S. Colombano

In Irlanda il Vangelo prese immediatamente radici e meno di cento anni dopo la morte di san Patrizio, si assiste a quella sorta di esplosione che è chiamata “il miracolo irlandese”.


Un uomo personifica questo vigore dell’apostolato irlandese nel mondo, un uomo dotato della santità itinerante che caratterizza l’epoca, quell’Alto Medioevo che si riteneva condannato a stagnare nell’ignoranza, e che invece con ogni probabilità fu il secolo più mobile prima del nostro: Colombano.

Una creatura della tempra di san Bernardo o di san Maiolo di Cluny, di cui si diceva, nel suo elogio funebre, che era stato “un uomo perfettamente bello “, Colombano sembra riunire in sé tutte le qualità fisiche, intellettuali, spirituali che si possono incontrare in un essere umano. Uno dei suoi discepoli, Giona, ha raccontato la sua vita, e benché manchi una buona parte dei dettagli che desidereremmo, questa biografia permette di sapere che era bello e che aveva dedicato la sua giovinezza sia agli esercizi fisici che agli studi in mezzo alla natura in quella contea di Leinster dove era nato da nobile famiglia verso il 540; un’educazione molto accurata fa di lui un cavaliere, un arciere emerito e anche – poiché è compagno e amico dei pastori, dei contadini del posto – un essere sensibile alla vita della natura come lo è stato fin da bambino alla preghiera, alla salmodia, alla conoscenza della Sacra Scrittura. Secondo gli usi del tempo, impara a leggere cominciando dal salterio, e il precettore assegnategli inculca in lui anche gli elementi di quelle arti liberali che formano la base dell’educazione: musica, aritmetica, geometria, astronomia, e soprattutto la “grammatica”, vale a dire sia quello che noi intendiamo con questo termine, sia le lettere in genere, poesia, storia, letteratura. Giovanissimo, si rivela egli stesso poeta; insomma, sua madre, che prima della sua nascita aveva avuto la rivelazione che un sole ardente sarebbe uscito da lei, dovette vedere realizzarsi fin dall’infanzia l’interpretazione che poteva dare a quella fulgida visione.


Nella giovinezza Colombano si trova a un bivio, come è facile supporre. Ascolterà le sollecitazioni che si immaginano numerose, per un ragazzo cosi straordinariamente dotato, oppure le dominerà superando se stesso e lasciando a Dio la cura di guidarlo anima e corpo verso le proprie mete? Esitante, conteso, divorato da tutti gli impulsi e le attrazioni che sente in sé, Colombano va a chiedere consiglio a una santa donna, una reclusa, oggi diremmo una monaca di clausura, che vive nei pressi e gode fama di grande saggezza; essa lo consiglia energicamente di fuggire il mondo come ha fatto lei stessa quindici anni prima, ripetendo in conclusione l’esortazione del Vangelo: ” Alzati e cammina”. Tornato a casa, Colombano decide a sua volta di lasciare tutto, persino il luogo dove è nato e a cui è molto legato, persino sua madre che lo ha guardato crescere con fervente ammirazione; al momento della partenza essa, che ha fatto di tutto per trattenerlo, si corica attraverso la porta. Colombano le cita il Vangelo: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me “. Parecchie Vile di santi descrivono distacchi dolorosi come questo; Colombano deve attraversare quella soglia che per lui è come un seno materno in senso proprio, per una seconda nascita. Così cinque secoli dopo si vedrà un poeta come Chrétien de Troyes riprendere, nel romanzo di Parsifal, il motivo di questa rottura indispensabile alla persona die deve potersi sviluppare in modo completo; è da credere che l’episodio sia stato vissuto più volte e in maniera più forte e dolorosa da personaggi dalla sensibilità acuta, ancora affinata dal sentimento religioso, quali sono Colombano e sua madre. Il biografo parla delle lacrime con cui entrambi inaugurano il loro nuovo destino, dopo questa violenta separazione.


Il giovane raggiunge l’isola di Cleen ed è ammesso nell’abbazia di Cluain Inis, retta da un santo abate chiamalo Sinneill; nel corso di alcuni anni si forma a questa esistenza che unisce solitudine e comunità, nella capanna dove si rifugia conducendo una vita di preghiera, di silenzio, di lavoro. Poi si reca in un’altra abbazia, Bangor, situata nell’Ulster, dove sono riuniti – si dice – tremila monaci; è lì che diventa prete; Bangor è il centro di una grande irradiazione, e il famoso antifonario lasciato dall’abbazia e oggi conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano attesta lo sviluppo intellettuale e spirituale raggiunto nell’abbazia quando fu composto, nella seconda metà del VII secolo; come il famoso Libro di Kells, è miniato con spirali, arabeschi, tutte le figure fiabesche, disegnate con quella sicurezza e quella forza immaginativa inesauribile che caratterizzano l’arte irlandese dall’antichità fino al XIII secolo – e inoltre anche la nostra arte romanica. Ma l’ “Alzati e cammina ” doveva risuonare nuovamente alle orecchie di Colombano, ed esortarlo a una delle imprese più feconde di questi pionieri partiti dalla loro isola. S’imbarca – leggiamo – con dodici discepoli; fanno scalo sulle coste della Cornovaglia, poi nell’Armorica, e non è escluso che il villaggio di Saint-Coulomb, non lontano dal golfo di Saint-Maló (Ille-et-Vilaine), tragga il suo nome da uno di questi scali, e forse persino dal suo sbarco in Gallia. L’arrivo di quegli strani monaci vestiti di bianco e tonsurati all’irlandese – ossia con la fronte ampiamente scoperta dal rasoio che disegnava una specie di mezzaluna, mentre i capelli erano tirati indietro e ricadevano sulle spalle -, doveva sorprendere le popolazioni; aggiungiamo, per completare il disegno, il sacchetto in cui portavano il loro tesoro: il Vangelo.


In ogni caso la fama di questi monaci si diffonde e raggiunge ben presto il regno di Borgogna dove il re Gontrano7 offre loro asilo. Colombano e i compagni accolgono il suo invito, e si stabiliscono sulla frontiera della Borgogna e dell’Austrasia, in una zona di foreste dove si trova un vecchio castrum semidistrutto e abbandonato; si tratta di Annegray, presso i Vosgi.


