Filippo Neri, testimone della gioia e della santità cristiana.

Si ringrazia il sito: http://sanfilipponeri.freeweb.supereva.it/ dal quale la biografia seguente è tratta con la seguente avvertenza:


Tratto da: G.P. PACINI, Filippo Neri: Testimone della Gioia e della Santità Cristiana, in Attualità del messaggio di Filippo Neri, Éditions du Signe, Strasbourg 1995, 6-17. Le finalità di questa pubblicazione sono esclusivamente quelle dell’insegnamento e della discussione: ogni proprietà circa gli scritti appartiene alla Casa editrice Èditions du Signe (Strasbourg). Cfr. Legge 22/04/1941, n. 663, art. 70 (Gazz. Uff. 16/07/1941, n. 166).

Trascorsi ormai quattrocento anni dalla sua morte, Filippo rimane di straordinaria attualità con il suo invito, ch’egli amava ripetere a tutti, ma in particolare ai giovani: “State buoni!”. E’ un uomo di grande e profonda interiorità: vive gran parte della sua vita, prima di farsi prete a 36 anni, in mezzo alla gente ma come fosse un eremita tanto è capace di difendere la sua intimità e trascorre il suo tempo nella frequenza alle funzioni religiose nelle varie chiese di Roma e, nella notte, passa lunghe ore in preghiera nelle catacombe di S. Sebastiano.


In quegli anni, infatti, si recava spesso in questo luogo per trascorrervi la notte in contemplazione, finché nella Pentecoste del 1544, mentre era in preghiera estatica, un globo di fuoco gli penetrò il petto spezzando le due costole vaghe dal lato del cuore, che s’ingrossò talmente da creare una protuberanza nel torace.


In realtà, qualcosa di straordinario constatarono i medici in quel cuore dopo la morte, scoprendo che era insolitamente grande e che, effettivamente, due costole si erano rotte per permetterne l’espansione.


Filippo nasce a Firenze il 21 luglio 1515. La madre, Lucrezia da Mosciano, era figlia di un semplice falegname, mentre il padre Francesco apparteneva a gente di modesta nobiltà provinciale. Entrambe le loro famiglie si erano trapiantate .a Firenze da un paio di generazioni, provenienti da Castelfranco di sopra nel Valdarno.


Per questo Filippo vede la luce nel rione di S. Pier Gattolino, in Oltrarno, dove la famiglia rimarrà pochi anni, trasferendosi in diverse abitazioni prima di sistemarsi sulla Costa di S. Giorgio.


Francesco Neri è notaio ma non ha molto lavoro anche se, con il suo mestiere, potrebbe mantenere con decoro la sua famiglia, preso com’è dal pallino per l’alchimia dietro la quale si perde quasi fosse la sua principale occupazione.


Lucrezia poteva contare su una piccola proprietà terriera a Montespertoli e su una dote di 50 fiorini d’oro ricevuta dalla madre Lena.


Oltre queste, si hanno poche notizie sulla infanzia e l’adolescenza di Filippo a Firenze. Si sa che conobbe appena la madre, morta probabilmente di parto del quarto figliolo, Antonio, 1’8 settembre del 1520, nemmeno lui sopravvissuto. Delle due sorelle, Caterina ha due anni più di Filippo (è nata il 25 gennaio del 1513), Lisabetta è più piccola di tre, essendo nata infatti il 7 febbraio del 1518, gli sopravviverà e deporrà al primo processo d’indagine sulla vita e le opere del fratello. Francesco Neri si risposa presto, forse proprio preoccupato di dover crescere i tre figli ancora piccoli e, fortuna volle, che la matrigna, stando alla scarna testimonianza di Lisabetta, fosse donna dal carattere gioviale e abbia saputo compensare, in qualche modo, quello berbero e originale del marito, nonché il vuoto lasciato dalla madre.


Anzi, quando a diciotto anni Filippo lascerà Firenze, sarà proprio lei a sentirne più forte il distacco e qualche anno più tardi, sul letto di morte, lo chiamerà più volte e spererà di vederlo arrivare per poterlo riabbracciare e salutare per l’ultima volta.


