LA TEMPERANZA CRISTIANA (12)

…LA TEMPERANZA CRISTIANA. La virtù. Oggetto materiale e formale. L’errore dell’insensibilità. Specie della temperanza o parti soggettive. L’astinenza. La sobrietà….

Trattato di Teologia morale


PARTE II.


DOVERI DELL’UOMO VERSO SE STESSO


3 – LA TEMPERANZA CRISTIANA (371).


1. La virtù.


La virtù della temperanza tende a moderare i più veementi piaceri del senso, quelli cioè del gusto e della carne, non permettendo che essi eccedano i limiti segnati dalle necessità della vita. Il suo compito, perciò, non è essenzialmente repressivo, ma moderatore, e contrario, quindi, tanto agli eccessi quanto al difetto.


La temperanza guida così la vita verso un equilibrio armonioso, dove l’uomo si sviluppa tutto intero, senza urti. Vi sono delle età, degli ambienti dove è più facile eccedere nei piaceri venerei, la gioventù ad es.; altri invece in cui è più facile eccedere nei piaceri delle bevande inebrianti, ad es. la vecchiaia.


Alla virtù delle temperanza compete liberare, secondo l’età e secondo i luoghi, gli uomini da questi eccessi, dettando la giusta misura: una specie di igiene spirituale.



2. Oggetto materiale e formale.


Oggetto della temperanza propriamente detta o la materia stessa, intorno a cui essa opera, sono gli atti, con i quali l’individuo si conserva e propaga la specie, in quanto si debbono moderare, vale a dire desiderare o rifuggire, secondo l’ordine fissato da Dio, cioè secondo l’ordine della retta ragione, illuminata dalla fede. Ma il motivo formale, che muove l’uomo all’esercizio dell’atto virtuoso, è la particolare onestà che si ha nel moderare gli atti, i quali riguardano la conservazione dell’individuo e della specie.


La giusta misura nell’uso di questi atti è data dalla loro finalità; per quanto riguarda i cibi e le vivande è la buona disposizione corporale e spirituale in relazione alla nostra attività ed alla nostra tendenza a Dio, fine ultimo soprannaturale; in quanto riguarda gli atti sessuali è l’amore ordinato al raggiungimento dei fini propri della vita coniugale. Più comunemente gli autori assegnano come oggetto della virtù della temperanza i piaceri più intensi del tatto, e definiscono la temperanza stessa come virtù che modera l’appetito circa le principali concupiscenze e piaceri del tatto, conformemente al fine dovuto. Ma i recenti fisiologi e psicologi insegnano che le sensazioni del gusto, del bere e massimamente dei venerei sono sui generis, sebbene siano affini in qualche modo al senso del tatto.


E’ meglio perciò dire che la temperanza ha l’ufficio di moderare gli atti cui è annesso un particolare piacere, anziché i piaceri stessi del senso. Così per fermarci alla virtù della castità ciò che è essenziale in questa virtù, la difesa cioè della propagazione del genere umano contro le insidie della lussuria, non è tanto la moderazione dei piaceri venerei stessi, ma la moderazione degli atti, che sono per sé ordinati alla propagazione della specie. L’eccesso, come si vedrà, ci può essere anche senza piacere venereo.


