S. GIOVANNI DE RIBEBA (1532-1611)

Il Concilio di Trento aveva decretato l’erezione dei seminari per la formazione del clero. Nel 1586 Giovanni de Ribera volle dar inizio al collegio-seminario “Corpus Christi” perché fosse un monumento vivente di devozione a Gesù sacramentato e nello stesso tempo un centro di formazione sacerdotale. La reale cappella fu inaugurata nel 1604 alla presenza di Filippo III e ancora oggi è un centro importante di vita eucaristica. Gli addetti al suo servizio dovevano essere ottanta e per ognuno il santo aveva preparato uno specifico regolamento. Ogni giovedì vi si esponeva il SS. Sacramento. L’arcivescovo vi andava a celebrare quando poteva e a pregare fino a tre ore consecutive inginocchiato sopra una stuoia.

6 gennaio
 
Questo Santo Vescovo nacque a Siviglia verso il 1532 dai nobili Pietro Enriquez Afàn de Ribera Portocarrero e Teresa de los Pinelos. Ebbe tre sorelle, di cui le due ultime divennero religiose in un monastero retto dalla zia paterna. La sua formazione fu influenzata non dalla madre, morta molto presto, ma da due prozie: Donna Caterina de Ribera, che per i poveri fondò a Siviglia l’ospedale delle cinque Piaghe, e la Duchessa Teresa Enriquez de Alvarado, che passò alla storia come “la pazza del Sacramento” per le confraternite fondate in onore della SS. Eucaristia.
Il padre, che per l’unico suo figlio sognava l’episcopato, nel 1543 ottenne che fosse tonsurato benché avesse soltanto undici anni. Lo mandò quindi a compiere gli studi presso l’università di Salamanca. In città gli fece arredare una casa signorile con maggiordomo e sei domestici. Giovanni visse in essa ritiratissimo come in un monastero. Per trarre maggior profitto dallo studio si faceva svegliare tra le tre e le quattro del mattino. Invece di prendere parte alle feste e ai divertimenti dei goliardi, frequentava gli esercizi spirituali di S. Ignazio, digiunava tre giorni la settimana durante la quaresima, e amava i poveri fino a vendere libri e oggetti preziosi per soccorrerli. Nel 1555, attesta il P. Francesco Escrivà S.J., suo confessore, i frequenti digiuni, l’uso dei flagelli e del cilicio e le ore sottratte al sonno per dedicarle alla preghiera e allo studio, lo condussero ad un grave esaurimento di cui risentì per tutta la vita.
Il 31-5-1557, dopo gli studi compiuti sotto la direzione di famosi maestri, quali Domenico de Soto, OP (+1560) e Melchior Cano, OP (+1560), Giovanni consegui la licenza in teologia. Appena fu ordinato sacerdote, il padre, smanioso che si facesse notare dal Re Filippo II (+1598), lo esortò a darsi alla predicazione e all’insegnamento. Consegui infatti la cattedra di teologia a Salamanca, ma v’insegnò per due anni soltanto perché nel 1562, a trent’anni, fu costretto ad accettare il vescovado di Badajoz, piazzaforte con circa 12.000 abitanti.
Dinanzi alle molteplici cure del suo nuovo apostolato il Santo, umilmente e prontamente, chiese consigli a S. Giovanni d’Avila (+1569) l’apostolo dell’Andalusia, e al P. Luigi da Granada, OP (1588), “il principe degli scrittori spirituali”, secondo S. Francesco di Sales. Per la predicazione, dopo la visita pastorale alla diocesi costituita da cinquanta parrocchie, la promulgazione dei decreti del Concilio di Trento, la celebrazione del sinodo diocesano e del Concilio provinciale in Salamanca, si valse dello zelo dei Padri della Compagnia di Gesù. Predicava egli stesso molto sovente nelle funzioni solenni della cattedrale, nelle parrocchie rurali e nelle semplici cappelle dei monasteri. Quando gli abitanti di un paese venivano a sapere che si trovava nelle loro vicinanze si dicevano a vicenda: “Andiamo a sentire l’apostolo'”.
Come aveva ripetutamente insegnato a voce e per iscritto, lo zelante pastore portava personalmente la comunione ai sani e ai malati. A chi gli suggeriva di salvaguardare la sua nobiltà rispondeva: ”Nostro Signore si degna andare alla casa degli infermi, e debbo io ricusarmi di portarvelo o di accompagnarvelo?”. Dava la preferenza specialmente ai poveri, ai quali aveva destinato tutti i proventi della mensa vescovile. Per sovvenire il maggior numero possibile di nobili indigenti, case religiose, ragazze da marito, malati dell’ospedale o girovaghi disgraziati, ogni mese si rendeva personalmente conto dell’amministrazione della casa episcopale. Per due volte, durante anni di grandi carestie, vendette tutta l’argenteria per procurare loro di che vivere.