Per cominciare, trovavano di che soddisfare il loro desiderio di ascesi: non avevano altre risorse che i frutti della foresta, la selvaggina, che non mangiavano, e i pesci, che forse rifiutavano ugualmente; un compagno cadde gravemente malato; Colombano esortò gli altri a digiunare, per pregare di più. Erano al limite dell’estenuazione, quando videro arrivare un uomo che conduceva bestie da soma cariche di provviste; poiché sua moglie era malata, aveva avuto l’ispirazione di portare ai singolari monaci che abitavano nelle radure di Annegray qualche vettovaglia, chiedendo in cambio preghiere; il monaco malato guarì, e anche la moglie del loro salvatore; l’insieme della comunità tornò alla sua vita normale di preghiera e di austerità.


Un’altra volta, quando si aspettavano i primi raccolti che tardavano a venire, giunse un convoglio di cereali, inviato dal cellerario di un’abbazia vicina; raccontò a Colombano e ai suoi compagni come si fosse perduto nella foresta e avesse lasciato che i cavalli andassero per conto loro, e come questi ultimi senza esitare lo avessero portato ad Annegray.


Le storie dei primi tempi non mancano di aspetti che si potrebbero avvicinare ai Fioretti di san Francesco, ma recano il segno di un paese più rude e di inizi più austeri: ora sono lupi che circondano Colombario e finiscono per ritirarsi, lasciandolo sano e salvo; oppure quelli che sono chiamati gli ” svevi ” – bande di invasori attardarsi nel paese, una sorta di emigrali divenuti banditi – piombano nella foresta, ma passano letteralmente vicino a lui senza vederlo. E ancora oggi si mostra sopra Annegray, su una collina boscosa, la grotta dove Colornbano si ritirava per pregare in solitudine; in origine era la tana di un orso che alla fine divenne suo compagno.


Poiché Annegray è diventato troppo stretto per tutti i discepoli che vi affluiscono, Colombano nel 590 fonda il secondo e il più celebre dei suoi monasteri, Luxeuil; ne dovrà poi creare un terzo, Fontaines.


Si possiede il testo della regola di Luxeuil, formulata da san Colombano e che probabilmente si limita a ripetere quella di Hangor, che è andata perduta. I punti essenziali sono la preghiera, il lavoro, l’ascesi, destinati a mantenere nel monaco l’ardore della carità, dell’amore di Dio, nella pratica dei tre voti di castità, povertà e ubbidienza, che caratterizzano ogni consacrazione religiosa.


Come era allora di regola, la preghiera è fondata sui salmi; alcuni monaci si costringono a recitare l’intero salterio, in genere ogni giorno se ne recita un terzo, ossia cinquanta salmi; la preghiera coinvolge anche il corpo, essendo accompagnata da numerose genuflessioni, prostrazioni, o braccia aperte in forma di croce.


Quanto al lavoro, si tratta del lavoro manuale, assolutamente consueto per i monaci, o dello studio, del lavoro intellettuale, molto coltivato in tutti i monasteri irlandesi; e proprio l’Irlanda con i suoi monasteri insulari, e quelli che semina in Occidente, fornirà a tutta l’Europa i soli studiosi ed eruditi che siano in grado di trasmettere – nel momento di una rovina generale delle scuole e del sapere – le acquisizioni dell’antichità, grazie alla loro conoscenza del greco in particolare, e anche dell’astronomia, della geografia, della grammatica, ossia delle “lettere” antiche. Due secoli dopo il tempo di san Colombano, Carlo Magno si rivolgerà a dotti irlandesi per la sua Accademia palatina, e il grande Alenino, arcivescovo di York, sarà in corrispondenza con il monastero di Clonmacnoise.


Infine si deve sottolineare l’ascesi propria di questi monasteri: temperamento fortissimo, desiderio di assoluto, bisogno di superamento spinto spesso fino al parossismo si fanno strada attraverso le penitenze praticate – immobilità totale nella posizione delle braccia in forma di croce, uso dei bagni gelidi durante il quale spesso il monaco recita salmi, astinenza terribile: mangiar carne è assolutamente vietato, pare che il pesce fosse riservato ai giorni di festa, come le uova e il latte scremato: un solo pasto al giorno, insomma, nel complesso una situazione impressionante. (Osserviamo, tra parentesi, che gli atleti del nostro tempo, per esempio quelli che nei paesi orientali sono selezionati fin dalla più tenera infanzia affinché un giorno possano salire sul podio delle Olimpiadi, si piegano a discipline quasi altrettanto dure e che sono oggetto di elogio nei mezzi di comunicazione di massa che rendono conto di tali prodezze: a riprova del fatto che il superamento è all’origine di ogni realizzazione.)


La storia di Luxeuil, quale è stata ricostruita da Giona nel contesto della vita di san Colombano, non manca di quegli aspetti miracolosi che fanno parte della fama del monastero e del suo fondatore. Grazie alle sue preghiere, il duca della Borgogna transgiurana Valdeleno e sua moglie Flavia avranno un figlio che chiamano Donato, poiché lo considerano un dono del cielo, e che sarà educato nelle scuole tenute dai monaci; infatti questi ultimi svolgono una grande attività didattica; in seguito Donato avrà un fratello e due sorelle.


C’è anche l’amicizia per questi monaci che è testimoniata da un prete dei dintorni chiamato Vinioco; ora durante la sua prima visita Vinioco è vittima di un incidente: mentre assiste al lavoro dei dissodatori riceve in fronte, proprio sopra l’occhio, un cuneo che lo colpisce con tanta violenza da aprirgli il cranio. Colombano accorre, si prosterna in preghiera, poi bagna con la saliva la fronte della vittima e richiude la ferita che si cicatrizza subito. Dopo simili esordi Vinioco ritorna di tanto in tanto a Luxeuil; un giorno si accorge che il granaio è quasi vuoto, e rimprovera il cellerario per la sua imprevidenza: i suoi fratelli dovranno soffrire la fame? L’indomani, quando ripassa, Vinioco constata che il granaio è pieno, che trabocca di cereali; interrogato, il cellerario risponde: “Non è venuto nessuno; puoi constatare come le vie non rechino alcuna traccia, e io ho conservato tutta la notte sulla mia persona la chiave del granaio, ma il Signore che ha nutrito cinquemila persone con cinque pani può ben venire in aiuto al monastero nello stesso modo”. Meravigliato, Vinioco misura la fede di Colombano da un miracolo siffatto; resterà attaccato al monastero; uno dei suoi figli, chiamato Baboleno, più tardi sarà abate di Bobbio.