Filippo era ancora fanciullo quando cominciò a frequentare il convento fiorentino dei domenicani di S. Marco, dove era stata introdotta da tempo l’osservanza e gran parte della comunità viveva ancora nel culto del grande Savonarola.


Probabilmente proprio qui, nella confraternita della Purificazione o, meglio ancora, in quella schola cantorum composta da ragazzi che la Congregazione della Vergine educava e formava a sue spese per il canto della laude, il Neri ebbe la sua educazione non solo religiosa e la sua prima formazione.


Sta di fatto che la lauda sarà una delle caratteristiche dell’oratorio di Filippo ed egli, volendo esprimere la sua riconoscenza ai domenicani della Minerva (Roma), dirà : “Tutto quello che ho di buono, lo devo ai vostri padri di S. Marco”.


Intorno ai primi anni trenta del Cinquecento (certamente dopo l’assedio del 1529-30), Filippo lascia Firenze, e lo farà per sempre (solo ormai molto anziano la ricorderà con l’appellativo di patria), per recarsi a S. Germano (l’attuale Montecassino), presso uno zio che faceva il mercante.


La decisione doveva nascere non tanto per imparare un mestiere quanto perché in casa ci fosse una bocca in meno da sfamare.


Ma il suo soggiorno nella piccola cittadina vicino alla grande abbazia benedettina durò non più di due o tre anni; verso il 1535 si trasferisce a Roma dalla quale non si allontanerà più nemmeno per brevi periodi. Non si conoscono le ragioni di questa decisione: probabilmente fu lo spirito d’indipendenza del suo carattere a suggerirgli che, nella grande città, sarebbe riuscito a trovare di che vivere potendo tuttavia impostare la propria vita come meglio avrebbe voluto. Questo è almeno quanto si può logicamente dedurre dai fatti della vita di Filippo fino al tempo della sua decisione di farsi prete.


A Roma, egli riesce ad inserirsi presto nella numerosa “nazione” dei fiorentini, che occupa un posto notevole nella città per la presenza di numerosi prelati, di professionisti, di commercianti e banchieri. La sua indole aperta e gioviale, la sua onestà, gli permettono di attirarsi le simpatie di tutti.


Così le prime notizie sul Neri lo dicono ospite presso Galeotto Caccia, un fiorentino appunto, gestore della dogana pontificia, il quale, in compenso per l’educazione dei figli, dà al giovane compatriota vitto e alloggio. Filippo si accontentava di poco: una stanzetta sopra la dogana era tutta la sua abitazione, una corda tesa fra due pareti gli serviva come armadio e per stendere i suoi panni ad asciugare.


I suoi pasti si riducevano a “pane e olive, olive e pane”, come dirà la serva del Caccia, ch’egli consumava quasi sempre nel cortile vicino al pozzo. Ma era libero d’impostare, come voleva, la sua giornata senza orari né programmi stabiliti.


Dovette frequentare in questo periodo, come uditore, alcuni corsi di teologia e di filosofia alla Sapienza, ma forse, dopo un paio d’anni, abbandonò anche questi per darsi ad un apostolato di strada, accompagnando un gioviale saluto con una buona esortazione a chi gli capitava d’incontrare, specialmente coloro che lavoravano presso i “banchi”, andando ad assistere e servire gli ammalati negli ospedali, dedicando molto tempo alla preghiera.


A Filippo procurano gioia dello spirito le funzioni liturgiche, specialmente se si svolgono presso chiese di regolari, perché più curate e devote, e ne è assiduo frequentatore, spesso accompagnato da chi è riuscito a trascinarsi dietro.


Ma la frequenza ai sacramenti e la meditazione personale restano la fonte cui attinge forza e insegnamenti per il suo progredire nella vita spirituale.


Per una di quelle circostanze che nella vita di Filippo segnano non un episodio contingente, ma un mutamento, egli incontra, probabilmente proprio all’ospedale di S. Giacomo, uno zelante sacerdote, Persiano Rosa, che dimora presso l’ex convento dei minori osservanti di S. Girolamo della Carità.