Nel 1568 era morto l’arcivescovo di Valenza, città che uno dei suoi ultimi pastori aveva definita “vera Babilonia”. S. Pio V, che riteneva il Ribera degno di sedere al suo posto sulla cattedra di S. Pietro, gli impose di trasferirvisi. Addoloratissimo, egli vi giunse il 20-3-1569 preceduto da solida fama di letterato, di santo e di riformatore. I cristiani “impeccatati” di Valenza vivevano insieme con i “rognosi” moreschi, in parti quasi uguali, “come il cavallo e il mulo” per dirla con una forte espressione biblica. La facilità dei crimini anche tra ecclesiastici e religiosi, a volte a motivo dei diritti di precedenza, rendeva spaventose le pene giudiziarie: strascinamenti, squartamenti, mutilazioni delle orecchie o delle mani. La riforma dell’arcidiocesi era già stata avviata dall’eremitano di S. Agostino, S. Tommaso da Villanova (+1555), ma non aveva ancora conseguito l’effetto desiderato. Toccava al nostro Santo condurla a termine nello spirito del Concilio Tridentino.
La sua prima grande impresa, la progettata riforma cioè dell’Università di cui egli era il Cancelliere, si risolse in un fallimento. Per dare modo ai Padri Gesuiti d’insegnarvi le discipline ecclesiastiche si era proposto d’instaurare in essa una più libera scelta dei professori. Avendo incontrato opposizione nella sua visita di riforma da parte di alcuni cattedratici, ritenne opportuno dar prova di severità facendo incarcerare il rettore e tre professori. Contro il ben intenzionato cancelliere si scatenò subito una canea composta soprattutto di sacerdoti indegni, che per due anni paralizzò la vita universitaria di Valenza. Mai prima di allora il santo dovette sentirsi l’animo così profondamente addolorato. I suoi oppositori ne avevano intaccata l’onorabilità persino con sordide calunnie. Gl’incarcerati, sostenuti dall’autorità municipali, furono reintegrati. Invece di nutrire animosità, ad essi e a non pochi altri colpevoli il Santo conferì in seguito benefici e distinzioni, mostrando così quanto in lui la carità sopravvanzasse la giustizia.
Né timido né precipitoso, lo zelante pastore scelse la via dell’istruzione persuasiva, dell’esortazione paterna e soprattutto dell’esempio personale per riformare i 1.400 sacerdoti dell’arcidiocesi, molti dei quali riuscivano a stento a conservare intatta la sola virtù della fede. Adunava parroci, confessori e predicatori nella chiesa di S. Tommaso, e parlava loro a porte chiuse con voce cosi vibrante e dolce ad un tempo che molti ne uscivano compunti e desiderosi di aiutarlo nella salvezza delle anime. Durante i quarantadue anni di episcopato a Valenza visitò undici volte le sue 700 chiese e tenne sette sinodi. Fu specialmente esigente in materia di ordine e di pulizia nell’amministrazione dei sacramenti, e nessun problema di vita pastorale lasciò insoluto; Seppe farsi amare dal suo clero perché alla scienza profonda univa signorilità di modi, e generosa amabilità. “Non trovo in lui alcun difetto da far risaltare” confessò un giorno un canonico che pure bramava vendicarsi di una giusta riprensione. Del resto, tutti sapevano che egli benché nobile e ricco, mangiava in piatti di terracotta, si serviva di cucchiai di legno e dormiva sempre sopra una predella di legno alta mezzo palmo da terra ravvolto in povere coperte di stoppa di lino.
Il Concilio di Trento aveva decretato l’erezione dei seminari per la formazione del clero. Nel 1586 Giovanni de Ribera volle dar inizio al collegio-seminario “Corpus Christi” perché fosse un monumento vivente di devozione a Gesù sacramentato e nello stesso tempo un centro di formazione sacerdotale. La reale cappella fu inaugurata nel 1604 alla presenza di Filippo III e ancora oggi è un centro importante di vita eucaristica. Gli addetti al suo servizio dovevano essere ottanta e per ognuno il santo aveva preparato uno specifico regolamento. Ogni giovedì vi si esponeva il SS. Sacramento. L’arcivescovo vi andava a celebrare quando poteva e a pregare fino a tre ore consecutive inginocchiato sopra una stuoia. Nel 1610 potè inaugurare pure il collegio-seminario capace di ventotto studenti di teologia o diritto canonico con proprio regolamento. Volle che fra loro il saluto consueto fosse: “Sia lodato il SS. Sacramento”. La pia invocazione si diffuse anche tra il popolo. Le donne e i bambini infatti gli si avvicinavano confidenzialmente salutandolo con la giaculatoria da lui preferita. La sua Messa durava varie ore. All’inserviente ordinava di lasciarlo solo all’inizio del canone e di non tornare se non quando sentisse suonare il campanello. Quando arrivava in sacrestia i due o tre fazzoletti che teneva sospesi al cingolo erano inzuppati di lacrime.