Tuttavia altri incidenti avrebbero segnato la vita del fondatore di Luxeuil. E tra l’altro i suoi dissidi con la regina Brunechilde, reggente nel duplice regno di Austrasia e di Borgogna durante la giovinezza dei suoi nipoti; poiché aveva preso gusto al potere, essa prolungava a suo modo quella gioventù e inesperienza assecondando i piaceri di colui che avrebbe dovuto regnare, Teodorico; costui teneva intorno a sé moltissime ancelle, che in verità erano concubine. Brunechilde, già in conflitto con il vescovo di Vienne Desiderio, avrebbe giudicato opportuno ingraziarsi Colombano; un giorno gli porta alcuni dei figli naturali di Teodorico, e gli chiede di benedirli; il monaco rifiuta e lancia una predizione secondo cui quei bambini non reggeranno mai lo scettro; Brunechilde replica vietando ai suoi sudditi di varcare i confini del monastero di Luxeuil o di fare ai monaci doni qualsiasi; tuttavia quella specie di blocco del monastero non poteva durare; Colombano si reca dal re Teodorico che risiedeva allora a Epoisses, ma si rifiuta di varcare la soglia del palazzo; Teodorico – un po’ complessato, diremmo oggi, a causa della sua cattiva condotta – gli fa portare un pasto. Colombano afferra i piatti e li getta per terra: aveva un modo tutto suo di intendere le regole della diplomazia.


Nondimeno questo atto disarma, letteralmente, la collera della vecchia regina e del giovane re, che almeno per un certo tempo si sottomettono. Per Colombano gli obblighi del matrimonio erano sacri, e il sovrano in questo campo doveva dare il buon esempio. Ma Teodorico era infastidito dai rimproveri dell’asceta. Le ostilità non tardarono a risorgere, e Colombano finì per essere esiliato. Una prima volta non andò più lontano di Besançon e tornò di nascosto a riprendere il suo posto tra i monaci; ma Brunechilde lo apprese, e furiosa lo fece espellere, insieme a tutti i monaci giunti dall’Irlanda; la regina sapeva che si erano determinati dissensi tra i monaci insulari e i vescovi della Gallia, a causa di usi liturgici di cui parleremo più avanti, tanto che il rancore personale che nutriva contro Colombano trovava giustificazioni presso di loro.


Nel 610 Colombano si allontana da Luxeuil, in teoria per tornare in Irlanda. Ciò che accade in seguito è molto significativo: la sua scorta, lui e i suoi compagni sono portati a Besançon, poi, probabilmente per la via romana ancora praticata, sono condotti verso la Normandia passando per Chalon-sur-Saóne, Autun, Avallon, Auxerre; ma fin dall’inizio del viaggio aveva luogo una nuova fondazione: un compagno del santo, di nome Desio, già anziano, dovette fermarsi, perché non poteva assolutamente servirsi di un piede, e Colombano gli permise di restare in romitaggio nella valle dell’Oignon, in un luogo dove sarebbe sorta l’abbazia di Lure. In seguito la scorta ricevette l’ordine di dirigersi verso Nevers e poi di seguire la Loira fino a Nantes, probabilmente perché Brunechilde aveva saputo quale affluenza di folle provocasse il passaggio di quei monaci, e se ne adombrava; gli ordini divennero severi, e i soldati della scorta picchiarono e malmenarono i monaci; tuttavia si menzionano ancora molti miracoli, tra l’altro, a Orléans, la guarigione di un siriano cieco che, con sua moglie, aveva osato offrire cibo ai prigionieri.


I monaci ricompaiono a Tours, dove Colombano può passare una notte in preghiera davanti alla tomba di san Martino; al vescovo del luogo che l’aveva invitato alla sua tavola, predice la prossima rovina della famiglia che lo aveva proscritto. Infine il piccolo gruppo giunge a Nantes; e li, durante la sosta in attesa di un battello che lo trasporti sull’isola, ha luogo un nuovo miracolo: a uno sventurato che era venuto a bussare alla loro porta, Colombano aveva fatto dare tutto quello che restava loro, una misura di farina; per i due giorni successivi i monaci dovettero digiunare; ma il terzo giorno una dama di cui il biografo ha tramandato il nome, Procula, invia loro cento misure di vino, duecento di frumento e cento misure di orzo per preparare la birra.


Ci è rimasta una lettera scritta da Colombano ai suoi compagni di Luxeuil, da Nantes; rispecchia perfettamente il dinamismo e l’imperturbabile coraggio di quest’uomo: ” La pace sia con voi “


comincia; e più avanti: ” I Vangeli ci offrono tutto quello che occorre per incoraggiarci; sono stati scritti quasi soltanto per questo: per insegnare ai fedeli di Gesù crocifisso a seguirlo portando la loro croce; i nostri pericoli sono numerosi… e il nemico temibile, ma la ricompensa è gloriosa, e la libertà della nostra scelta palese.


Senza avversario non c’è lotta, senza lotta non c’è corona… e senza libertà non c’è dignità”. Raccomanda loro di non avere “che un cuore e un’anima “, e prosegue: ” Sono rovinato perché ho voluto essere utile a tutti; ho creduto a tutti e sono stato insensato: che voi siate meno imprudenti “; e conclude dando loro la sua benedizione.