Convento e chiesa erano stati assegnati alla confraternita della Carità (dopo la partenza dei frati), con l’impegno per il sodalizio di far continuare il servizio religioso: ma i sacerdoti non dovevano appartenere a ordini o congregazioni di regolari!


In breve, si era formato così un gruppo qualificato e scelto di preti, ma senza un superiore gerarchico: non dovevano recitare l’ufficio in comune, né consumare i pasti insieme. Ognuno di loro, in cambio del servizio religioso alla chiesa, riceveva dalla confraternita un modesto compenso mensile e due stanze come abitazione.


Era libero di organizzare il suo impegno d’apostolato come meglio riteneva.


Una esperienza questa da tenere presente e che, almeno in parte, spiega la diffidenza verso lo stato religioso dei primi preti filippini.


Filippo sceglie dunque Persiano Rosa come suo confessore ed entra nella cerchia dei dodici laici che danno vita con lo stesso Rosa (come prete questi è un po’ il leader del gruppo), alla confraternita della Trinità dei Pellegrini (16 agosto 1548).


Come le antiche compagnie medievali (ne ripete la forma anche nella scelta dei dodici soci – duodenario – in ricordo dei XII apostoli), il sodalizio si proponeva lo scopo di alloggiare e assistere coloro che venivano in pellegrinaggio a Roma ed erano di disagiate condizioni economiche.


Nello stesso tempo, Filippo continua a visitare ed assistere i malati a S. Giacomo affidato alle cure dei confratelli del Divino Amore. Era questo un gruppo formato da laici devoti e chierici ferventi che si proponeva, sulla scia di Ettore Vernazza e di Caterina Fieschi Adorno, di condurre una vita quasi da “religiosi” pur rimanendo nel mondo, con l’obbligo assoluto della segretezza perché gli aderenti non venissero riconosciuti, né alcuno di loro cadesse in superbia per il bene che personalmente e dal sodalizio viene compiuto.


Al gruppo romano aderisce, fra gli altri, anche Gaetano Thiene, fondatore dei Chierici Regolari, indicati presto come modello esemplare di preti post-tridentini, che giocheranno un ruolo importante nella formazione di un nuovo clero e nella diffusione della Riforma Cattolica.


A questo periodo risale anche l’incontro del giovane Neri con Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, e Francesco Xavier, una delle sue prime più belle conquiste, il grande missionario delle Indie.


Sembra ci sia stata qualche indecisione di Filippo di unirsi al loro gruppo: è certo ch’egli manterrà non solo ottimi rapporti coi padri della Compagnia, ma le lettere che i suoi missionari invieranno a Roma, diventeranno materia di devota lettura fra i discepoli di Filippo.


Tuttavia, pur avvertendo già un forte impulso di maggiore e più completa donazione, rimane in lui un certo spirito d’indipendenza, una “perseverante ripugnanza a far parte di qualsiasi ordine religioso”, come afferma uno dei suoi biografi.


Tutto il suo comportamento, tra i 18 e i 35 anni, dall’adolescenza cioè alla maturità, è caratterizzato da questa gioia della solitudine, dalla libertà senza obblighi, dalla indipendenza che gli viene dalla povertà.


La frequenza di gruppi in cui ormai si vive il clima fervente della riforma cattolica, di comunità religiose tutte volte ad una più scrupolosa osservanza, il suo amore verso il prossimo, la discreta direzione del Rosa, portano lentamente il Neri a maturare la decisione di farsi prete. Siamo nel 1550. Finalmente il confessore riesce a vincere le ultime resistenze di Filippo.


Nei primi mesi dell’anno successivo egli intensifica la sua preparazione e, nel mese di marzo, Giovanni Lunel, Vescovo di Sebaste, gli conferisce la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato. Il 28 dello stesso mese, riceve il diaconato in S. Giovanni in Laterano e il 23 maggio è consacrato prete nella chiesa di S. Tomaso in Parione. E’ ancora il Rosa a far accogliere il neo sacerdote nella casa di S. Girolamo, dove del resto il Neri è già conosciuto, e qui egli trascorrerà ben 32 anni, per passare alla Vallicella (sede della sua congregazione) solo nel 1583 (12 novembre), e dopo l’invito pressante del Papa.


