chiama, specie noi sacerdoti, religiosi e popolo cristiano, al ritorno pratico del santo Vangelo, che si è diffuso e stabilito con la vita pratica degli Apostoli.


«Tutto l’ordine esterno, tanto necessario, secondo i bisogni nuovi dell’ora attuale e che sono istituzioni, scuole, progresso, ecc. sono come cornice al quadro; sono un bel niente, se non si mette a posto il motore! «Purificarci tutti, santificarci con il ritorno pratico alla vita degli Apostoli e dei primi cristiani. Solamente così avremo la nuova Pentecoste, il rinnovamento dell’umanità in tutti i campi, e la vera pace, il vero benessere, come si può avere in terra d’esilio» (Scritti, n. 1966). A riguardo dei laici, aveva capito, anticipando anche in questo il Concilio, che, nel radicale e profondo rinnovamento spirituale del mondo, con i sacerdoti e i religiosi, si dovevano coinvolgere anche i laici. «Questa è l’ora dei laici!» scriveva.


L’ultimo appello della sua vita lo lanciò proprio a loro, affidandolo al quotidiano cattolico «Corriere del mattino» il 14 aprile 1954. Aveva già compiuto gli 80 anni e qualche mese dopo sarebbe morto. Eccone uno stralcio: «Formare uomini nuovi è urgente! Medici, maestri… dirigenti di