Finalmente una nave di mercanti che trafficava con le isole britanniche era giunta al porto. Colombano e i suoi compagni si imbarcarono; ma quasi subito il vascello si trovò incagliato in un bassofondo; impiegò tré giorni a liberarsi, durante i quali il nocchiero, probabilmente per alleggerirlo, obbligò i monaci a scendere. Una volta a terra, le guardie della scorta apprendono che ormai Brunechilde, con Teodorico, è in guerra contro l’altro nipote, Teodeberto. Non era più il caso di preoccuparsi dei monaci: le guardie se la svignano, e si ritrova Colombano alla corte del re di Neustria Clotario II. Con ogni probabilità è allora che lo lascia uno dei suoi compagni, Potenziano, il quale si dirige verso Coutances dove fonda a sua volta un monastero. Colombano pensa di approfittare delle circostanze per compiere il pellegrinaggio a Roma che progettava da tanto tempo. Proprio nel momento in cui si mette in viaggio ha luogo un incontro indimenticabile nella storia della Chiesa; si ferma dal padre di un suo discepolo, Cagnoaldo, uomo importante nel regno di Borgogna, un leudo (in seguito si dirà un signore); ritroveremo più avanti quell’uomo, Agnerico; ora diremo solo che sua figlia Fara (Fare, Burgonfara), allora di dieci anni circa, pare prestare un’attenzione specialissima ai discorsi di Colombano, che prima di partire la benedice. Ma nel frattempo la situazione è cambiata, e il monaco viene richiamato in Austrasia, con l’argomento che le regioni montuose della parte orientale del paese sono ancora occupate da popolazioni semipagane.


Colombano risale la valle del Reno, e nei dintorni di Basilea (se dobbiamo credere alla tradizione) uno dei suoi compagni, Ursicino, si stacca dal gruppo per vivere in romitaggio nelle montagne del Giura sulle rive del Doubs; sarebbe questa l’origine dell’abbazia di Sant’Ursanna (cantone di Berna).


Risalendo la Limmat, e poi il lago di Zurigo, Colombano e i compagni che gli restavano si fermarono a Tuggen, dove ci furono scontri con la popolazione; una dei monaci, Gallo, gettò nel lago le statue degli dei adorati dai contadini della regione; era meglio non prolungare un soggiorno che diventava spiacevole. Più lontano, ad Arbon (Turgovia), sulla riva meridionale del lago di Costanza, guidati da Villimaro, un prete che li aveva accolti con grande cordialità, i monaci si dirigono verso un castrum abbandonato, Breghenza, Bregenz; in passato vi era stata dedicata una cappella a sant’Aurelia; gli irlandesi si proposero fermamente di rimetterla in funzione, e, dopo altri scontri fra Gallo, decisamente incorreggibile, e la gente del posto, Breghenza offrì il luogo per un nuovo monastero; e poiché miracoli e prodigi non mancano nelle storie di questi monaci, cadde (come nel famoso episodio biblico dell’Esodo) una pioggia di quaglie che per tre giorni permise ai monaci di interrompere un digiuno quasi permanente.


Intanto si ridestava l’ostilità che il re Teodorico e sua nonna (che nel frattempo avevano sconfitto Teodeberto) avevano dimostrato a Colombano; questi si sentì nuovamente in pericolo; d’altronde i suoi più prossimi vicini tedeschi apparivano mal disposti: si arrivò al punto di uccidere due monaci accusali di disturbare le cacce del signore del posto. Colombano capì che doveva ripartire, e il progetto del pellegrinaggio a Roma gli apparve nuovamente come la soluzione; ma il suo discepolo Gallo gli chiese di poter rimanere in quel paese, dove ben presto, grazie a lui, si sarebbe elevata una grandiosa abbazia – San Gallo – sempre presente nel mondo moderno con la sua magnifica biblioteca e i suoi edifici sontuosi, ricostruiti nel XVIII secolo. Infine un’altra separazione, quella del monaco Sigeberto, ha come conseguenza la fondazione dell’abbazia di Santa Maria di Disentis nei Grigioni, la quale conserva uno dei più bei soffitti romanici affrescati che siano rimasti in Occidente.


L’irlandese affrontava il territorio del re longobardo Agilulfo; quest’ultimo era ariano, ma sua moglie, la regina Teodolinda, era cattolica, e cercava di ricondurlo all’ortodossia cristiana. Dunque san Colombano valica le Alpi (probabilmente al colle del Bernina, a oltre 2300 metri di altezza), per arrivare infine a Milano. Ha settantadue anni. ” Nella corsa vertiginosa del tempo abbiamo raggiunto il triplo di sei anni olimpici ” scrive in versi latini a uno dei suoi discepoli, e aggiunge: “Vivi, vivi lietamente, e non dimenticare la triste vecchiaia “. Un paese tra Piacenza e Pavia, nella valle padana, ha il nome di San Colombano; forse vi si fermò? Quello che è certo è che nell’Italia settentrionale partecipa attivamente alla lotta contro gli ariani. Un giorno lo stesso re Agilulfo gli fa una proposta: gli è stata segnalala l’esistenza di una vecchia chiesa dedicata a san Pietro, nella valle della Trebbia, alla confluenza del torrente Bobbio; gliela donerebbe volentieri.


Una volta di più Colombano si mette all’opera con i suoi compagni. E un monastero sarà presto edificato in questa valle non lontana da Pavia. Nuovamente si verrà a cercarlo nel suo ritiro; il re Clotario II, che è diventato il sovrano di tutto il regno merovingio dopo aver fatto perire tra i supplizi la regina Brunechilde, manda da lui il suo discepolo Eustasio, abate di Luxeuil, per chiedergli di ritornare nel suo territorio; ma Colombano si doveva dedicare alla nuova fondazione, e d’altronde sentiva di essere giunto al termine della sua “corsa”; sarebbe morto la domenica 23 novembre del 615, e sarebbe stato sepolto a Bobbio.


Molto lontano di lì, una mattina il suo discepolo Gallo si svegliò dicendo al diacono Magnoaldo che l’assisteva: ” Prepara tutto quello che è necessario per celebrare la messa, poiché ho appena avuto una visione e so che il mio beato padre Colombano è morto “. Infatti Colombano, irritato perché Gallo aveva insistito per restare in Svizzera, gli aveva proibito di dire messa finché egli fosse stato vivo; ma prima di morire il patriarca aveva pregato i monaci che lo circondavano di donare al discepolo Gallo il suo bastone pastorale, cambutta, per dimostrargli il suo perdono. E Magnoaldo, tornato da Bobbio, lo consegnò a Gallo che sarebbe morto molto più avanti, a novant’anni, nel monastero fondato per sua iniziativa nella foresta di Arbon.