La mancanza di vita comune fra i cappellani di S. Girolamo, molto diversi fra loro per indole e per doti, risponde proprio a quanto cerca Filippo: gli permette tempo a disposizione, libertà di apostolato e, tuttavia, il vivere sotto lo stesso tetto accomuna questi preti nell’azione di riforma che, pur in diversi modi, tutti indistintamente perseguono.


Comincia per il Neri quella che sarà la caratteristica del suo ministero : la sua disponibilità ad ogni ora della giornata per ricevere le confessioni dei suoi penitenti e di quanti vogliono avvicinarlo per avere consigli e la sua direzione spirituale.


Mentre, nello stesso periodo, preti zelanti si sforzano per inculcare la pratica della comunione frequente, come faceva Bonsignore Cacciaguerra (altra figura importante di prete nel collegio di S. Girolamo), Filippo privilegia il sacramento della confessione, come mezzo principale della conversione personale, della direzione spirituale per la formazione delle coscienze.


Giovanni Francesco Bordini (uno dei primi seguaci del Neri, prete dell’Oratorio, poi vescovo di Cavaillon), scriverà in proposito: “Gli bastò quella sola stanza ignuda et quivi si diede all’esercizio del confessare, nel quale poi consumò il restante della vita sua, talmente che ancora nell’ultima vecchiezza giammai il tralasciò… Et era così assiduo nell’udire le confessioni, che la mattina avanti il giorno molti, che erano occupati, andavano a trovarlo e confessavansi. Da poi levatosi, andava in chiesa et quivi sino all’ultima messa, la quale per lo più egli soleva celebrare, stava sempre fermo, non partendo mai se non per qualche urgente necessità o carità del prossimo, sì che chiunque lo vedeva, sempre lo trovava apparecchiato”.


E Cesare Baronio (successore di Filippo, per sua volontaria insistente rinuncia alla carica di Preposito della giovane congregazione, cardinale prefetto della Biblioteca apostolica, iniziatore, coi suoi Annali, della Storia della Chiesa), dà quasi identica testimonianza, riferendosi al mezzo più importante di cui si serve il Neri nel suo apostolato: “… non avrebbe generato così numerosi figli in Cristo, se non li avesse circondati con un abbraccio di stima e di affetto e, avendo nutrito ciascuno con la parola di Dio, non avesse condotto ognuno di loro ad essere uomo perfetto”.


Certamente nell’avvicinare gli altri Filippo era naturalmente aiutato dal suo carattere estroverso e gioviale accompagnato da una costante serenità, dalla battuta pronta e adatta a ciascuno. Il colloquio, iniziato nel confessionale, proseguiva poi passeggiando nel piccolo cortile che separava la chiesa dalle stanze di Filippo e continuava in camera sua, nella quale accoglieva quei pochi che lo spazio, permetteva.


Questo incontro semplice, informale, del Neri con pochi giovani che, con il tempo, diventa più frequente e si allarga fino. a formare un gruppo, costituisce l’inizio dell’Oratorio. Un incontro nel quale si parla “del disprezzo del mondo, della bellezza della virtù, del premio dei buoni” si fanno spontanei interventi su letture spirituali.


Ma anche per questa sua “intuizione”, l’Oratorio, Filippo non vuole delle regole: tutto deve essere improntato alla spontaneità e alla semplicità, perché ognuno che partecipa si senta a suo agio, circondato d’amicizia e d’affetto, nello sforzo comune di essere sempre più “buoni”. Egli non prepara i suoi fervorini, ma lascia che il suo animo si apra liberamente, come pure quello dei suoi giovani.