Ogni operazione naturale, infatti, per sé cioè per natura sua, è stata ordinata dal sapiente Autore della natura a qualche fine, che nella valutazione morale si dice fine dell’opera (finis operis) o fine intrinseco. Questo fine non dipende dall’intenzione dell’agente, cioè il fine di chi opera non può far sì che questa operazione naturale non sia più ordinata, secondo la divina disposizione, al suo fine intrinseco. Così ogni atto venereo per sé è ordinato al finis operis, cioè alla debita propagazione della specie e nessuna umana potestà può togliere questa intrinseca ordinazione dell’azione stessa. Ma Dio, provvidentissimo, agli atti naturali e necessari alla vita dell’individuo e della propagazione della specie ha unito una soddisfazione soggettiva o un piacere particolare del soggetto che agisce: il piacere venereo negli atti sessuali ed il gusto dei cibi nelle vivande. Questo piacere, connesso normalmente all’operazione, trascina soavemente all’azione da farsi e alle volte vi spinge con un forte impulso. Di qui i teologi parlano di diletto per l’operazione (delectatio propter operationem), poiché nell’ordine oggettivo delle cose, siccome il fine della legge non cade sotto la legge, non si esige che il fine dell’opera sia positivamente inteso da colui che agisce. Questi approva l’ordine morale, con il cercare moderatamente il piacere, congiunto con l’opera buona, purché tuttavia il fine dell’opera non venga escluso o con espressa intenzione o con il modo stesso di agire (372). Da qui appare chiaro che il piacere nel rifocillare il corpo e negli atti venerei è qualcosa di accidentale nell’ordine oggettivo delle cose.


Per quanto poi riguarda la moralità di questi atti naturali in concreto si devono osservare tutte le fonti della moralità, l’ordinazione oggettiva al fine dell’opera, il fine dell’agente e tutte le altre circostanze (bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu). Ma in questi atti non indifferenti della loro specie, la moralità intrinseca e specifica dell’atto non può essere costituita dal fine dell’operante, che tuttavia può aggiungere una moralità accidentale, buona o cattiva, all’atto, che è ormai costituito nella sua malizia o bontà essenziale. Così intendere il bere e il mangiare per fini più alti del loro fine specifico aumenta il valore dell’atto sotto l’aspetto morale. Così l’atto di lussuria che deriva la malizia specifica ed intrinseca dal suo oggettivo disordine riguardo all’ordine dovuto e al fine dell’opera, non può essere giustificato da nessun fine di chi opera e la malizia specifica di tale atto lussurioso si contrae appena essa è appresa da chi agisce.



3. Bisogna però notare che è proprio della vita non solo frenare la forte tenderla che spinge illecitamente agli atti piacevoli che rientrano nel suo ambito, ma anche, all’occasione, stimolare l’appetito che per qualsiasi motivo rifugge, indebitamente agli atti necessari nella propria materia ed obbligatori, così che in essi conservi la moderazione da tutte e due le parti, dall’eccesso e dal difetto.


Perciò la temperanza si oppone al vizio dell’insensibilità per difetto nel porre gli atti obbligatori alla conservazione dell’individuo e della specie; e insieme al vizio dell’intemperanza per eccesso sia riguardo al modo o alle circostanze dell’atto stesso sia riguardo agli atti stessi non leciti, almeno per il momento, al soggetto che agisce. Pecca dunque per difetto contro la temperanza (insensibilità) colui, il quale lede l’ordine della ragione astenendosi indebitamente dagli atti obbligatori alla conservazione dell’individuo e della specie per qualsiasi motivo non onesto e così nuoce alla propria sanità o trascura i doveri del proprio stato (373).


L’intemperanza si oppone per eccesso alla virtù della temperanza relativamente agli atti ordinati alla conservazione dell’individuo e della specie. Perciò è intemperante l’agente, il quale, o per piacere o per qualsiasi altro motivo, pone atti, i quali per sé non possono essere ordinati al fine dell’opera, come la polluzione, la fornicazione, il mangiare troppo o pone atti, rispondenti da parte dell’oggetto al fine dell’opera, ma nell’intenzione o per le circostanze non rispondenti all’ordine della ragione, p. es. mangiando con troppa ingordigia.