Ai nostri giorni Gonzague de Reynold ha sottolineato l’importanza dei grandi monasteri nella formazione della Svizzera: Reichenau, Fulda, San Gallo – a cui si aggiungono quello di Disentis fondato da Sigeberto, e infine San Maurizio d’Agaune. E’ ai monaci di Disentis, aiutati dalla gente del cantone di Uri, che si deve l’apertura della famosa strada del San Gottardo, col ponte sospeso sopra la vallata della Reuss, che, nel XII secolo, apre la comunicazione tra i paesi germanici e l’Italia. San Gallo resta famoso per i manoscritti irlandesi che si trovano tuttora nella sua biblioteca; un catalogo del IX secolo ne elenca trentadue; testimoniano dello straordinario virtuosismo dell’arte celtica nella sua epoca più grande, mentre la stessa abbazia contiene alcuni tesori della letteratura tedesca, a cominciare da due manoscritti della Canzone dei Nibelunghi.


Colombano è insieme asceta e profeta. È una specie di san Giovanni Battista destinato al deserto, all’esecrazione di coloro che detengono il potere, a una frugalità sovrumana e all’ammirazione delle folle. Il suo regime non è più sostanzioso delle cavallette e del miele selvatico del Precursore: l’acqua dei torrenti, le bacche dei cespugli e dei boschi, il pane d’orzo; e, per riposare le membra, una pietra coperta di paglia o di foglie secche. Nei monasteri che fonda il latte è una bevanda di lusso, e il pesce è riservato ai giorni di festa.


Ha la severità del Battista. Non stupirebbe sentirlo tuonare: “Razza di vipere, chi vi ha detto che scamperete dall’ira imminente?”8. E questa severità colpisce specialmente i grandi, coloro dai quali dipendono la sua sistemazione e persino la sua esistenza; con loro si mostra intrattabile; la storia del pasto inviato dal giovane re Teodorico che egli rifiuta è tipica. Talvolta questa severità sfiora persino l’ingiustizia – per esempio nel caso dei suoi rapporti col discepolo Gallo che gli tiene testa e a cui invierà il suo perdono solo in punto di morte.


E così più volte all’origine dell’evangelizzazione si incontrano questi esseri assoluti, senza concessioni e senza sfumature, duri con se stessi e anche con gli altri. Colombano ne è il modello. La sua vita è tutta dominata dall’immagine del Cristo redentore, completamente influenzata dalla croce, dai chiodi e dalle spine. Con lui la vita del monaco è una vita eroica, dove nessuno sforzo deve essere risparmiato, nessun atto di ubbidienza deve pesare. Ci è rimasta la regola di Luxeuil; ricorda anzitutto quel distacco che caratterizza il monaco: “Ricordati non di quello che sei, ma di quello che sarai; ciò che è non dura che un istante; ciò che sarà è eterno”; si avvale di parole grandiose: “Tu non hai nulla sulla terra, uomo; morrai nudo come sei nato, e il tuo corpo diventerà polvere… Guardati dal vendere il ciclo dov’è il tuo retaggio, e per l’eternità! Piuttosto vendi te stesso, e acquista la vita “. E in dieci capitoli tratta dell’ubbidienza, del silenzio, della povertà, di quello che deve essere il cibo e la bevanda del monaco, e la sua castità, la sua mortificazione, la sua preghiera, la sua discrezione, la sua perfezione. Il tutto accompagnato da energiche sanzioni; un solo pasto nella giornata verso le tre del pomeriggio, prima del quale (come prima di dormire) ognuno dovrà “battersi il petto”, secondo l’espressione che resterà in uso, accusarsi davanti a uno dei confratelli delle sue negligenze o imperfezioni. Sono previste punizioni: digiuni a pane e acqua, colpi di verga, ma, soprattutto, “il chiacchierone sarà condannato al silenzio, il violento alla dolcezza, il goloso al digiuno, il pigro a vegliare, l’orgoglioso alla prigione, il traditore al disprezzo e all’espulsione”. D’altra parte la segregazione è severa; nessun laico penetrerà nel monastero, e il monaco potrà corrispondere con i laici, compresa la sua famiglia, solo col permesso del suo superiore; raccomanda ai suoi discepoli di essere “austeri nella tenerezza, teneri nell’austerità”.


Si ha l’impressione che nulla possa resistere a un essere come Colombano; che egli riesca a domare persino le forze naturali; la storia dei lupi furiosi che si disperdono, quella dell’orso con cui divide la grotta dove si ritira di tanto in tanto, evidenziano il carattere tipico del personaggio; il suo discepolo Domoalo si lagna di dover andare ogni giorno a prendere l’acqua molto lontano; Colombano gli ordina di scavare nella roccia, e subito l’acqua zampilla; un altro discepolo, Teudegisilo, si taglia un dito col falcetto; di lontano Colombano gli grida di continuare il suo lavoro, e la falange che era solo trattenuta dalla pelle si riattacca da sola; un’altra volta, mentre è ritirato nel suo romitaggio, Colombano apprende che a Luxeuil la maggioranza dei monaci sono malati al punto che i sani non sono più sufficienti per curare quelli che hanno la febbre; arriva, ordina a tutti di alzarsi e di andare subito a battere il grano sull’aia; ebbene, tutti quelli che lo ascoltano si alzano e lavorano, sono guariti. Nulla gli resiste.


Questo atteggiamento di precursore, di iniziatore, corrisponde ai bisogni dei tempi. Infatti, quando sbarca sulle rive della Gallia, Colombano si ritrova in un paese dove deve essere ripresa l’opera di un san Martino: nel frattempo ci sono state incursioni di invasori. Martino è morto nel 397; sono trascorsi duecento anni o quasi, densi di violenze, saccheggi, dispersioni, e squilibrati in tutti i modi. Evidentemente la conversione di Clodoveo alla fede cattolica e il suo battesimo verso il 496 non sono bastati per instaurare o affermare il Vangelo, tanto più che l’eresia ariana, che, a parte i franchi, è professata dalla maggior parte degli invasori, nega l’incarnazione, ossia la fede in un Dio d’amore. In questo inizio di riconversione occorreva tutto l’ardore intransigente di Colombano, per ridare vigore, nel VI secolo, alla Chiesa in Francia, e inoltre in Belgio, in Svizzera, in Italia.