E’ importante sottolineare che Filippo non si occupa di ragazzi: oggetto particolare delle sue cure sono giovani la cui età oscilla dai sedici-diciotto anni in su, hanno una certa preparazione, appartengono a ceti che, tutto sommato, non hanno preoccupazioni economiche. E quando, per la notevole affluenza di partecipanti, si vedrà costretto a trasferire gli incontri – prima nella soffitta sopra la chiesa, adibita a deposito di granaglie, e infine in chiesa -, e a dare un certo ordine allo svolgimento dell’Oratorio (lettura devota, in attesa di chi non può abbandonare il proprio lavoro, discorsi esortatori, canto della lauda ecc.), anche allora c’è lo sforzo costante perché dall’eminente cardinale, al mercante, dal giovane al vecchio, dal letterato all’ignorante ognuno si senta a suo agio, senza soggezione alcuna: sono laici e giovani gli animatori dell’adunanza!


Gli interventi di Filippo saranno sempre brevi e misurati: mai parlerà dalla cattedra! Certo, un simile apostolato è tutto legato al carisma della sua persona, anche se ormai i suoi primi sacerdoti sono tutti impegnati nell’oratorio e a fare esperienza per continuarlo nel tempo.


E’ stato giustamente osservato dal Cistellini (al quale si deve la fondamentale biografia sul Neri) che “lo stile affettivo e familiare del ragionamento spirituale nell’Oratorio, solo in apparenza può sembrare di facile applicazione. Richiede una buona dizione, un parlare sciolto, e una continua attenzione a non cadere nel banale o addirittura nel grottesco”, E queste non sono certo qualità da tutti.


Tanto che, ancora vivo Filippo, la pratica si affievolì per mancanza di soggetti capaci.


Poté essere ripresa, saltuariamente, per iniziativa dei padri quando, nella cerchia di chi frequentava questi incontri si ritrovò chi ne era idoneo.


Filippo aveva anche inventato un originale pellegrinaggio per Roma: la visita alle Sette Chiese che si svolgeva ogni anno al giovedì grasso in contrapposizione al carnevale. Si cominciava al mercoledì sera, con la visita a S. Pietro, per continuare poi il giorno seguente, dopo la pausa notturna, riprendendo l’itinerario da S. Paolo fuori le mura e terminando, dopo un lungo giro che giungeva fino a S. Sebastiano sulla via Appia, a S. Maria Maggiore. A mezza strada ci si fermava a Villa Celimontana per far merenda, conversare e riposarsi della camminata.


Proprio durante questo pellegrinaggio del 1563 avviene un altro incontro, importante per ambedue, quello fra Filippo Neri e il giovane cardinale nipote Carlo Borromeo. Ne nasceranno una forte amicizia e stima reciproca: sarà proprio Padre Filippo a convincere l’amico ad accettare il peso della grande diocesi ambrosiana, convinto com’è della necessità di un vescovo santo, in grado davvero di attuare la riforma ; ma causa anche di qualche cruccio per il Neri, quando le richieste dell’arcivescovo di Milano si faranno sempre più pressanti (e dureranno anni, con trattative e nuovi rinvii di Filippo) perché trasferisca l’Oratorio a Milano.


Intanto, nel 1564, dietro forti insistenze dei governatori della potente Nazione dei fiorentini – alle quali dovettero aggiungersi anche quelle di qualche ambiente di curia – Filippo era stato nominato responsabile della loro, chiesa di S. Giovanni (detta appunto dei fiorentini), che, fin dal 1519 per una disposizione di Leone X (Giovanni de’ Medici), fungeva da loro chiesa parrocchiale.


I tentennamenti e le resistenze. del Neri ad accettare, nascevano dal fatto che, proprio all’interno di questa Nazione, in anni non lontani, si erano originati intrighi e beghe legati alla situazione politica di Firenze dopo il ritorno dei Medici alla guida della città, inoltre, Filippo che aveva sempre rifiutato la dipendenza da altri, ancor più ora rifuggiva quella da un gruppo così potente in Roma.


Alla fine dovette cedere perché, contrariamente a quanto forse si aspettava, vennero accolte tutte le sue condizioni che, in realtà, andavano contro gli statuti della Nazione fiorentina. Prima di tutto richiese l’esonero della residenza (ch’egli continuò a mantenere a S. Girolamo), l’allontanamento del clero prima in servizio a S. Giovanni, l’affidamento, della cura parrocchiale ai suoi primi preti e chierici.