4. Specie della temperanza o parti soggettive. Il campo della virtù della temperanza, è come si è visto, molto vasto: moderare tutti gli atti diretti alla conservazione dell’individuo e della specie. Evidentemente si tratta di due serie di atti specificamente distinti e perciò si hanno due aspetti distinti della virtù della temperanza a seconda se modera i primi o i secondi. Se diretta a moderare gli atti della riproduzione, la temperanza si concreta nella virtù specifica della castità; se rivolta a moderare gli atti della conservazione individuale, si ha l’astinenza e la sobrietà. Alla conservazione dell’individuo concorrono infatti atti che presentano differenze di ordine non solo biologico, ma anche psichico, se si attende specialmente alle ripercussioni che l’eccesso del bere e del mangiare possono avere nelle funzioni intellettive e volitive della persona. Anche qui dunque la temperanza presenta due aspetti diversi a seconda se modera le operazioni del bere o del mangiare. Questi vari aspetti della virtù sì chiamano con linguaggio scolastico parti soggettive della virtù.


a) L’astinenza è detta quella funzione della virtù della temperanza in quanto modera l’uso degli alimenti, dei cibi e delle bevande. Il suo oggetto materiale è l’uso degli alimenti o atti che riguardano la conservazione dell’individuo. L’oggetto formale sono i medesimi atti in quanto sono da moderarsi secondo la retta ragione e la fede (374). Il motivo poi formale è la particolare onestà che rifulge in quella moderazione.
Il vizio opposto, oltre l’insensibilità o l’eccessiva astinenza dalle bevande o dai cibi, è la gola od il disordinato uso degli alimenti. Perciò pecca di gola anche colui il quale, per motivo diverso dall’eccessivo desiderio di piacere, come per emulare dei competitori, anche se lo stomaco è renitente, ingerisce tuttavia un peso immoderato di cibi.


b) La sobrietà è la virtù della temperare in quanto si considera moderatrice dell’uso degli inebrianti (bevande od altre materie inebrianti sia solide che gassose, come per es. morfina, oppio, cocaina, cloroformio, etere ecc.). Il maggiore motivo che può indurre il soggetto all’eccesso è l’appetito del piacere; ma vi possono essere anche altri motivi. Così se alcuno per gara si inebria fino a perdere l’uso di ragione non vi è dubbio che offende la virtù della sobrietà, perché di fatto lede l’ordine della retta ragione nell’uso degli inebrianti. Al contrario colui che per un onesto motivo si astiene dall’uso di alcuni cibi, bevande o piaceri venerei non incorre affatto il rimprovero di insensibilità, anzi osserva la temperanza in maniera anche più perfetta. Cosi chi per motivo di religione (375) si astiene da certi cibi a lui piacevoli, compie opera più perfetta, purché non gli sia vietata quella astinenza per altro motivo e osservi la giusta misura imposta dalla ragione e della fede. Una simile azione viene emessa allora dalla virtù dell’astinenza, di cui è materia propria, ma è comandata dalla virtù della religione.
Si riconnette alla virtù della temperanza anche l’uso del tabacco, dei profumi ed altre simili cose. Coerentemente ai principi sopra esposti non vi è nell’uso di queste cose nulla di illecito, anche se non si miri che al piacere purché non si ecceda nell’uso di esso (376).
c) Al problema della castità vanno connessi tanti altri problemi da richiedere una trattazione a parte.



NOTE


371     Cfr. A. SERTILLANGES, La philosophie morale de St. Thomus d’Aquin, Paris 1922, 445-54; A. TANQUEREY, Compendio di teologia ascetica e mistica. Roma 1927, 538 ss., 676 ss.; J. LECLERCQ, La vie en ordre. Essai de morale catholique, IV, Bruxelles 1839, 225 ss.; R. GARRIGOU-LAGRANGE, Les trois àges de la vie intérieure, II, Paris 1938, 141-52; E. JANVIER, Esposizione della morale cattolica, IX, Torino 1939; P. LUMBRERAS, De fortitudine et temperantia, Roma 1939; V, VANGHELUWE, De temperantia stricte dicta eiusque partibus subiectivis, in Collationes brugenses, 47 (1951) 38-48.


372     Cfr. Le proposizioni 8a e 9a, condannate da Innocenzo XI (5 marzo 1679); Denz. S. 2108-2109 (già 1158-1159); enc. Casti connubii: Denz. S., nn. 3316-3317 (già 2239-2240, dove il testo è più integro).