D’altronde poco mancò che nuove eresie comparissero con l’arrivo degli irlandesi. Infatti costoro seguivano un uso particolare per datare la celebrazione della Pasqua, come avevano la loro propria maniera di portare la tonsura monastica. La questione, a lungo controversa, era stata risolta una prima volta a Roma e in tutto l’Occidente con il concilio di Nicea del 325; e all’inizio del VI secolo i calcoli di un monaco, Dionigi il Piccolo, avevano stabilito definitivamente il calendario liturgico generalmente seguito. Ma gli irlandesi avevano conservato il ciclo anteriore a questa riforma del calendario, nel tempo in cui erano stati evangelizzati da san Patrizio; più volte san Colombario si rivolse al papa per esortarlo a decidere fra i due usi, poiché i vescovi burgundi e i loro diocesani si stupivano delle divergenze che constatavano a Luxeuil. Di (atto la questione fu risolta solo a metà del VII secolo, in un concilio riunito a Whitby sotto l’egida della badessa llda, che pose fine alle peculiarità degli irlandesi e in genere degli insulari.


Inoltre il senso del peccato e della penitenza induce Colombano a diffondere nella Chiesa la confessione; non che l’abbia inventata, poiché se ne può notare l’origine nei testi più antichi come la Didaché, naturalmente senza parlare dello stesso Vangelo; ma l’influenza degli irlandesi in genere, e di Colombano in particolare, contribuisce a diffondere, a divulgare la confessione delle proprie colpe; non senza alcuni abusi, poiché, a somiglianza della regola che elencava le penitenze corrispondenti a ogni colpa, si diffondono quelle specie di tariffari che sono chiamati ” penitenziali”: ebbrezza, furti, spergiuri, colpe di ordine sessuale sono così elencati con ammende proporzionate alla gravità dei crimini; si tratta di tariffari forse paragonabili a quel guidrigildo che è applicato dalle diverse leggi civili.


Tali penitenziali si diffondono nei secoli VII e VIII; gli ultimi sono stati probabilmente compilati all’inizio dell’XI; introducevano, accanto a un affinamento della coscienza religiosa, una specie di contabilità che era ben poco compatibile con il ricorso alla grazia divina: certi penitenziali assomigliavano a un listino di prezzi. Resta il fatto che l’influenza di Colombano contribuì a diffondere e divulgare la confessione. Il concilio di Chalon, nel 650, la raccomanda a tutti i fedeli. Il nostro tempo preferisce il divano dello psicanalista, certo più confortevole, e che non impegna affatto; ma non pare che abbia mai liberato veramente la persona dal suo passato (del resto è noto che la psicanalisi, in linea di principio, verte sulle sfere dell’inconscio, mentre la confessione si interessa solo di ciò che appartiene pienamente alla coscienza).


L’opera di Colombano può essere apprezzata solo se si guardano le opportune carte; come si è visto, la sua stessa vita è un itinerario; i suoi discepoli schizzano tutta una geografia dell’Europa che potrebbe presentare altrettanto interesse quanto la geografia politica; contrariamente a quest’ultima, non conosce frontiere; invece reca ovunque le testimonianze di una fecondità artistica che per- mane o nella forma di sculture, oppure, più raramente, nei manoscritti conservati nelle nostre biblioteche. Le une e gli altri ci permettono di penetrare nello spirito dell’arte romanica: i suoi temi decorativi sono un po’ come le note musicali, semplicissimi in se stessi ma incessantemente rinnovati nei loro accordi o rapporti, e creano una continuità, un’unità possente che si scopre ancora nello spazio percorrendo l’Europa, poiché ha lasciato ovunque le sue vestigia. Infatti gli irlandesi rinnovavano con forza la vena celtica, per qualche tempo eclissata dall’arte classica greco-romana, nella Francia, nella Spagna, nell’Italia; il senso cristiano le conferiva un afflato nuovissimo, e quella specie di impetuosità che diffondevano i monasteri e i loro asceti dalla fronte nuda insufflava in quel movimento artistico una vita incomparabile. Là dove altri si accontentano di essere artisti, il monaco irlandese diventa virtuoso; lo testimonia il più noto di questi manoscritti, il famoso Libro di Kells, accumulando spirali e arabeschi; ma questi stessi temi, semplici capriate coi nastri pieghettati, palmette, tortiglioni, intrecci, decorazioni a squame, eccetera, che talvolta assumono la forma di fogliami o di animali reali o fantastici, e che trattano nella stessa maniera ” astratta ” persino la figura umana, permangono ancora oggi persino in chiesette di campagna, e per oltre seicento anni hanno animato tutto l’ambiente artistico, tutta la creazione artistica dell’Europa: scultura, pittura, smalti, oreficeria.


Abbiamo già ricordato il ruolo svolto nell’evoluzione della Svizzera. In tutta la parte settentrionale della Francia come nel Belgio, le tre fondazioni di Annegray, Fontaines, e soprattutto Luxeuil, si sono irradiate in maniera sorprendente e affermate con estrema rapidità; ogni fondazione è subito ripresa da monaci reclutati sul posto e che a loro volta vivono e diffondono la Buona Novella. Si possono collegare direttamente alla discendenza di Colombano coloro che, come Eustasio, e poi Valberto, gli succedono a Luxeuil, o quelli che, come Bertario a Montier-en-Der o Romarico a Remiremont, erano stati formati nella stessa abbazia; e ancora san Valerio (Valéry), che lascia il suo nome alla località situata alla foce della Somme; Audomaro (Omer), che fa lo stesso un po’ più a nord, dopo essere stato vescovo di Thérouanne (la vecchia città che raderanno al suolo le truppe di Carlo V, nel XVI secolo); è sant’Audomaro che ordina sacerdote colui che diventerà san Vandregisilo, mentre Filiberto, non lontano, fonderà Jumièges e anche, sull’Atlantico, Noirmoutier; analogamente san Berlino (Bertin) darà il suo nome all’antica abbazia di Sithiu, e Amando, l’apostolo del Belgio, è sostenuto nella sua missione da san Colombano.