Mandarono Cesare Baronio, Giovanni Francesco Bordini e Alessandro Fedeli che furono, per una speciale dispensa papale, tutti ordinati fra il maggio e il settembre dello stesso 1564. Già tre anni dopo la comunità di S. Giovanni contava ben 18 soggetti che mantengono forti legami con S. Girolamo; al mattino vi si recano tutti per la confessione quotidiana a Filippo, e 4 vi tornano al pomeriggio per l’Oratorio. Si dovette presto cercare una casa in affitto vicina all’alloggio loro destinato, perché non più sufficiente ad ospitare tutti.


Già dal 1568 è presente nella comunità Francesco Maria Tarugi (futuro arcivescovo di Avignone e cardinale) che,- in breve, diventa per gli altri punto di riferimento, dato che è il più anziano del gruppo e del quale ha grande stima il Neri. Il genere di vita ch’essi conducono (a parte la naturale, spontanea soggezione a Filippo) non si discosta molto da quello che regnava a S. Girolamo. I cappellani contribuiscono, secondo le loro entrate, alle spese; qui però consumano i -pasti in comune e nessuno disdegna di compiere anche umili mansioni come pulire la casa e attendere alla cucina: anzi, il Baronio si fregerà del titolo di coquus perpetuus, cuoco stabile! e lo scriverà col carbone sulla cappa del focolare.


Nel 1574 intanto, i fiorentini, orgogliosi dei loro preti che con il loro zelo hanno reso S. Giovanni un punto di riferimento nella vita religiosa di Roma, costruiscono un edificio per ospitare l’aumentata, notevole affluenza di persone alle pratiche dell’Oratorio.


Filippo però, desidera una chiesa finalmente tutta sua. Così, con una discreta e silenziosa preparazione (alla quale contribuì non poco il Tarugi che consegna materialmente al papa la supplica del Neri perché gli venga assegnata), fu superata ogni aspettativa. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), il 15 luglio dell’anno santo 1575, indirizza a Filippo la bolla Copiosus in misericordia Dominus, con la quale non solo gli assegna la chiesa parrocchiale di S. Maria in Vallicella, ma riconosce canonicamente la comunità di chierici secolari, formatasi attorno a lui, e della quale il Neri è stabilito Preposito.


Una Congregazione che si distingue fra le contemporanee approvate dopo il Concilio di Trento e che porta tutta l’impronta di padre Filippo, come ormai tutti lo chiamano. Riflette più il vivere in comunità dei chierici addetti alle canoniche dell’alto medioevo (canonici), che quello di una congregazione religiosa come ormai la si intende secondo i canoni.


Il Neri non aveva mai pensato di dar vita ad una nuova congregazione: esisteva già una varietà di forme di vita consacrata (antichi ordini monastici, ordini mendicanti – minori, predicatori, carmelitani, agostiniani, servi di Maria), le nuove famiglie religiose e, per chi voleva seguire i consigli evangelici, lo ripeteva spesso, non c’era che l’imbarazzo della scelta.


Ma, dimostrando ancora una volta una piena fiducia e obbedienza alla volontà del papa (che sa essere strumento di un volere ben superiore), ne accetta le disposizioni: forse intende che solo coti possa tramandarsi nel tempo la sua esperienza, anche se certamente essa non potrà ricreare lo stesso clima che si respira attorno a lui.


E’ il travaglio del passaggio da una felice intuizione alla istituzione. Eppure la Curia ha colto l’essenza della comunità oratoriana: i chierici verranno ordinati con il titolo della mensa comune (per loro cioè risponde Filippo come superiore), ma non pronunciano voti come gli altri religiosi: il fine del loro vivere in comunità è di essere al servizio dell’Oratorio.


Solo nel 1588 la comunità di Filippo stenderà delle costituzioni (spinta forse anche dai problemi di rapporti con la case filiali di S. Severino e di Napoli) e, dopo una riflessione interna durata un trentennio, con conseguenti correzioni e modificazioni, nel febbraio del 1612, ad opera ormai di una maggioranza della seconda generazione di oratoriani (sono scomparsi, oltre Filippo, anche figure eminenti come il Baronio e il Tarugi) e con la mediazione del cardinale Bellarmino, vengono definitivamente approvate le costituzioni con il Breve solenne Christifidelium quorumlibet di papa Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621).


