La proprietà e il comunismo.

Di P. L. Taparelli d\’A. S.J. La proprietà ha varii gradi: la persona umana è inalienabilmente padrona delle proprie facoltà, le quali formano una sola cosa con esso lei: ed è padrona, ma alienabilmente, dell\’esercizio di sue forze, e dei frutti materiali che ne risultano; cotalchè può valersene o donandoli per ottenere in contraccambio altri frutti, o impiegandoli a perfezionarsi coll\’esercizio di virtù morali. Dunque se col secondo giudizio l\’uomo si trova obbligato a retribuire l\’altrui, questa retribuzione sarà dovuta ugualmente e all\’esercizio delle forze altrui, ossia al lavoro, e ai frutti materiali da lui ottenuti o col lavoro immediatamente, o colla permutazione.

LA PROPRIETÀ E IL COMUNISMO
(
sulle teorie del valore)
«La Civiltà Cattolica», 1857, a. 8, Serie III, vol. V, pp. 269-279, pp. 385-403.

AVVERTENZA

Chi scrive pel comun della gente dee di necessità alternare e i soggetti, e le forme, sotto cui quelli si presentano, per soddisfare tutti a vicenda. Persone dotte si lagnarono talvolta che materie gravi siensi trattate a dialogo: altri ci scrissero chiedendo che così si trattino almen qualche volta. Come contentare entrambi? Non veggiamo altro modo che l\’avvicendare. E poichè le Due Economie incedevano con gravità di dissertazione accademica, si permetterà alla Proprietà di discorrere un po\’ più alla famigliare bazzicando per le piazze e pei caffè. Certamente se vi sono materie a cui il dialogo non disconvenga, sono le economiche, le quali s\’intrecciano sì facilmente alle faccende più pratiche e triviali del vivere domestico. E di dialoghi appunto si dilettò a giorni nostri non poco quel valentissimo economista che fu Federico Bastiat, il quale credette anzi di mettere con essi la verità in maggiore evidenza.
Vero è che lo scopo, diversissimo dal suo, con cui noi tocchiamo quelle teorie, non ci permette mai d\’ingolfarci nelle concretezze più pratiche della scienza, le quali al cospetto del Cattolicismo sono per lo più indifferenti. Cionondimeno è indubitato che le teorie economiche, anche nelle loro attinenze col Cattolicismo, entrano più facilmente nelle idee comuni, almeno fra cattolici, e però al dialogo si acconciano, senza inconveniente.
Servaci questo di scusa presso i dotti più severi: il desiderio d\’esser letti da molti potrà meritarci la loro indulgenza.

DIALOGO I.
Saggi delle dottrine correnti.

Correva quel freddissimo inverno in che nel Decembre del 1855 anche l\’Italia nostra parve trasportata in Siberia; e al finire di una seduta accademica di scienze morali dell\’Istituto di Francia, scendeva dalla sala ben bene imbacuccato nel suo mantello il cavalier F…. italiano; il quale ito a Parigi per l\’esposizione universale, dimoravasi colà tuttavia per ismaltire, se gli fosse possibile, alcuni prodotti dell\’industria piemontese a lui raccomandati. L\’arrestava all\’ultimo gradino uno degli accademici suo familiare che col piè sul predellino della carrozza l\’afferra gentilmente e ve lo spinge il primo, renitente indarno per cortesia.
Accademico. E dove volete andare a quest\’ora per codeste vie di Parigi a inzaccherarvi infin sulle spalle? e poi con questo freddo!
Cavaliere. Veramente oggi è proprio rigido: e, sia detto senza vostra offesa, una seduta di scienze morali non è atta ad alzare il termometro.
Acc. Certamente, una seduta del Congresso americano scalderebbe un po\’ meglio.
Cav. Specialmente quando gli Onorevoli vengono ai pugni o alle bastonate. Pure quest\’oggi il ghiaccio accademico ha dato anch\’egli qualche scintilla, fenomeno, come sapete, poco ordinario: la Memoria del Gasparin… l\’avete udita?
Acc. No, non son giunto a tempo.
Cav. Egli ha letto una Memoria intorno all\’appropriamento del terreno che parve elettrizzare i colleghi; e più d\’uno… Si vede che voi altri qui in Francia avete gran paura del Comunismo.
Acc. Eh! caro cavaliere, se vi ci foste trovato anche voi ai palpiti del 2 Dicembre, stupireste del nostro coraggio, non della nostra paura. Dio buono! da un momento all\’altro la Francia poteva diventare un cratere di vulcano e un lago di sangue.
Cav. E a codeste belve, a codeste fiamme voi credete fare argine con le dissertazioni accademiche?
Acc. A dirla tal quale: nei momenti del terror panico tutta la Francia fu concorde nel lanciarsi tra le braccia delle due supreme Forze, Religione e Milizia: il dittatore e il prete divennero quasi gl\’idoli della Francia.
Cav. Sicuro! mi ricordo che allora il Debats la faceva da picchiapetto, e la Revue des deux mondes biascicava articoli del Véuillot.
Acc. Contrizione del marinaio! L\’urgenza del pericolo è passata, e costoro tornano a bestemmiar come Turchi. Né si avvedono che adesso appunto sarebbe il momento di ridestar nel popolo i sentimenti religiosi per distornare dalle nostre teste la bufera che ingrossa e minaccia. Lasciare che si pervertano le idee del popolo nei giorni tranquilli colla speranza di rettificarle poi nei dì del delirio, qual fanciullaggine! quale stoltezza! (1)
Cav. No, caro mio! non vi date a credere che essi siano così stolti ed improvvidi: vorrebbero sì raddirizzare le teste: ma temono l\’influenza del prete, e però invece di missioni e catechismi si raccomandano a dissertazioni e ad accademici.
Acc. Appunto: e il Thiers, il Guizot, il Bastiat e tutta la nuvola dei giornalisti non rifinano d\’infilzare esortazioni e sillogismi per convincere e persuadere il popolo.
Cav. Poveri ciechi! Eppure oh se sapeste con quanta poca fiducia testé parlava di coteste esortazioni il Gasparin! La scienza economica, diceva, ove trattasi di capital fondiario e di rendita, è un caos tenebroso malamente inorpellato colle leggiadrie dello stile e coll\’apparato scientifico delle parole (2). Ora se le dimostrazioni degli economisti sembrano un caos agli stessi loro confratelli, pensate che impressione faranno nel volgo dei comunisti, cui riuscirebbero oscure perfino le dimostrazioni di Euclide!
– Queste ultime parole dicea il cavaliere nell\’atto che la carrozza si fermava avanti ad un caffè al Boulevard des Italiens: ove congedarono il povero cocchiere per non lasciarlo a soffiarsi sulle dita sotto dieci gradi di freddo: ed essi ritiratisi in un gabinetto dei più appartati, proseguivano così il loro intertenimento.
Acc. Avrà egli almeno supplito alla fiacchezza degli argomenti altrui con qualche trovato novello.
Cav. In verità se gli economisti non trovano puntello migliore, ho gran paura che l\’edifizio sociale abbia ben presto a crollare. L\’argomento era sì fiacco, che gli stessi suoi colleghi… M\’ha fatto ridere la gentilezza con cui voi altri francesi trasformate una censura in un complimento: il Dunoyer, il Cousin gli dissero in sostanza che nella dissertazione mancava il senso comune (3): ma glielo dissero con tal garbo, che quel buon galantuomo non parve avvedersene.
Acc. Ma in somma qual era il tema?