373      S. Tommaso sembra tacciare di insensibilità solo il modo di agire di colui il quale omette questi atti obbligatori, perché giudica cattivi in sé i piaceri congiunti ai medesimi (S. Theol. 2-2, q. 162, a. 1). Ma le virtù sogliono in tutta la materia a loro soggetta difendere il retto ordine della ragione contro qualsiasi difetto, perciò pecca contro la temperanza anche colui, il quale, ad es., per vanagloria o per superare il competitore, si astiene a lungo da ogni cibo nutritivo.


374   S. LYONNET, De ieiunio et abstinentia ut fontibus caritatis, in Verbum Domini (1952) 92.100; G. BONDI, La mortificazione esterna, Torino 1947.


375  Che la mortificazione della gola possa costituire un atto di religione e di culto, appare così naturale, che lo troviamo praticato in molte religioni, anche non cristiane. Già nei libri del Vecchio Testamento il digiuno e la preghiera insieme uniti figuravano tra i mezzi più propri ad ottenere grazie da Dio (Tb 12, 8; Gdt 8, 6; Est 14, 2 ecc.).


Anche la Chiesa cattolica, considerando l’astinenza come virtù meritoria o riparatrice la impone ai fedeli, fissandone il modo ed il tempo.


La legge dell’astinenza e del digiuno è oggi regolata dalla cost. ap. Poenitemini del 17 febbraio 1966: AAS 58 (1966) 171-198, che insiste sul significato interiore e spirituale della penitenza; prescrive l’osservanza “sostanziale” della legge, senza perdersi nella casistica e avvia all’educazione al senso di penitenza personale, consentendo la commutazione dell’oggetto della legge con opere di carità ed esercizi di pietà.


La legge dell’astinenza propriamente detta prescrive l’astensione dall’uso della carne degli animali ” che vivono e respirano sulla terra e nell’aria ” (S. Theol. 2-2, q. 147, a. 8); e dei concentrati di carne nei giorni di penitenza, cioè: a) tutti i venerdì dell’anno, a meno che non ricorra una festa di precetto (nella festa di S. Giuseppe, se cade in Quaresima, di per sé resta l’obbligo dell’astinenza), b) il mercoledì delle Ceneri. Non resta però proibito l’uso: a) dei vegetali, uova, latte e suoi derivati; dei pesci; degli animali terrestri a sangue freddo (molluschi, gamberi, granchi, testuggini, rane, ostriche); b) dei condimenti di qualunque specie, anche derivanti da grasso di animale. Soggetto della legge è ogni cristiano che abbia compiuto il 14° anno di età.


 La legge del digiuno ecclesiastico impone circa l’uso del cibo, nei giorni che obbliga, l’osservanza di tre condizioni, ossia: a) unica refezione; b) tempo generico di questa refezione (tiene luogo del pranzo, ma è commutabile con la cena); c) astinenza determinata di certi cibi.


La durata di un giorno di digiuno è computata da mezzanotte a mezzanotte. Entro questo tempo è permessa una sola refezione completa alla quale se ne accede per qualsiasi motivo un’altra uguale, il digiuno diventa impossibile e si ha l’infrazione del precetto. La consuetudine (oggi legge) ha aggiunto due altre piccole refezioni, il mattino (frustulum matutinum) e la sera (coenula vespertina). Queste però sottostanno a varie restrizioni circa la qualità (sulla qualità ci si attiene alle consuetudini; va però sempre esclusa la carne e il brodo di carne) e quantità dei cibi (consuetudini locali), mentre per la refezione principale non vi è una quantità determinata di cibo da prendersi.


Così pure non è determinata la qualità.