Ma occorrerebbe svolgere ulteriormente il tema di questa discendenza. Quanti irlandesi come Colombano, e spesso seguendo il suo esempio, si trovano alle origini dello straordinario sviluppo della Chiesa cristiana nel VII secolo? Si tratta di un fenomeno geograficamente abbastanza curioso, poiché induce a rovesciare completamente le nostre abitudini mentali che fanno provenire ogni ispirazione, ogni “influenza” dalle regioni meridionali: dalla Grecia, da Roma, dal Vicino Oriente. Ora tutta la geografia del mondo conosciuto durante il periodo che va dal V al VIII secolo proviene da una corrente che giunge da occidente, dal mare d’Irlanda, e che “attacca” sul suolo europeo con una facilità incredibile. Vogliamo delle cifre? Le ha raccolte Bernard Guillernain; centoquindici santi irlandesi in Germania nei secoli VI e VII, quarantacinque in Francia, quarantaquattro in Inghilterra, trentasei in Belgio, venticinque in Scozia, tredici in Italia! Molto più importanti delle cifre sono i nomi, le fondazioni, il retaggio dei ricordi. Nel museo di Reims esiste un bellissimo pezzo di legno scolpito che è chiamato il bastone di san Gibriano; è ancora un irlandese; la tradizione riferisce che erano dieci fratelli, sette ragazzi e tre bambine; in ogni caso siamo sicuri dell’esistenza di Tresano, uno dei fratelli di Gibriano; entrambi furono ordinati sacerdoti, quest’ultimo da san Remigio, dunque all’inizio del VI secolo.


Gibriano morì nel 509, ma un villaggio porta ancora il suo nome, sulle rive della Marna, vicino a Chàlons. Curiosamente, mentre la cappella dove era stato sepolto era devastata e bruciata dai normanni, verso 1’892, Gihnano diventava nuovamente popolare (se così possiamo dire) nel XII secolo. Sotto le macerie della cappella era stato ritrovato il suo corpo, intatto; all’inizio del X secolo la reliquia era stata trasportata sotto l’altare dell’abbazia di Saint-Remi; l’abate Oddone (1118-1151) decise di effettuare il riconoscimento e la traslazione della reliquia di san Gibriano; un giorno, dopo un pellegrinaggio a Roma, ordinò una nuova cassa a un certo Uberto, che si era rifugiato nel territorio dell’abbazia di Saint-Remi, per sfuggire alla giustizia; perseguito per non si sa quale crimine, vi godeva del diritto d’asilo, e, poiché era orafo di mestiere, fabbricò la nuova cassa di san Gibriano.


La traslazione ha luogo il 16 aprile 1145, e da allora i miracoli si moltiplicano sulla tomba del santo, al punto che le folle invadono il borgo di Saint-Remi, vicinissimo a Reims. Allora l’abate Oddone incarica un monaco chiamato Baldovino di registrarli; dal 16 aprile al 24 agosto ne annota centodue: guarigioni di malattie mal definite; molte sono paralisi; in sedici casi si tratta di ciechi, in otto di folli; i miracolati sono talvolta chierici, in due casi nobili, per lo più “poveri uomini o donne”. Il santuario di Saint-Remi è invaso dalla folla al punto che i monaci devono lasciare i loro posti abituali e cantano l’ufficio in piedi, in mezzo al coro. La domenica 29 aprile il monaco è sopraffatto dalla quantità dei miracoli e dichiara di non averli potuti registrare tutti, anche perché molti hanno avuto luogo tra la folla o all’esterno della chiesa.


È così che san Gibriano si manifesta nella regione di Reims, seicento anni dopo la morte. Non tutti i suoi compatrioti conoscono lo stesso sussulto di gloria, ma per la maggior parte non cessano di essere onorati nel corso dei secoli feudali. Nello studio dedicato alle origini del monachesimo nella diocesi di Besançon, Gerard Moyse ha mostrato ciò che la vita religiosa nel periodo dell’Alto Medioevo (secoli V-X) debba agli irlandesi, specialmente a Donato, prima monaco di Luxeull e poi vescovo di Besançon nel VII secolo. Esprime una caratteristica dell’epoca il fatto che i membri della gerarchia ecclesiastica siano spesso reclutati tra i monaci – a cominciare dal primo di loro, papa Gregorio Magno, che era appunto un monaco, come è noto.


Donato è figlio di Valdeleno e di sua moglie Flavia; abbiamo detto come la sua nascita fosse attribuita alle preghiere di san Colombano. Rimasta vedova, Flavia fondò un monastero femminile a Besançon (verso il 636); lo stesso Donato redasse per un altro monastero, Santa Maria di Lussa-Moùtier, una regola che è la prima formulala appositamente per le monache di clausura, dopo quella di san Cesario di Arles; ed è conservata tuttora. Il fratello di Donato, che ha certamente un nome meno comune, Chramnelenus, Cramneleno, ha fondato a sua volta un monastero affidato a un monaco chiamalo Siagrio; quello di Romainmótier, probabilmente verso il 630, dove risiederà san Vandregisilo, e dove si ergerà, un giorno, una bellissima chiesa. Infine Donato era parente di un certo Amalgario, la cui figlia Adalsinda fu badessa di un monastero di suore di clausura che oggi non è facile collocare.


Sono ancora irlandesi i due monaci Caidoco e Fricor, che ebbero un’influenza importante sul futuro san Ricario (Riquier); oppure, a Fosses nel Belgio, i tre fratelli Furseo (Furcy), Foillano e Ultàn; e ancora – più tardi – quel Findano (Fintano) allevato dai normanni che sbarcò in Scozia a metà del IX secolo, partì per Roma, e dopo essersi soffermato per qualche tempo nel monastero di Farfa sì stabilì sul Reno, nell’isola di Rheinau; sono stati conservati un suo calendario e un messale, rispettivamente a Zurigo e a San Gallo, nonché una regola che lasciò ai suoi compagni e che si ispirava a quella redatta da san Colombano per Luxeuil.