Cav. Ecco. Dopo aver deplorato codesto caos degli economisti nel determinare le basi della proprietà fondiaria, egli ha preso a dimostrare quest\’accusa con lo stabilire due punti. Voi sapete che gli economisti concedono generalmente il possedimento delle terre più fertili essere un monopolio; ma naturale, necessario, inevitabile: e molti di essi aggiungono col Ricardo, che una parte almeno della rendita, chiamata dal nostro Scialoia, l\’estaglio (4), nasce appunto da codesto monopolio, preoccupato dai primi che s\’impossessarono dei terreni più fertili. Una tal dottrina era, secondo il Gasparin, un\’arma presentata dall\’Economia ai comunisti: i quali non senza ragione potevano con questa alla mano volgersi agli abbienti colla fronte alta e gridare: «Olà! qual diritto avete voi di appropriarvi soli quel terreno che natura ha donato agli uomini tutti»? Hanno bel rispondere gli economisti che codesto monopolio è necessario; che la terra senza proprietario non sarebbe coltivata. La replica dei comunisti è chiara «Quando è così, la faccenda sarà presto aggiustata e a tutto rigor di giustizia. Il monopolio, secondo voi, è necessario perchè si coltivi la terra? Sia pure; ma in tal caso cedeteci per qualche anno il monopolio di cui da tanti secoli avete goduto voi; e noi per turno sottentreremo al carico di far coltivare i terreni». Che volete rispondere, domandava il Gasparin , a codesto argomento?
Acc. Certamente ch\’esso è gagliardo, quando si è conceduto che la terra è di tutti, e che la ricchezza è il fonte d\’ogni beatitudine. E il Gasparin come lo ha confutato?
Cav. Collo stabilire appunto le due proposizioni contrarie a quelle sostenute dagli economisti. No, ha egli detto, la proprietà delle terre non è un monopolio; e la loro rendita o estaglio non nasce dalla maggiore fertilità come vorrebbe il Ricardo (5).
Acc. Non può negarsi che la teoria, checchè sia di sua verità, non manca almeno di novità.
Cav. Il disserente infatti lo ha confessato (6). Ma la novità non gli ha tolto il coraggio: ed ecco com\’egli e entrato in materia. Il Bastiat, diceva, ha chiaramente stabilito che nei primordii della società il primo occupatore di un terreno, se volesse rivenderlo, non otterrebbe altro prezzo dal compratore, se non quello delle spese, già da lui anticipate, di prima coltura. Se pretendesse una giunta, ogni compratore lo ricuserebbe, giacché «qual bisogno ho io, risponderebbe, del vostro terreno? Non mi si apre qui tutto intorno un campo immenso a dissodar nuove terre, senza altra spesa che quella della prima coltura?» Dunque, concludeva col Bastiat il Gasparin, in quel primo periodo di civiltà la fertilità della terra non entra per nulla nel valore di cambio: i doni di Dio gratuitamente ricevuti, gratuitamente si trasmettono nella vendita.
Acc. A dir vero, l\’argomento mi sembra un po\’ zoppo; giacchè abbraccia ad un tempo e il valor delle terre e il valor delle derrate, dono di Dio le une e le altre. Al più potrebbe valere nel rivendere la terra: giacchè quando se ne vendono le derrate, chi può negare che la fertilità del suolo, il dono di Dio, abbia accresciuta la messe oltre la proporzione dei sudori? Ma la terra stessa quanto tempo durerà in cotesta condizione? Vi durerà finché dura la prima occupazione. Ma occupate le terre tutte, l\’argomento perderebbe ogni forza.
Cav. E lo confessa appunto il Gasparin: il Bastiat, dice egli, soprappreso dalla morte al principio del suo raziocinio, non potè compiere la dimostrazione: a noi tocca adesso il continuarla (pag.44), universaleggiandola ad ogni periodo della società.
Acc. Non so quanto sia giusto il dire che il Bastiat sia stato interrotto dalla morte nel suo raziocinio. A me certo sembra che egli dicesse tutto il dicibile: e se non riuscì a persuadere, ciò nasce dalla falsità dell\’assunto, non dalla mancanza di tempo e di vita. Ad ogni modo sentirò volentieri come abbia supplito il Gasparin.
Cav. Ecco come egli ha continuato. «Fate che intorno al primo occupante altri si siano raggranellati, ed abbiano formato una borgata centrale, ove sieno raccolte le industrie più necessarie alla vita. Formato così questo centro, e occupati tutti i terreni all\’intorno, se altri volesse aggregarvisi, comprando a tale intento qualche parte di quei terreni già occupati; donde verrebbe a fissarsene il valore? Non d\’altronde, diceva, che dalle fatiche dei primi proprietari. Infatti, soggiungeva, per istabilire relazioni sociali, per amministrare gl\’interessi comuni d\’ordine o materiale o morale, ci vuol tempo e fatica: questo tempo e questa fatica sono immobilizzati su quelle terre. Dunque chi le rivende non esercita un monopolio della fertilità gratuita data da Dio alla terra, ma si fa pagare oltre le spese di coltura, il tempo e la fatica del fondare una società (7).
Acc. Oh! oh! codesta sì ch\’è nuova davvero! Mentre da un canto si vuol togliere dal mercato la fertilità della terra, e ridurre le fertili al prezzo delle lande, si vorrebbe introdurre nel mercato e attaccare alla gleba la religione, la moralità, l\’urbanità dei primi occupanti! Che il comodò di una strada, di una chiesa, di una borgata vicina renda più pregevole un terreno, sapevamcelo senza dimostrazioni accademiche. Ma che questo maggior prezzo sia un pagamento del tempo impiegato dai primi occupatori nell\’adempiere i loro doveri e religiosi e morali e civili; questa in verità è teoria curiosa: secondo la quale le terre dei miscredenti, degli scostumati, degli screanzati dovrebbero valer meno delle altre.
Cav. Eppure (vedete dove ci strascina la mania di calcolare ogni cosa in lire, soldi, e danari!) l\’Autore credendo aver dimostrato la sua tesi, dopo avere ribadita la prova medesima per un mezzo quarto d\’ora, concludeva che tanto vantaggiano nella produzione delle biade i possessori delle terre di prima qualità, quanto i possessori dell\’ultima; compensati entrambi ugualmente alla stregua del lor faticare (8). E per rendere la sua dottrina ancor più universale passava dal capitale d\’agricoltura al capitale di commercio, e attribuiva al negoziante l\’aumento dei suoi capitali come lucro delle fatiche da lui impiegate nel favorire i generali interessi dei suoi concittadini (9): cotalchè, come vedete, la cortesia, la buona fede, l\’onestà e le tante altre doti morali da cui nasce per un negoziante l\’affluenza di numerosa clientela, vengono pagate anch\’esse nel prezzo delle sue mercanzie.
Acc. Con tali idee non mi meraviglio che i suoi colleghi accademici abbiano augurato all\’Autore della Memoria un po\’ più di riverenza verso il senso comune. Come! Sono 6000 anni che gli uomini vanno in cerca dei terreni più ubertosi, pronti a pagarli a proporzione delle biade che vi raccolgono, e voi venite a raccontarmi che la fecondità della terra non entra per nulla in questo negozio! E invece volete mettere in vendita l\’adempimento personale dei doveri morali e religiosi, per dare ad intendere ai comunisti che il possedere la terra non è vantaggio degli abbienti! Davvero, che se i comunisti si persuadessero, sarebbero i gran dabben uomini!
Cav. Il fatto sta, che quando si rinunzia al senso comune non si persuadono né i demagoghi né gli assennati. Infatti il Cousin, sì gran campione in altri tempi dell\’universale uguaglianza, ha deplorato le sottigliezze con cui si pretendea bandire dalla società quella naturale disuguaglianza che egli chiama gerarchia sociale, invece di giustificarla con ragioni volgari ed evidenti, le quali, sembrano forse triviali perchè tutti le intendono; ma in verità son le sole che abbiano qualche valeggio (10). Ma tant\’è; certe teste hanno bisogno di paradossi per dar mostra di sè; e fra codesti accademici di scienze morali non è solo il Gasparin che ricorra a tale industria per acquistarsi rinomo.