Nei giorni di solo digiuno:


a) non è esclusa neppure la carne;


b) non è proibito mescolare carne e pesce (lo era però anticamente). Anche il posto che la refezione principale deve occupare nella giornata di digiuno non è strettamente determinato. Una qualche determinazione si ha circa la durata della refezione principale: non può protrarsi senza colpa oltre due ore salvo una giusta causa, e deve essere presa senza interruzione. L’interruzione in genere è ritenuta di non notevole entità entro mezz’ora.


La legge del digiuno e dell’astinenza è un precetto positivo e obbliga alla sua sostanziale osservanza sotto pena di peccato, di modo che chi abitualmente e senza motivo ne trascura l’osservanza in un intero anno, non sfugge al peccato grave. (Cfr. Risp. della S. Congr. per il clero, 24 febbraio 1967: AAS 59 [1967] 229). Alla legge del digiuno ecclesiastico sono tenuti tutti i battezzati dal 21° anno completo al 59° finito nei giorni del mercoledì delle Ceneri e Venerdì Santo. Il digiuno si viola sostanzialmente quando si prende tanta quantità di cibo che equivale ad un altro pranzo o refezione piena.


La violazione del digiuno accidentale avviene quando si prende qualche cosa come cibo, ma ancora rimane l’essenza del digiuno. Cause scusanti calla legge dell’astinenza e del digiuno sono: impossibilità morale, lavoro arduo, dispensa. A norma del decreto conciliare Christus Dominus, circa il ministero pastorale dei Vescovi (n, 38, 4), spetta alle Conferenze Episcopali: a) trasferire, per giusta causa, i giorni di penitenza, tenendo sempre conto del tempo quaresimale; b) sostituire, del tutto o in parte, l’astinenza o il digiuno con altre forme di penitenza, specialmente con opere di carità ed esercizi di pietà.


§ 2. Le Conferenze Episcopali, per informazione, comunichino alla Sede Apostolica quanto avranno stabilito in proposito. Ferma restando la facoltà dei singoli Vescovi di dispensare a norma dello stesso decreto Christus Dominus, n. 8 b, anche il parroco, per giusto motivo e in conformità alle prescrizioni degli Ordinari, può concedere, sia ai singoli fedeli, sia alle singole famiglie, la dispensa o la commutazione dell’astinenza e del digiuno in altre pie opere; delle stesse facoltà gode il Superiore di una Casa religiosa o di un Istituto clericale per i propri sudditi. Nelle Chiese Orientali spetta al Patriarca insieme con il Sinodo, o alla Suprema Autorità di ogni Chiesa insieme con il Concilio dei Gerarchi, il diritto di determinare i giorni di digiuno e di astinenza.


Cfr. T. ORTOLAN, Abstinence, in DTC, I, 261-271; P. MUGNIER, Abstinence, in DS, I, 115-133; ]eùne et abstinence par un prétre du diocèse de Lille, Paris 1920; A. THOUVENIN, Jeune, in DTC, VIII, 1411-18; P. Doux, Les appetits et le jeùne devant l’hygiène et la thérapeutique, Paris, 1924; I. BRYS, De parochorum potestate dispensandi, in Collationes brugenses, 24 (1924) 158-65; PH. MAROTO, De dispensatione ab abstinentia et ieiunio, in Sal terrae, 18 (1929) 470-71; M. CONTE A CORONATA, institutiones iuris canonici, Torino 1931, 142-147; C. TESTORE-G. DE NINNO, Astinenza, in EC, II, 221-226; P. PALAZZINI-G. SIRNA, Digiuno, in EC, IV, 1589-1595; J. JANINI CUESTA, San leronimo y el ayuno, Madrid 1949; G. BERTRAMS, II valore spirituale della penitenza cristiana, in L’osservatore romano, 20 febbraio 1966; F. GALEA, Poenitemini, in Diction. mor. et can., cura P. PALAZZINI, III, Romae 1966, 562-567.


376       Cfr. G. OESTERLE, De usu tabaci in statibus perfectionis, in Diritto eccles., 62 (1951) 1201-1206.