Nel suo episcopio, conforme all’uso del tempo, il santo educava pure una trentina di paggi, figli della migliore nobiltà. Oltreché studiare, essi contribuivano a dar maggior lustro alle funzioni religiose in cattedrale, e al momento d’iscriversi all’università parecchi sceglievano la via ecclesiastica. Per essere sempre all’altezza della sua missione continuamente egli si procurava libri da studiare. Quelli che non si trovavano in commercio li faceva trascrivere da amanuensi. La sua biblioteca personale, ancora esistente, era formata da 2651 volumi, di cui 174 di patristica e 53 di S. Scrittura. Per essere in grado di comprendere meglio la parola di Dio, prese lezioni di greco e di ebraico da due dotti sacerdoti. Nonostante la sua sapienza non disdegnava passare lunghe ore ad ascoltare le confessioni dei fedeli. I buoni popolani sgranavano tanto di occhi, abituati com’erano allo spettacolo poco edificante di vescovi circondati di potenza e sfarzo. Sovente si recava su una piazza dei sobborghi di Valenza, si sedeva sopra una seggiola e insegnava il catechismo ai bambini. Ai migliori regalava piccole monete, scarpe e capi vari di vestiario.
Per la pacificazione dell’arcidiocesi Mons. Ribera si adoperò perché fossero definitivamente espulsi i Moreschi dalla Spagna. Dopo la presa di Granada (1492), essi non si erano acquietati alla loro condizione di vinti, né si erano mostrati disposti ad abbracciare la fede cattolica, benché i regnanti di Spagna fossero ricorsi all’espediente delle conversioni coatte. S. Tommaso da Villanova si era preoccupato moltissimo di recuperare questi falsi convertiti, ma con risultato quasi nullo. Quando Mons. Ribera era giunto a Valenza il problema moresco si trovava forse nella sua fase più acuta. Egli insistette presso il re perché i 140.000 musulmani fossero trattati con larghezza di vedute, dotò convenientemente 212 rettorie per la loro cura spirituale, fece ristampare un manuale di catechismo, ed esortò i parroci a favorire la campagna della loro evangelizzazione. Costatata l’inutilità di tutti gli sforzi, insistette varie volte presso Filippo III per la loro estromissione dalla Spagna. Il 22/4/1608 il Consiglio di Stato giunse alla grave decisione così come tanto tempo prima aveva predetto S. Luigi Bertran (+1581), che Mons. Ribera sovente aveva condotto con sé nelle visite pastorali.
Oltre che del clero e del popolo, il santo si occupò pure dei religiosi, alla cui riforma in Spagna tanto si erano adoperati S. Pio V (+1572) e Filippo II. Particolare amicizia egli coltivò con i Trinitari di Valenza, nel convento dei quali era venerata l’immagine della Vergine del Buon Rimedio; fondò un monastero di Agostiniane Scalze; protesse la riforma degli Alcantarini; accolse nell’archidiocesi i Cappuccini in seguito al suggerimento del B. Nicolò Fattore OFM (+1583); convinse il loro generale, S. Lorenzo da Brindisi, in visita a Valenza, ad ammettere ai voti il Ven. Francesco da Siviglia, famoso oratore mercedario; si adoperò presso S. Pio V per avere tra gli altri religiosi anche i Francescani Scalzi; suggerì ai Minimi di eleggere loro provinciale il B. Gaspare De Bono (+1604). Poiché nei buoni esempi dei religiosi vedeva il più potente incentivo per la diffusione della pietà nel popolo, mise a disposizione di sessantasette conventi di frati e venti di monache case o terreni, rendite fisse o soccorsi regolari. Tre volte chiamò a Valenza anche S. Teresa d’Avila, ma ella declinò l’invito perché trovava difficoltà a sottoporre i conventi all’immediata dipendenza dell’arcivescovo.
Negli ultimi anni di vita Mons. Ribera manifestò l’idea di rinunciare alla mitra per ritirarsi nel suo collegio-sommario. Il Papa gli concesse invece due vescovi ausiliari perché condividessero con lui il ministero pastorale. Egli ne approfittò per dedicarsi maggiormente e con rinnovato rigore alla predicazione, ma il 9-12-1610 lo colse un edema polmonare acuto. Quando le trafitture del male erano più violente si limitava ad esclamare: “Signore, sia fatta la tua volontà”. Ricevette il viatico prostrato sul pavimento, a mani giunte e con le lacrime agli occhi. Mentre gli amministravano la santa unzione interruppe sovente la cerimonia per ripetere, battendosi il petto: “Fedele e cattolico. Peccatore sì, ma molto cattolico”. Morì il 6-1-1611 in una cameretta del collegio-seminario “Corpus Christi” nella cui cappella è venerato. Pio VI lo beatificò il 30-8-1796 e Giovanni XXIII lo canonizzò il 12-6-1960.
 
 Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 101-106.
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