Acc. Perdonate, caro cavaliere; ma il vostro giudizio mi sembra un po\’ severo. Uso a vivere nella vostra bella Italia, ove sotto il manto del Cattolicismo il senso comune si conserva nel popolo, se non inviolato, certo almeno reverendo ad imperiare e robusto a protestare contro i traviati; quando udite certe stranezze, voi vi date tosto a credere che sieno trovati dell\’orgoglio che pretende singolareggiarsi, mentre sono in verità miseri stramazzoni della ragione infiacchita per la perdita delle verità rivelate.
Cav. E voi credete che ci voglia la rivelazione per sapere che un terreno fecondo val più che uno sterile!
Acc. Non dirò che sia necessaria per questo: ma credo non pretendere il soverchio se la dico necessaria ad assicurare fra gli uomini quei primi principii, obliati i quali, il dotto è poi costretto a tracciar paradossi per giustificare con dimostrazioni le verità più pratiche e più necessarie. Infatti nel caso nostro, donde nasce questa smania di rendere il prezzo delle terre indipendente dalla loro fertilità? Nasce, come diceva il Cousin, dalla smania di universale ed assoluta uguaglianza: dal non volere ammettere la vecchia teoria della essenziale disparità di condizioni. Ora, potete voi negare che la rivelazione cristiana sia la sola che di codesta disparità sappia rendere ragioni soddisfacenti?
Cav. Lungi dal negarlo,vi dirò che mi ha cagionato gran piacere l\’udirlo colà nell\’Accademia affermato dal Cousin medesimo (11).
Acc. Così succede a codesto filosofo, come a tutti i grandi ingegni, ma traviati. Di tanto in tanto s\’innalza imperiosa agli occhi loro una qualche verità e, vogliano o non vogliano, sono costretti a renderle omaggio. E così va proprio la cosa: se non parla la religione rivelata, la disuguaglianza sembra un\’ingiustizia di Dio, e una sventura dell\’uomo. La sventura ripugna all\’uomo sensitivo; la ingiustizia ripugna all\’uomo intellettivo. Ecco dunque tutto l\’uomo armarsi come un Capaneo contro la natura delle cose, contro l\’ordine universale, contro la Provvidenza ordinatrice, colla ferma persuasione di perorare la causa della Giustizia eterna contro le passioni usurpatrici. Con tale persuasione in capo potete voi meravigliare che si tenga per buono ogni paradosso, purchè la giustizia trionfi?
Cav. Mi pare, professor mio carissimo, che voi pizzicate del tradizionalista. Ricorrere alla rivelazione per giustificare la proprietà e ravvisarne i principii!
Acc. A dir vero, non capisco come ciò pur vi cada in pensiero. Tradizionalista col Cousin! sarebbe un tradizionalismo di nuova specie. Altro è dire che l\’uomo non conosce colla sua sola ragione niuna verità morale; altro è dire che codeste verità, benchè naturalmente si conoscano, pure conosciute si guastano con mille errori e strascinano a mille paradossi, quando la rivelazione non venga a rassodarle e fecondarle. La prima è dottrina del Tradizionalismo, la seconda è di tutte le scuole cattoliche quando combattono i razionalisti. E l\’inculcava già S. Tomrnaso quando diceva che, senza rivelazione, le verità naturali non si sarebbero conosciute se non da pochi, dopo studio diuturno, e sfigurate da molti errori. Qual meraviglia che codesta fiacchezza dell\’intelletto umano scorgasi anche nel ramo delle scienze economiche, se queste son veramente scienze morali? Codesta fiacchezza negli economisti scredenti è sì indubitata, sì necessaria, che io non temerei di proporvi una sfida. Cercatemi fra di loro qual più vi piace e compendiatene in pochi periodi i primi principii; io scommetto cento contro uno, che in quei pochi periodi, in quello scheletro della sua dottrina, quando si diparte dal Cattolicismo, io ve lo mostrerei o contraddittorio seco stesso, o in ostilità aperta col senso comune.
Cav. Mi rincresce di non poter raccogliere il vostro guanto, non giudicandomi io tale economista da compendiarvi su due piedi le dottrine dei barbassori. Ma non potreste voi stesso?… Oh! a proposito: m\’avete detto poc\’anzi che il Bastiat era stato impedito dal compiere la sua dimostrazione, non già dalla morte, ma dalla falsità stessa della sua tesi: eccovi una bella occasione di cimentarvi alla vostra sfida. Mostratemi o la contraddizione, o l\’ostilità contro il senso comune in quell\’argomento, onde il Bastiat pretendeva mostrare che l\’utilità naturale è sempre gratuita; ed io accetterò questo saggio in conto di piena vittoria.
Acc. Vi contentate di poco. Ma farò io almeno di raddoppiare la prova, mostrandovi in quell\’autore, peraltro di tanta perizia in economia, l\’uno e l\’altro difetto: mancanza di coerenza, e guerra al senso comune.
Cav. La prova sarà non meno divertente che vantaggiosa.
Acc. E potreste aggiungere non meno facile che divertente. Ma, per venire alla prova, conoscete voi Les Harmonies Économiques del Bastiat?

(La continuazione e la fine in un prossimo venturo quaderno)

NOTE

1 Purtroppo tale è generalmente la stupidezza umana, così codarda al momento del pericolo come stolta a dimenticarlo passato. Ne abbiamo un bel saggio nel Rapporto della Commissione per la distribuzione dei premii agli scrittori drammatici, la quale per mezzo di Sainte Beuve, dichiarando al Ministro non essersi trovato un dramma da premiare come onesto ed esemplare, suggerisce che si muti lo scopo di tal premiazione. Ed eccone formolata la ragione. Nel 1851 la società era in pericolo: dunque conveniva darle una direzione morale. Oggi è rassicurata: dunque potete dare i premii al valor letterario degli autori, benchè osceni ed immorali (Veggansi le parole di M. Sainte Beuve nell\’Univers 4-1-1857).
2 Tout ce qui touche à la formation du capital foncier et à la rente, est écrit avec une confusion, une obscurité mal déguisées sous la vigueur de la plume, et l\’appareil scientifique des mots. – Séances et travaux de l\’Académie des sciences morales etc. Janvier 1856 pag. 41.
3 Argumentation subtile; il faut prendre ce qu\’on peut appeler les grosses raisons qui sont toujours les bonnes.
4 Trattato elementare di Economia Sociale num. 216 e seguenti. (Edizione ­Torino Pomba 1848).
5 1° L\’appropriation de la terre, sans l\’intervention de la fraude ou de la violence, n\’est pas un monopole; 2° Il n\’y a pas de RENTE, il n\’y a que des profits de capitaux (pag. 42).
6 Notre argument a pour resultat de changer considérablement le point de vue un peu trop compléxe, sous lequel on s\’est cru obligé de considérer jusq\’ à ce jour l\’economie politique (pag. 43).
7 En raison du temps èmployé utilement par les premiers occupants, en déhors de la mise en production du sol lui-meme, pour la constitution religieuse, morale, civile et materielle de l\’agglomération, pour sa défense et son maintien (pag. 47).
8 Voilà pourquai ce sont toujours les frais de production de la dernière classe qui règlent le prix du blé, et pourquoi la dernière classe a, malgrè la différence de fertilité, autant de profit à produire du blé que la première classe (pag. 53).
9 Retrouvant dans la valeur de son commerce comme dans son produit, dans sa clientèle, le capital et les profits du travail consacré aux intérèts généraux de la communauté (pag. 55).
10. Il ne faut pas se lancer avec M. de Gasparin dans une argumentation subtile: il faut prendre ce qu\’on peut appeler les grosses raisons qui sont toujours les bonnes: la Iustice et la supreme necessité (pag. 64) .