Si ritrovano monaci irlandesi anche in Alsazia, a Saint-Dié, in Borgogna, nel Brabante, e la loro influenza sarà sensibile persino nel vasto complesso monastico di Saint-Jean-de-Laon; si diffonderà in tutta la Brie, al punto che occorrerà dedicare un capitolo speciale alla discendenza spirituale di Colombano in quella regione.


Ma è bene constatare in primo luogo, attraverso la ricchezza di tali fondazioni, l’apporto recato al mondo medievale da questi uomini di cui è attestata l’attività agricola ed edilizia, non meno che il grado di cultura intellettuale. Ora si tratta di un mondo in cui il lavoro manuale resta considerato come un compito inferiore, quello dello schiavo; oggi non ci è facile capire l’importanza della rivoluzione silenziosa compiuta da quei monaci che aprivano radure a colpi di ascia, dissodavano, seminavano e raccoglievano; la storia economica e sociale dovrebbe rendere loro omaggio. Un monastero è in primo luogo un posto dove gli uomini vivono del lavoro delle loro braccia, e l’abate partecipa alle attività materiali proprio come gli altri. Coltivare il frumento o l’orzo, le verdure di cui si nutriranno i monaci, è una delle preoccupazioni dei primissimi tempi delle comunità di Annegray e di Luxeuil; e occorrono il piccone con cui lavorare la terra, il flagello con cui battere il grano sull’aia, e si parla persino di guanti da lavoro, poiché un giorno un curvo porta via quello di Colombano e glielo restituisce per suo ordine. Il lavoro manuale è ormai onorato, l’uomo di Dio è colui che lavora con le mani. Erano così gettate le basi di una mentalità assolutamente nuova.


Impossibile esagerare l’importanza di questa rivoluzione del costume: il lavoro manuale, dello schiavo (si dice ancora “i compiti servili”), aveva un aspetto degradante. Sappiamo che molti di quei “barbari ” che popolavano allora la Gallia e gli altri paesi dell’Occidente erano stati chiamati come lavoratori agricoli da coloro che si rifiutavano di lavorare la terra (è il caso dei burgundi, per esempio); c’era dunque un disprezzo profondamente radicato per tutto ciò che implicava uno sforzo fisico. Ed ecco che quegli uomini votati a Dio non si accontentavano della contemplazione, dello studio della Sacra Scrittura, della preghiera liturgica o personale, ma si dedicavano ai compili più “bassi”. Gli studiosi che oggi sono sensibili all’aspetto economico della storia possono apprezzare il cambiamento che deriva da quella nuova condizione mentale, vedere nel monastero un centro di produzione, apprezzare l’importanza che vi si attribuisce agli arnesi di lavoro, che sono menzionati spesso, per esempio nella vita di san Colombano: le asce e i cunei per il legno, i falcetti per mietere, i carri per i trasporti, tutta questa tecnologia che si sviluppa, poiché si cerca di evitare la fatica degli uomini e di semplificare il loro lavoro affinché possano dedicare maggior tempo alla lettura e alla preghiera. Ed è così che il mulino, la grande invenzione di quel tempo, è menzionato per la prima volta a proposito di un monastero, Saint-Ours di Loches.


Il lavoro manuale è indicato nella Regola di san Benedetto, dove occupa un intero capitolo (il XLVIII). Leggiamo: “Sono veramente monaci se vivono del lavoro delle loro braccia”; e si precisa, con lo spirito di moderazione che caratterizza questa Regola: ” Ma tutto deve essere fatto con misura, poiché ci sono persone deboli “.


E’ normale citare a questo punto la Regola di san Benedetto, poiché sarà ben presto adottata dai monaci di Luxeuil e da quelli della linea di Colomhano; lo studio di Gerard Moyse ha mostrato come la Regola di san Benedetto fosse conosciuta fin dal tempo dello stesso Colombano, sebbene si sia imposta a Luxeuil solo sotto l’abate Valberto, il secondo successore del grande asceta irlandese; uno studio dettagliato dei testi che rivelano l’adozione di regole benedettine gli permisero di concludere: ” Dal 620 o 632, e per un secolo, si enuclea una combinazione privilegiata per cui l’asceta Colombano è inquadrato dall’organizzatore Benedetto”10. La Regola di san Benedetto, a sua volta ispirala in gran parte al testo chiamato Regola del Maestro, che la precede di poco, rappresenta un tale equilibrio, una proporzione così felice di fervore e di distribuzione intelligente dei ruoli all’interno del monastero, dell’organizzazione del tempo dei monaci, dei bisogni profondi di una comunità, che sarà adottata un po’ dappertutto in Occidente. Essa consacrava, per così dire, il lavoro manuale, esplicitamente menzionato; l’influenza esercitata sulla mentalità generale permarrà al termine dell’età feudale – comunque fino ai primi anni del XIV secolo. L’influenza crescente del diritto romano in seguito farà risorgere – sebbene molto gradualmente, a poco a poco – quel disprezzo del lavoro manuale che aveva caratterizzato la civiltà classica, cosi come rinascerà lo schiavismo, nel XVI secolo.


Dobbiamo aggiungere un altro effetto della Regola di san Benedetto: la stabilità che esige dal monaco; fin dal primo capitolo sono condannati quei monaci erranti che passano da un monastero all’altro, come lo sono quelli che si pretendono monaci, ma non si costringono a nessuna regola, e in realtà vivono secondo le proprie fantasie, coloro la cui tonsura è una menzogna; non si tratta certo di una condanna di quella itineranza che ha caratterizzato i santi irlandesi e ha permesso la straordinaria espansione del monasteri nei secoli VI e VII e anche più tardi nell’Occidente; è una nuova tendenza a una vita più regolare e meglio organizzata che si afferma nel movimento monastico.



Regine Pernoud,


I santi del medioevo, edizioni Rizzoli, Milano 1986, traduzione di Anna Marietti, pagg. 72-92