Ma a Filippo mancarono prove e tribolazioni, bagaglio immancabile nella vita di ciascuno?


No di certo, anche se, come s’è visto, fino all’età in cui si fa prete, di lui non si sa poi molto (lo si conosce solo dalle testimonianze dei pochi superstiti interrogati al primo processo), e la cosa si spiega visto che il Neri era ben lontano dal parlare di sé, né lasciò scritti autobiografici.


Anzi, egli rifuggiva dallo scrivere, e si servi sempre di altri anche per la stesura Però non occorrono voli di fantasia per capire che una vita alla giornata, come s’era, imposto, non doveva poi essere tanto facile.


Certamente quando sappiamo delle persecuzioni che ad opera del cardinale Virginio Rosari, Vicario di Roma, nella primavera del 1559 si abbatterono sul Neri allora non fatichiamo a comprenderne la sofferenza. Il potente prelato arriva, per motivi politici – siamo durante il difficile pontificato di Paolo IV (Giampero Caraffa, 1555-1559) – a proibirgli il pellegrinaggio alle basiliche, l’Oratorio e il confessionale; inoltre Filippo è citato a comparire davanti alle autorità imputato di alimentare una setta e di tenere conventicole.


In pratica, si sospettava della sua fede… allora, non si andava tanto per il sottile! Altre amarezze e difficoltà si abbatterono su Filippo dieci anni dopo, nel 1569, in seguito ad una serie di lutti e al rarefarsi dei collaboratori. Inoltre, negli ultimi trent’anni della sua vita, fu spesso tormentato da malattie (sbocchi di sangue, debilitazione generale) tanto che, più volte, la sua ripresa parve dovuta ad un miracolo.


Senza contare le amarezze interiori che dovevano procurargli gli atteggiamenti d’indipendenza, se non di ribellione del Talpa, responsabile della fondazione di Napoli, che, morto Filippo, portò alla rottura dell’unità coi confratelli della Vallicella. E le costituzioni non prevederanno più una gerarchia unitaria degli oratoriani: ogni fondazione, pur adottandone le consuetudini, sarà autonoma.


Nella primavera del 1595 le crisi di salute di Filippo si fanno più frequenti.


Non può far nemmeno un cenno di saluto al cardinale Agostino Valier (che dalla sua esperienza con il Neri aveva scritto il bel dialogo Philippus sive de laetitia christiana), venuto a trovarlo e salutarlo per l’ultima volta.


La mattina del 12 maggio gli venne amministrata l’estrema unzione dal fedele Baronio, ma il Neri è così stremato che non dà reazione.


E’ presente il cardinale Borromeo che trepida per le condizioni del caro amico. C’è un lieve miglioramento e il porporato ne approfitta per amministrargli il Viatico.


I testimoni narrano di una scena commovente: Filippo, alla vista dell’ostia, parve riacquistare le forze; con un tono di voce che meravigliò i presenti egli invocò: “Questo è l’amor mio! Questo è l’amor mio, dammelo subito!”.


Trascorrono ancora altri giorni fra riprese e ricadute, speranze di un ristabilimento che Filippo invece dice chiaramente non ci sarà.


Sono le 23 del 26 maggio 1595, festa del Corpus Domini. Il Gallonio (autore di una preziosa Vita sul fondatore), uno dei padri che dorme sopra la stanza del Neri, lo sente battere con la mazza sul pavimento.


Al suo arrivo, padre Filippo, con un fil di voce gli dice: “Aiutatemi, Antonio, me ne vado”. Accorre, in breve avvertita, tutta la comunità.


Il Baronio, a nome di tutti, chiede al Padre che dia loro l’ultima benedizione; ma Filippo, aperti gli occhi per qualche istante e rivoltili al cielo, piegò la testa emettendo un sospiro più forte, si addormentò nel Signore, perché, più che un trapasso dovuto alla morte, il suo sembrò davvero l’inizio di un lungo sonno. Erano, circa, le tre del mattino.