11 Il faut avoir la sagesse de la reconnaitre; (la vieille théorie de l\’inegalité essentielle des fortunes) et c\’est la morale, la RELIGION, la bonne philosophie qui nous enseignent cette sagesse (pag. 64).

LA PROPRIETÀ E IL COMUNISMO
(Continuazione e fine)

Lasciammo, vel ricorda lettore? lasciammo i due Economisti a mezzo la lor conversazione, mentre l\’Accademico buon cattolico si impegnava a dimostrare che quando l\’economista si diparte dal cattolicismo o perde la logica o perde il senso comune, contraddicendo o a sè stesso o al genere umano: e per applicare codesta sua asserzione gli veniva proposto dal Cavaliere di analizzare la teoria del Bastiat colà, ove dimostra che l\’utilità naturale delle cose è sempre gratuita.
Conoscete voi, avea domandato l\’Accademico, Les Harmonies economiques del Bastiat?
Se le conosco! rispondeva il Cavaliere. È forse uno dei libri ove trovo maggior diletto, appunto perchè mi sembra vedervi l\’economia tornata a servizio del senso comune.

Acc. E in molti punti avete ragione; l\’Autore ha qui generalmente un\’ammirabile aggiustatezza di colpo d\’occhio. Ma, poveretto! gli mancava quella gran chiave di ogni enigma, gli mancava la fede nel cattolicismo; e però di tempo in tempo inciampa e stramazza. Infatti osservatene il capitolo De la valeur: verso il fine quasi riepilogando: «Io, dice, non voglio fare il pedante: volete usare il linguaggio famigliare, e dirmi che l\’oro vale, il grano vale, la terra vale ecc.? Ditelo pure in buon\’ora; ma permettete che io domandi alla scienza il senso di tale locuzione. E se la scienza mi rispondesse che l\’oro, il grano, la terra hanno un valore intrinseco, io le risponderò con buon diritto: t\’inganni e con gran pericolo. T\’inganni perché oro e terra, vergini d\’ogni sforzo umano, non hanno valore: con pericolo perchè l\’errore trasforma in usurpazione dei doni gratuiti di Dio ciò che non é realmente che una reciprocità di servigii»: e quindi eccita nei proletarii la stizza, la reazione contro i pretesi usurpatori (1). Lo vedete: il valentuomo asserisce qui francamente che l\’utilità naturale dell\’oro, del grano, della terra debbono essere gratuite, non hanno valore. Or pare a voi che a tale asserzione si acconci il senso comune? E se il senso comune non vi si acconcia, chi non vede quanto sia il pericolo di codesta, teoria, che pretende frenare la rapacità del comunismo, contrapponendogli una falsità universalmente sfatata?
Cav. Ma l\’Autore come la dimostra?
Acc. Tutto quel lungo capitolo del valore, senza parlare di parecchi altri, pretende esserne una continua prova. Ed ecco, a parer mio, come ella potrebbe compendiarsi.
Incomincia l\’Autore dal presupporre che l\’economia sociale non é in sostanza se non la scienza del valore delle cose (come vedete egli parla dell\’economia nel senso di Crematistica); e però si mette in traccia della giusta e filosofica idea di VALORE. E volendo prima escludere ogni elemento eterogeneo, fa notare che erroneamente si pretese fondare il concetto di valore, e per conseguenza tutta l\’economia, sopra i Bisogni e le Soddisfazioni dell\’uomo. Codesti elementi, dice egli, sono puramente soggettivi: io sento i bisogni miei, le mie soddisfazioni; ma come volete che io senta i bisogni e le soddisfazioni altrui, per trarre dal paragone quella idea relativa di proporzione, di equivalenza, senza cui non può concepirsi il valore? L\’economia dunque finchè vuol fondarsi sui bisogni e soddisfazioni é un problema insolubile, essendo totalmente incognito uno dei termini della proporzione. Domandate ad un matematico se A sia uguale ad X; e ditemi se potrà darvi mai una risposta.
Evvi per altro un elemento frapposto tra il Bisogno e la Soddisfazione: il Bisogno o desiderio eccita l\’Attività ad operare; l\’attività operando soddisfa il bisogno. Or l\’attività esercitata può ella conoscersi, calcolarsi, paragonarsi? Si certamente. Dunque essa potrà darci una base per l\’idea di valore; e l\’economia, scienza dei valori, comprenderà ogni sforzo atto a soddisfare altrui mediante ricambio, ed ogni bisogno e soddisfazione considerati relativamente a codesto conato dell\’attività umana. Quando questa attività viene impiegata per soddisfare un bisogno altrui, prende nome di servigio: quando due attività si esercitano scambievolmente, vi è ricambio di servigii.
Ora come faremo a determinare l\’equivalenza dei due servigii? Lasciate a ciascuno degli agenti il determinarlo: quando ciascuno sarà contento del ricambio, i due servigii avranno ugual valore (2): giacchè chi meglio di loro può sapere se il servigio che ciascuno riceve, valga veramente la fatica con cui egli lo contraccambia? Dal che vedete altro essere il valore del servigio, altro l\’utilità della cosa. Qual cosa più utile che l\’aria ad un moribondo per asfissia? Aprite la finestra, gli avrete data la vita. Ma quanto é piccolo l\’incommodo vostro, e quello che egli avrebbe dovuto prendersi per aprirla! (ivi.) Il servigio qui dunque è piccolo, l\’utilità é somma.
Avvertite per altro che molti bisogni vengono soddisfatti dalle forze di natura senza lo sforzo dell\’uomo: la luce e l\’aria corrono da sè agli occhi, ai polmoni. In altri bisogni ci vorrebbe per soddisfarli lo sforzo umano; ma a questo si può sostituire la forza della natura p. es. il vento o il vapore al remigante. E quanto più si fa lavorare la natura, tanto scema il bisogno dell\’umana attività. Or noi abbiam detto che il valore nasce dallo sforzo di questa. Dunque l\’opera di natura, essendo il contrapposto di sforzo umano, non ha valore, vale a dire, è gratuita. Ora nell\’oro, nel grano, nella terra l\’utilità intrinseca è prodotta dalla natura. Dunque codesta utilità non ha per sè alcun valore; ella si dona gratuitamente.
Tale è in sostanza la dimostrazione del Bastiat che io potei estrarre dai due capi secondo e quinto, fra loro corrispondenti. Ora che ve ne pare?
Cav. Che volete ch\’io vi dica? Non posso non ammirare nei sofismi stessi l\’ingegno dell\’Autore. Cionondimeno la prima cosa che salta agli occhi è l\’incoerenza di ricorrere all\’estimazione dei contraenti per determinare il valore dello sforzo, dopo avere eliminato come soverchiamente soggettivi, bisogno e soddisfazione. Che razza di ragionare è codesta? Prima mi dite che io non sento i bisogni e soddisfazioni altrui, e non posso paragonarli coi miei per determinarne il valore: poi ricorrete alla discussione dei due contraenti per valutare il servigio secondo le loro condizioni rispettive, l\’intensità dei loro desiderii, la facilità di rinunziarvi (3). Ma per vita vostra, qual cosa più soggettiva che i desiderii, e la facilità di rinunziarvi, e quell\’ultima conclusione, quel giudizio con cui voi determinate il Valore? E i due contraenti che lo fissano a proporzione dell\’intensità, dei desiderii e della difficoltà di resistere, credete voi che non l\’avrebbero determinato ugualmente a norma dei bisogni e della soddisfazione? Accade qui al Bastiat ciò che ad ogni altra filosofia puramente soggettiva: sente il bisogno di arrivare all\’oggetto esterno, al reale; lo nomina, lo addita come presente; e poi è costretto a ricadere nell\’individualismo, e a fondare il reale sull\’apprensione del sentimento individuale. Codesto giudizio tutto personale toglierà così ogni idea di valore obbiettivo, ogni possibilità di valore pubblico e sociale, ogni norma di giustizia sentenziabile nei contratti. E se un contratto venisse accusato di lesione enorme, il colpevole basterà che risponda: La controparte si è contentata (4).
Acc. Voi mettete proprio il dito sulla piaga, e si vede che non avete bisogno della testa per conoscerne la profondità. Dal poco che mi avete detto già inferite voi stesso che codesta teoria tutta soggettiva, par preparata a posta per condurci poi a ciò che si chiama piena libertà del commercio, svincolandoci da ogni esterna autorità che possa impedirne le ingiustizie e le frodi: libertà conceduta ai ricchi, ai prepotenti capitalisti di opprimere con imprese gigantesche il commercio più tenue.
Cav. Mi sovviene adesso un\’altra difficoltà che andava sorgendomi nell\’animo allorchè l\’Autore da voi compendiato pretendea di fissare il valore del servigio colla misura della fatica che si risparmia. È egli giusto, è filosofico ricorrere ad un elemento tutto estrinseco e accidentale per determinare un concetto che dee regolare abitualmente l\’andamento della società? Che mi si dica «Pagate le fatiche del produttore» l\’intendo, giacchè esse sono come causa immedesimate alla produzione. Ma che mi si dica «Pagate a misura della fatica che dovreste far voi, e del desiderio che vi spingerebbe a faticare»; questo è un farmi pagare, non la cosa che compro, ma il bisogno, la miseria, la debolezza che mi spinge a comprarla. È insomma un autenticare colla teoria l\’oppressione del povero, e il monopolio del ricco; concedendo a questo il determinare la quantità dei servigii che pretende dal povero, aumentandone tanto più la tassa, quanto nel compratore è maggiore la miseria. Almeno nell\’altra teoria, determinandosi il valore dall\’utilità delle cose, vi era pure un qualche elemento obbiettivo e naturale, ma qui tutto è soggettivo ed accidentale.
Acc. E codesta incoerenza è tanto più deplorabile, quanto più parea l\’Autore aver ravvisato il vero punto della difficoltà nel soggettivismo degli altri economisti. Infatti prima egli avea escluso i bisogni e le soddisfazioni, perchè essendo cosa tutta interna, non possono né conoscersi, né valutarsi esternamente: all\’opposto l\’esercizio dell\’attività, diceva, è cosa visibile a chicchessia. Credereste a prima vista che egli vorrà calcolare il valore del grano, delle vesti colle tante ore di lavoro nel zappare, nel tessere ecc. Questi sì, sono visibili, palpabili, misurabili con l\’orologio alla mano. Ma quando trapassa dallo sforzo di chi presta il servigio allo sforzo risparmiato a colui che lo riceve, e al maggiore o minor conto che egli ne farà secondo le condizioni in cui si trova; tutto il vantaggio della misurabilità è perduto, perduta ogni norma esterna per determinare il valore.
Cav. Tutte codeste osservazioni peraltro riguardano piuttosto i preliminari, che non la sostanza della teoria. La parte sua più importante è quella che asserisce gratuita l\’utilità naturale.
Acc. E qui non può negarsi che a prima vista ella si presenta con un certo splendore che illude, quando si sono ammessi alla cieca i preliminari. «Il valore, dice, deriva dallo sforzo dell\’uomo: dunque quanto più l\’utilità nasce dalla natura, tanto meno avrà di valore: dunque l\’utilità puramente naturale non avrà alcun valore». Codesto raziocinio è una bella fabbrica, ma le manca il fondamento, giacchè la prima proposizione è falsa. No, il valore non nasce solo dallo sforzo umano, ma dallo sforzo indirizzato a produrre la soddisfazione dell\’altrui bisogno; e chi pagherebbe un servitore solamente perchè si sforzi? Questo sforzo dee tornare in mio pro perch\’io lo paghi. Vero è che se la natura mi avesse posto in mano senza mia fatica quel dono medesimo, io non pagherei lo sforzo. Ma il non pagarlo sarebbe, non già perchè la cosa agli occhi miei non abbia valore, ma perchè la natura che lavora per me non pretende mercede. Ne è prova un fatto quotidiano. Fino a ieri il prato verdeggiò rigoglioso, ed io vi pascolai la mia greggia con quell\’erba gratuita. Comincia l\’alidore, e la natura incomincia a negarmi l\’erba se io non gliela pago in irrigazione. Eccomi tosto a fare i miei conti: l\’irrigazione mi costa 10; non irrigando perdo 14: l\’erba del prato dunque ha per me il valore di 14, e se la salvo con 10 ho fatto un buon negozio. Presto dunque alziam la cataratta, e tiriam l\’acqua sul prato». E voi mi dite che quell\’erba non avea valore? Anche il povero raccolto in un ospizio non paga quella zuppa, perchè gratuitamente la riceve: dite voi per questo che la zuppa non ha valore pel povero? Aspettate che gliene manchi il dono, e vedrete se non è disposto a pagarla! Lo vedete, Cavaliere, quella prima proposizione è assolutamente falsa: essa confonde il valor della cosa col rigore dell\’esattore. Se l\’esattore è benigno, la merce non ha valore; se l\’esattore è severo, la merce vale. E chi non vede che le idee sono qui invertite? Potrebbe il venditore esigere un prezzo, se la merce agli occhi miei già non avesse un valore? Falso è dunque che il valore nasca solo dallo sforzo esercitato dal produttore, e risparmiato dall\’acquirente, e per conseguenza tutto il resto dell\’argomento vacilla. La Filosofia dunque è qui d\’accordo col Senso Comune, negato sofisticamente dall\’economista. Il senso comune dice: l\’oro vale, il grano vale, la terra vale. Filosofi, sapreste spiegarmi codesta frase? Neppur ci è bisogno d\’un filosofo: basta un grammatico, da cui so che il valere dei Latini significa potere. Or dove sta il potere, che mi fa aprire la borsa, e trarne la moneta? Sta nella fatica che io risparmio? No, perchè non occorre pagarla. Sta nella fatica di chi lavora? No, perchè lavorò mille volte senza ch\’io lo pagassi. Il potere di farmi aprire la borsa sta in quell\’oro, in quel grano, in quella terra, allorchè li veggo in tal condizione che per acquistarli mi è necessario il compensare l\’altrui servigio. Il motore dunque sono quelle cose, giacchè di ogni atto umano motore è il fine; l\’altrui servigio è il mezzo con cui le ottengo. Or il mezzo non è bene se non in quanto è unito col fine: dunque lo sforzo non ha valore se non relativamente alla cosa; e l\’Autore lo riconosce in sostanza allorchè dice: Le service a de la valeur parce qu\’il est utile à celui qui le reçoit et le paye (5).
Or codesta utilità che altro è mai se non l\’acquisto della cosa? Pagherei io mai la medicina, se non ne sperassi la sanità? E se un medico valente mi offerisse la sanità al prezzo della medicina, e senza sorbirmela, sarei io sì sordo da rispondergli «Oibò! il prezzo io lo davo per la medicina e non per la sanità?».
Cav. Or sapreste spiegarmi come mai uomini assennati ed acuti si oppongano in tal guisa a verità sì volgari ed evidenti?
Acc. Dovremmo tener conto, per rispondervi della sottigliezza dei sofismi. Ma trascurando anche questa, sapete perchè riescono a far fortuna? Perchè tutti gli animi oggidì sono preoccupati dalla uguaglianza e dalla indipendenza: l\’uguaglianza vuole che tutti possano tutto; l\’indipendenza abolisce l\’idea di un Dio Creatore, da cui scenda ogni diritto, e però anche la proprietà. Con tali disposizioni come volete che giustifichino la proprietà senza sofismi, e difendano una conseguenza vera, se non ricorrendo a principii falsi? Se tutti sono uguali, tutti han diritto a tutto: se tutti sono indipendenti, niuno può limitarne i diritti. Or la proprietà mia è limitazione dei diritti altrui. Dunque con codeste premesse la proprietà è ingiustizia: la propriété c\’est le vol. Fra noi cattolici la cosa va tutto altrimenti: l\’uguaglianza fra gli uomini sta nell\’amarci scambievolmente con riverenza ad ogni diritto. La dipendenza poi di tutto il creato dal Creatore, e l\’ordine finale che Egli pose nell\’universo, volendo che le cose sieno per l\’uomo, e l\’uomo per Dio fa sì che ad ogni uomo sia lecito impossessarsi di qualche cosa: e che quando altri si è impossessato di una cosa, ciascun dei fratelli senta di non potergliela rapire. Ma tolti codesti principii per surrogarvi indipendenza ed uguaglianza, come volete che la proprietà si sostenga, mentre include essenzialmente maggioranza degli abbienti, e dipendenza dei bisognosi? Non ci resta altro rifugio per gli economisti contro il comunismo, che dargli ad intendere l\’utilità delle cose non valer niente, e però niun valore essere in mano degli abbienti. E volete udirlo dall\’Autore medesimo? Andate colà dove egli combatte il Say perchè ammetteva il valore dell\’utilità naturale. Per confutare codesta dottrina del Say , e le pretese dei proprietarii, vien chiamato in campo il Proudhon, il quale intima al proprietario della terra chiedente un prezzo del lavoro naturale fatto dalla terra medesima sul prodotto (6): «Olà! tu vuoi esser pagato per la terra che ha lavorato? Mostrami la sua carta di procura: se non hai la procura, aspetterò per pagare che la terra stessa mi mandi una citazione». Come rispondere a codesta intimazione del Proudhon? Per noi cattolici la risposta è chiara: il Creatore mi ha autorizzato nel Genesi a coltivar la terra, e a possederla: subiicite terram, et possidete eam: ecco la mia carta di procura. E lo stesso risponderemo anche al Bastiat, quando domanda magistralmente: «Chi è quell\’audace che oserà farsi pagare il lavoro sovrumano della natura»? Quell\’audace è il cattolico, il quale sa benissimo che la natura dal Creator medesimo fu fatta serva dell\’uomo, ed appunto perchè ha ricevuto da Dio questo benefizio, a Dio ne rende egli le grazie quando rompe il suo pane in famiglia (7). Se questo pane donatomi dal Creatore non avesse valore alcuno, di che dovrei io ringraziarlo?
Cav. Avete ragione: il cattolicismo è la vera filosofia della Proprietà, o piuttosto del senso comune; giacchè anche il senso comune è quell\’audace garrito dal Bastiat. Egli non saprà certamente render piena ragione di codesto suo sentimento divenuto chiaro per la rivelazione. Sente egli per altro, e col ragionare giunge a comprendere che la natura irragionevole è fatta per l\’uomo ragionevole. Sopravviene la rivelazione, e a codesto istinto del volgo, a codesto raziocinio del filosofo aggiunge il suggello della storia raccontandoci il fatto dell\’investitura conceduta agli uomini da Dio medesimo.
Acc. Ignorando poi o negando codesta verità, voi vedete quanti debbono essere gli errori del Bastiat nell\’applicazione. Paragonate, per modo di esempio, l\’applicazione che fa della sua teoria l\’Autore, prima al diamante e poi al carbon fossile. Passeggiando, dice, alla riva del mare, m\’imbattei in un diamante stupendo, e mi trovai ricco in tal guisa d\’inestimabil valore. E perchè tanto valore in codesto diamante? Perchè, risponderebbe il senso comune, il meraviglioso splendore di quella pietra è per la vanità un piacere inestimabile. Ma l\’economista: no, replica; sapete perchè tanto valore? perchè se lo cedo ad un ricco vanitoso gli rendo un tal servigio, che niun altro può rendergli: e che se egli volesse ottener da sè stesso dovrebbe forse passeggiare anni ed anni sulla riva del mare col rischio finalmente di neppur trovarlo. Tutti codesti anni che io gli risparmio costituiscono, dice, il valor del diamante (8).
Cav. Capperi che razza di valore indeterminato!
Acc. Lasciam da parte l\’indeterminazione, e notate al nostro proposito che il possessor del diamante, secondo il Bastiat, si fa pagare perché cedendo il possesso risparmia altrui la fatica. Or bene seguitate a leggere poche altre pagine: l\’Autore cerca le cause del valore del carbon fossile. E incaponito della idea che la utilità naturale non ha valore, eccolo ad analizzare il prezzo d\’un carro di carbon fossile: «Tanto a chi scavò la terra, tanto a chi disseccò la polla dell\’acqua, tanto a chi trasse coll\’argano il combustibile, tanto a chi lo carreggiò. Tutti i lavori sono pagati; eppure ci resta ancora una quota del prezzo. Pretenderete, dice il Bastiat, che è il prezzo del materiale depositato colà dalla natura: C\’est le prix de la houille gisant sous le sol encore vierge (9). Falso falsissimo, risponde, l\’azione della natura non crea valore, come l\’uomo non crea materia: o il proprietario avea cooperato coi suoi servigii, o si è fatto pagare ingiustamente quella parte nel prezzo del carbon fossile: le prix de la houille s\’est trouvé indùment augmenté (10). Ma, caro signor Federigo, perchè tanta severità contro questo secondo padrone? Il primo passeggiando in riva al mare, territorio comunale, trova il diamante senza alcuna fatica, ed ha il diritto di non cederlo, se non gli si pagano settanta o ottanta anni di viaggio. Il secondo nel fondo suo proprio s\’imbatte in una vena di carbon fossile, e dee cederlo senza prezzo? Almeno, almeno permettete che dica egli pure a chi compra il carbone, ciò che diceva il primo a chi voleva il diamante. «Quanti anni dovreste viaggiare, o quanti fondi comprare per trovarvi una vena di carbon fossile? Datene a me la metà, e ci guadagneremo tutti due, voi perchè avrete il mio carbone con metà della fatica che forse dovreste impiegarvi; ed io perchè verrò a venderlo quasi a prezzo di diamante.
Cav. Or vedete ridicolezza a cui giungesi negando il senso comune! Se trovo un diamante posso farmelo pagare; se trovo carbone non ha alcun valore.
Acc. E questi esempii potrebbono moltiplicarsi. Applicate la dottrina, per esempio, alla fontana di cui parla altrove (11): «Siamo, dice, presso la fontana, l\’acqua è gratuita per tutti, basta attingerla. Ma se voi mandate un altro ad attingerla, dovrete pagarlo. Pagate voi l\’acqua? No: voi pagate la fatica». È verissimo: ma quell\’acqua che era gratuita perchè era in fondo comunale, fate che io la scuopra senza alcuna fatica nei miei fondi, e la trovi potentissima acqua termale, sarà diritto di chicchesia di venirsela a prendere? Certo che no. Epure dalla natura è lavorata l\’acqua termale, come l\’acqua comune: questa appaga il bisogno dell\’assetato, quella il bisogno dell\’infermo. Se codesta utilità fosse gratuita, il padrone del fondo non avrebbe diritto di farsela pagare. Così un prodotto del fondo proprio non si può vendere; un diamante trovato per caso nel fondo comune ha valore inestimabile. L\’incoerenza è evidente.
Cav. Evidentissima. Ciò nondimeno mi si presenta una obbiezione. Se il valore sta nell\’acqua, nel grano, nell\’oro, nel carbone, insomma nelle sostanze materiali che si comprano, come va che codesto valore è sì variabile? Un vasaio fa delle tazze con la tal porcellana: se domani le vende, ne avrà 10 franchi; se tarda un anno, appena 5. La porcellana è la stessa; come è cambiato il valore?
Acc. Una obbiezione consimile viene recata appunto dal Bastiat in confermazione di sua dottrina, ed è trasformata in un assioma economico in questa formola. «Quando il valore è travasato dall\’attività umana nella produzione, va soggetto alle stesse eventualità, che il lavoro umano, da cui venne prodotto»: cotalchè se quel lavoro rincarisce od invilisce, rincarisce od invilisce anche il prodotto. Dunque il valor del prodotto deriva solo dalla fatica del produttore. Tale è la obbiezione del Bastiat. Ma è facile il vedere che essa può ritorcersi contro l\’Autore, potendovi essere dei casi in cui il valor dell\’opera non cambia, e pur cambia il valor del prodotto. Fate che l\’orefice abbia lavorata una tazza di oro prima che si scoprisse l\’oro di California e di Australia, quella tazza avrà perduto parte del suo valore, benchè l\’oreficeria vada oggi al medesimo prezzo. L\’argomento dunque si può ritorcere. Ma anche prescindendo da tal difetto l\’obbiezione non ha alcuna forza contro le teorie del senso comune che sono le nostre. Se dicessimo non esservi valore se non nelle cose, le forze non dovrebbero mettersi a calcolo. Ma qual è quell\’uomo assennato, e molto più quel cattolico che osi dire ad un galantuomo «Servimi, ma io non ti pagherò»? La obbiezione dunque del Bastiat prova bensì che la fatica forma parte del valore, ma non prova che nella materia non ve ne sia un\’altra parte sua propria: e il negare codesta verità di senso comune, concedendo frattanto ai comunisti che se vi fosse un valore nelle cose, sarebbe furto l\’appropriarsele, egli è proprio un tradire la causa della giustizia affermando il falso, e negando il vero.
Cav. Parmi che costoro difendono la borsa della società come il famoso Gribouille difendeva la propria, nascondendola in tasca ai ladri.
Acc. Proprio così: il Proudhon strillava che il lavoro di natura debb\’essere gratuito; ch\’ella è madre comune e lavora per tutti egualmente; che l\’appropriarsene i prodotti è usurpazione e furto. Ed ecco il Bastiat che per difenderci: sì signore, risponde, avete ragione, il lavoro di natura non può mai vendersi: e quando noi vi vendiamo grano o carbone, non vendiamo già l\’utilità naturale, ma il nostro lavoro. Occupate anche voi una terra, scavate una miniera, seminate del grano, e caverete gli stessi frutti.
– Oh bella, replicava il Proudhon, e dove troviam noi questa terra da occupare ora che tutto è preso? – A codeste grida eccoti il Gasparin: – Quieti, quieti. È verissimo che avete diritto ai prodotti della natura, ma non è vero che le terre siano tutte occupate; e in quelle stesse che occupiamo noialtri abbienti; il lucro nasce, non dalla terra, ma dalle nostre fatiche. Faticate ancor voi e arricchirete al par di noi (12). –
Come vedete è proprio quel che io diceva al principio. Si concede ciò che niegasi dal senso comune, si nega ciò che dal senso comune e da tutto l\’uman genere fu sempre ammesso. I comunisti dicono col senso comune «chi paga, bada principalmente all\’utilità della cosa» e ne inferiscono «Il proprietario si arroga il dono di natura» – Oibò! rispondono gli economisti, l\’utilità non si paga, è sempre gratuita –
Per altra parte il senso comune grida – L\’uomo si fa in cento maniere proprietario delle cose: e questo, soggiunge il Proudhon, è furto – A questo che rispondono gli economisti? – Falsissimo: l\’uomo non è proprietario d\’altro che dei suoi lavori -. Eh via, andiamo un po\’ più a rilento a dar del babbeo, al genere umano: e quando questo da secoli e secoli ha tenuto fermo col senno e con la mano un domma, chiediamone alla scienza la spiegazione, non la confutazione.
Cav. Bravo, professore carissimo! Questo è il gran principio metodico d\’ogni vera filosofia: spiegar la natura e non mai negarla. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi. Oh se voi me ne deste un saggio pratico! Se mi mostraste in qual modo possono conciliarsi il fatto di natura, e le dottrine sociali della proprietà! Quanto vi sarei obbligato!
Acc. Veramente, Cavaliere carissimo, voi fate un po\’ troppo a fidanza con la mia capacità economica. Ciononostante se volete che vi proponga alcuni miei pensieri, tra amici si può arrischiare, benchè immaturo, qualche cenno di analisi. Ma questa donde dee cominciare? Dal ben comprendere qual è il soggetto delle nostre indagini, affine di studiarlo poi nella sua natura. Or dunque che cosa s\’intende per valor delle cose? S\’intende, se non erro, quel principio, quale che egli sia, per cui altri s\’induce a contraccambiarle. Cercare il valore, vuol dunque dire, cercare la causa che determina il contraccambio e la sua quantità. Se voi riflettete che codesta causa dee determinare un uomo (animal ragionevole), capirete che in lei dovranno trovarsi elementi pel sensitivo e pel ragionevole. Analizziamo, e vediamo se tale è veramente quella causa per cui io m\’induco ad aprir la mia borsa a chi mi cede il suo prodotto. E in primo luogo se io m\’induco ad aprir la borsa, ho dovuto formare il giudizio di dover retribuire una somma determinata per ricambio d\’una determinata merce. Ora un tal giudizio risulta da due altri giudizii più elementari; cioè 1° Io voglio acquistar quella merce: e un tal giudizio risulta anch\’egli da due altri elementi, vale a dire, dal sentimento del bisogno o desiderio, e dall\’attitudine della merce a soddisfarlo. 2° Io debbo retribuire quella merce, perchè senza retribuirla non avrei ragione di appropriarmela. Il primo di questi giudizii può essere più o meno motivato or dalla ragione, or dagli appetiti e dagli istinti; giacchè il bisogno, il piacere ecc. possono appartenere e alla parte sensitiva e alla ragionevole: il secondo all\’opposto; includendo la morale idea del dovere non può nascere se non nell\’uomo ragionevole, e dipende essenzialmente dal gran principio della giustizia Cuique suum: si rispetti in ciascuno la sua proprietà. Or la proprietà ha varii gradi: la persona umana è inalienabilmente padrona delle proprie facoltà, le quali formano una sola cosa con esso lei: ed è padrona, ma alienabilmente, dell\’esercizio di sue forze, e dei frutti materiali che ne risultano; cotalchè può valersene o donandoli per ottenere in contraccambio altri frutti, o impiegandoli a perfezionarsi coll\’esercizio di virtù morali. Dunque se col secondo giudizio l\’uomo si trova obbligato a retribuire l\’altrui, questa retribuzione sarà dovuta ugualmente e all\’esercizio delle forze altrui, ossia al lavoro, e ai frutti materiali da lui ottenuti o col lavoro immediatamente, o colla permutazione. Ma oltre la proprietà delle sue forze e dei frutti che ne germogliano, non può la persona appropriarsi i prodotti di natura? Lo nega coi comunisti il Bastiat, lo afferma il genere umano. Noi per ora assumendolo soltanto come un\’ipotesi, diremo che se l\’uomo ha il diritto di appropriarsi i prodotti naturali, questi formeranno una terza categoria di proprietà, cui se io voglio ottenere dagli altri, sarò obbligato a contraccambiare. Rispetto a qualunque di queste tre specie di proprietà chi vuole acquistare la merce forma questo raziocinio «Voglio conseguire il tale oggetto: or questo oggetto è proprietà altrui che non si ottiene giustamente senza retribuirla: dunque sono obbligato a retribuirla. Ma la retribuzione implica uguaglianza: dunque debbo retribuirla alla pari».
Cav. Voi analizzate egregiamente: ma permettetemi di osservare che avete trasandato il punto più difficile, vale a dire la determinazione di codesta parità. Qui sta il busillis, direbbe là in Italia il mio pievano. Finchè si tratta di giustizia in universale è facile accordarsi; il difficile sta nel ridurla a termini concreti, nel fissare, questa merce equivale a quella.
Acc. Risponderò fra poco anche a questo dubbio: ma permettetemi di farvi notare due cose. 1° Che l\’analisi premessa mostra come s\’includa nel concetto di valore e la cosa e la fatica; potendo essere d\’altrui proprietà e l\’una e l\’altra, e dovendo però corrispondere e all\’una e all\’altra una giusta retribuzione: 2° Che l\’idea di valore così concepita, corrisponde come premisi, e all\’uomo sensitivo, e all\’uomo ragionevole; e fa sì che l\’economia sociale divenga una vera scienza morale, additando nel valore (il quale può dirsi il soggetto principale della scienza economica) un elemento essenziale appartenente all\’ordine morale. Finchè gli economisti trascurano codesto elemento, mai non potranno rendere piena ragione dei fenomeni economici. Per rispondere ora alla vostra difficoltà intorno alla equivalenza delle cose, vi prego riflettere che, secondo il già detto, le condizioni analoghe debbono trovarsi nei due contraenti: e mentre il primo dice «Mi è necessario ottenere»; il secondo dee dire per lo meno «Mi è convenevole il cedere». Mentre il primo soggiunge «Debbo retribuire»; il secondo deve soggiungere «Voglio retribuzione». Da questi elementi preliminari nasce, come vedete, il grande obbligo di giustizia, fondamento d\’ogni contratto oneroso, cioè il debito di equivalenza nei due valori permutati; giaccchè l\’uno e l\’altro dei contraenti sotto tale condizione soltanto vogliono cedere il proprio. Ora la alienazione di un diritto non si fa senza la volontà del padrone. Dunque senza una vera equivalenza il contratto è invalido, è ingiusto: sia pure che per ignoranza o per inganno uno dei due creda riscuotere l\’altrettanto.
Ma come si conoscerà concretamente questo altrettanto? Ecco: ciascuna delle due parti riguarderà questi tre elementi; cioè 1° La maggiore o minore possibilità di ottenere gratuitamente dalla natura ciò che dalla contrapparte non si otterrebbe senza retribuzione; o in altri termini, la possibilità di ottenere coll\’occupazione, invece di comprare permutando. Ed è questo quel titolo di rarità che tanto influisce nella determinazione dei valori, secondo la maggior parte degli economisti. 2° La quantità di fatica impiegata dall\’operaio intorno alla materia che si appropriò. 3° La qualità delle forze richieste a produrre quell\’opera: le quali potendo essere più o meno rare, attribuiscono per questo stesso un maggior valore all\’opere che producono, sì per la rarità di queste, sì per la impossibilità in cui sarebbono di soddisfare ai moltissimi che accorrerebbono a chiederne i servigii, se questi si rendessero più accessibili. Vedete dunque che nel ridurre al concreto l\’idea di valore, torna in campo il triplice grado della proprietà: si mira alle forze o facoltà, le quali quanto più son rare a trovarsi (come ingegno acuto, robustezza erculea ecc.), tanto più vengono compensate: all\’opera, la quale tanto più merita quanto è più diuturna e diligente: alla merce, sulla quale il venditore cede il diritto di possesso, che dovrebbe usare secondo natura a proprio vantaggio.
Cav. Dovrebbe! A proprio vantaggio! Ehi! ehi! caro mio, andiamo adagio con codesto utilismo. Sareste voi dunque del parere del Bastiat, che tutto si fa per interesse: notre mobile est … l\’interét personnel?
Acc. Mi pare d\’aver preveduto poc\’anzi codesta accusa, quando vi dissi che le forze son date all\’uomo affinchè le usi per la sua persona, impiegandone i frutti o nel sostentar la parte materiale, o nel perfezionarsi moralmente. Questo amore di perfezione morale è tutt\’altro che interesse: laonde se voi chiamate interesse l\’amore della giustizia, della liberalità, della misericordia, permettetemi il dirvi che il vocabolo è usato impropriamente. Se poi chiamate interesse la bramosia degli altri beni non morali, ben vedete che contro di me l\’accusa di utilismo non ha più luogo, e che io mi trovo a mille miglia lungi da Federigo Bastiat. Spero che la risposta vi basti, e torno al discorso interrotto per aggiungere poche parole intorno al valore sociale che dee distinguersi dal privato.
Cav. Oh sì sì: la è materia che bisogna di schiarimento, giacchè in pratica i giudizii sociali intorno al valore possono essere assai diversi dagl\’individuali, e per conseguenza i contratti, che si fanno in grembo alla società e a norma del valor sociale, possono essere materialmente assai diversi da quelli di due persone solitarie che s\’incontrino in un deserto.
Acc. Naturale. Tutti variano gli elementi poc\’anzi annoverati secondo la varia condizione di società e d\’individuo; le materie occupabili divengono più rare, le forze disponibili più frequenti; e vi si crea insomma quella concorrenza che ha tanto giuoco nelle teorie degli economisti, e che non può negarsi dovere entrare nel conto finché non giunge a ad offendere la giustizia. Non entrerò a ragionare di questa più a lungo per non uscire dal tema. Quello che importa al soggetto presente è che sia fermo tra noi, la giustizia dei contratti nella società dover dipendere dalle condizioni sociali più che dalle individuali. E la prova sta nell\’analisi stessa del valore fatta poc\’anzi. Se per determinarlo si contempla la rarità della merce, è chiaro che codesta rarità nella società pubblica è un fatto esterno, indipendente dal giudizio privato. Ben potrà un truffatore ingannare i dabbene, o un monopolista frodarli sottraendo la merce. Ma che quella merce esista in commercio in una determinata quantità, questo è un fatto reale, obbiettivamente vero, e indipendente dal giudizio privato. Dite altrettanto della quantità di lavoro richiesta da una data merce nelle condizioni attuali dell\’industria.
Qualunque sia il giudizio pei contraenti, per fare un cappello o un paio di scarpe ci vogliono colla presente perfezione degli stromenti tante ore e non più: e solo queste ore possono entrare nel calcolo volgare del valore. Il solo elemento dipendente dal giudizio privato è il maggiore o minor bisogno o desiderio dei contraenti. Se il Bastiat avesse conceduto a questi di dibattere fra di loro codesto solo elemento del valore, la sua dottrina sarebbe assai meno irragionevole, né andrebbe soggetta allo sconcio di rendere impossibile la giustizia sociale. Ma pretendere di lasciar tutto all\’antagonismo degl\’interessi privati, ciò non potea farsi se non da chi tutto l\’uomo fa servo all\’interesse, e tutto il valore fa dipendere dallo sforzo del servigiale. A dir vero il Bastiat, sentendo il torto che gli fa l\’andar così a ritroso del senso comune, s\’ingegna poscia di trovare molti punti di contatto fra la sua dottrina e le altre più generalmente ricevute: ed io gli auguro un buon successo di codesti suoi conati di conciliazione senza mettermi nell\’impegno poco utile di approvarli o di confutarli. Quello che mi premea, era di spiegarvi qual sia nel mio concetto l\’analisi del valore. Supposto che valore altro non sia se non quel principio motore, per cui i contraenti s\’inducono a ricevere l\’altrui prodotto come equivalente al proprio; mi sembra avervi chiarito che codesto principio debbe essere un giudizio dell\’intelletto. Codesto giudizio, per muovere la volontà a cedere il proprio prodotto, deve rappresentarle un bene equivalente; il qual bene non è assolutamente parlando né lo sforzo altrui, né il risparmio della propria fatica, ma sì l\’utilità della cosa acquistata. Dal giudizio intorno a questa utilità e intorno al diritto che altri ha di non cederla senza un compenso, nasce l\’impulso a contraccambiare equamente la merce. L\’equità poi di questo contraccambio nasce e dalla rarità della merce, e dalla qualità e quantità delle forze impiegatevi. Di questi quattro elementi solo il primo è