I DIRITTI ACQUISITI (26)

…> PROPRIETÀ DELLE COSE ACQUISITE..DIVERSI SISTEMI PER SPIEGARE LA PROPRIETÀ. PRINCIPI PER UNA SOLUZIONE DEL PROBLEMA. Carattere naturale del diritto di proprietà. a) cosa intendiamo per diritto di proprietà? b) La legittimità della proprietà privata c) il diritto di proprietà esorbita dal campo strettamente economico, ed investe il problema della libertà e delle varie libertà dell’individuo relativamente all’attuazione del suo proprio destino e dei compiti al medesimo assegnato nell’ambito della famiglia. Sua funzione sociale; Sua disciplina giuridica….

Trattato di Teologia morale


PARTE III


I DOVERI DELL’UOMO NEI SUOI RAPPORTI CON IL PROSSIMO


 


3. DIRITTI E DOVERI INDIVIDUALI – DIRITTI ACQUISITI


 


III. PRINCIPI PER UNA SOLUZIONE DEL PROBLEMA


 


A nessuno può sfuggire l’importanza, la gravita e la delicatezza del problema che noi oggi siamo chiamati ad esaminare: problema in se stesso già arduo, complesso, vitale; ma che assume particolare rilievo ed esige una speciale riflessione nel particolare momento storico che viviamo.


Il problema della proprietà interessa tanto la morale, quanto il diritto, quanto l’economia: donde il triplice aspetto (teologico morale, giuridico, economico: ossia i principi universali ed immutabili, l’ordinamento giuridico, le esigenze dinamiche della economia): tre aspetti distinti, ma non separati ne separabili, anche se i principi etici permettono un’ampia libertà di movimenti tanto al diritto quanto all’economia (174).


È superfluo, per altro, rilevare che la nostra non pretende essere in tutte le sue parti una definitiva esposizione di tesi, ma una semplice impostazione di problemi, e un’indicazione di indirizzi.


La finalità, ed i limiti, del nostro compito, in questa sede è quella di dare una sintetica esposizione dei principi della dottrina cattolica relativamente alla proprietà ed alle sue funzioni, affinché si giudichi su questa base e degli ordinamenti giuridici e delle esigenze della economia.


Parliamo di aspetto teologico-morale della proprietà, e non solo di aspetto morale della medesima, perché nel nostro esame, pur non trascurando gli elementi razionali, non ci affidiamo esclusivamente ai medesimi, ma intendiamo appoggiarci soprattutto alla dottrina rivelata ed alla intera tradizione cattolica.


Raggruppiamo. gli insegnamenti del cristianesimo ‘” intorno a questi tre concetti: 1) carattere naturale del diritto di proprietà; 2) sua funzione sociale; 3) sua disciplina giuridica.



1. Carattere naturale del diritto di proprietà.


a) Anzitutto è necessario intendersi sui termini: cosa intendiamo per diritto di proprietà?


Nei beni economici possiamo considerare un triplice rapporto:



1) un rapporto generale dei medesimi ai bisogni dell’uomo: ed in questo senso essi possono considerarsi come destinati a tutti: destinazione positiva ma generica, che non dà luogo né alla proprietà privata né ad una qualsiasi forma di comunismo positivo; ma costituisce una semplice comunità negativa dei beni, e che, appunto perché tale, non può essere assolutamente considerata come in contrasto con l’appropriazione dei beni stessi; che, anzi, essa almeno in moltissimi casi, non raggiungerebbe lo scopo cui è orientata, di servire, cioè, ai bisogni dell’uomo, se non permettesse ai singoli l’appropriazione ed il consumo dei beni o per lo meno l’uso temporaneo ed esclusivo dei medesimi;



2) di qui. il secondo rapporto: rapporto d’uso limitato ai bisogni presenti: l’uso di molte cose è necessariamente limitato ad una o poche persone, ed è quindi nel naturale destino di esse di diventare oggetto di un diritto particolare ed esclusivo, relativamente almeno al soddisfacimento di un determinato bisogno. Diritto particolare ed esclusivo di chi? Di colui che, senza violenza e senza far torto al diritto di altri le assoggetta mediante l’occupazione od il lavoro, ai propri bisogni. Né codesto assoggettamento, ove si tratti di cose nelle quali l’uso non si risolve in consumo, si oppone alla loro comunità negativa o toglie loro codesta caratteristica, ma al più la sospende; giacché, terminato l’uso, le medesime cose tornerebbero automaticamente nella loro comunità negativa, ove non intervenisse il fatto di una stabile appropriazione (si pensi alla proprietà ossia all’uso della terra presso le prime generazioni di uomini ed agli usi delle tribù nomade);



3) ma è proprio il terzo rapporto – rapporto stabile di proprietà privata -, oltre le esigenze dei bisogni attuali, che può fare difficoltà, e che costituisce l’oggetto specifico delle nostre indagini (177).


È questa proprietà che i comunisti chiamano un furto, e di cui noi, invece, affermiamo il carattere naturale.


Con ciò vogliamo dire due cose: che la proprietà privata è lecita e che il diritto alla medesima ha il suo fondamento nella natura; è ” a natura datum ” e che, perciò, l’attuazione del medesimo è ” secundum naturarm ” (Rerum novarum).


La differenza di questi concetti è evidente: esistono, infatti, espressioni e fenomeni della vita sociale che, pur essendo leciti, non possono dirsi e non sono naturali, ripetendo la loro origine da consuetudini umane o da ordinamenti giuridici positivi, e che, quindi, possono essere legittimamente aboliti.


Non così del diritto di proprietà. Ma se questo è ” a natura datum “, si capisce facilmente che l’effettiva divisione dei beni non è della natura, pur essendo conforme alla medesima (secundum naturam).



b) La legittimità della proprietà privata trova la sua prova teologica, esplicita o implicita, in non pochi passi della Scrittura (basta appena riflettere che la rinuncia ai propri beni, legittimamente acquistati, non entra, nel pensiero di Cristo, nella zona dei precetti, ma nella sfera dei consigli); nella tradizione patristica (anche se i Padri in genere, intenti a combattere l’avarizia e ad inculcare l’elemosina, mettono l’accento con espressioni a volte paradossali (178), sulla funzione sociale della proprietà); nella prassi e nella dottrina della Chiesa (è appena necessario ricordare i documenti pontifici più salienti,  dalla Rerum novarum alla Quadragesimo anno, a molti Messaggi di Pio XII (179), pur non nascondendoci il progresso delle idee che si ha con le encicliche più recenti di Giovanni XXIII e di Paolo VI, nonché con i testi del Vaticano II).



c) Non solo; ma il diritto di proprietà, tenuto conto delle funzioni che è chiamato ad assolvere e delle premesse da cui dipende, esorbita dal campo strettamente economico, ed investe il problema della libertà e delle varie libertà dell’individuo relativamente all’attuazione del suo proprio destino e dei compiti al medesimo assegnato nell’ambito della famiglia.


Ecco, difatti, è connesso: 1) con il diritto dell’individuo, che ne è capace, al libero governo di sé ed alle connesse provvidenze e previdenze di ordine economico, che esigono qualche cosa di più della semplice precaria ed incerta possibilità di usare od appropriarsi dei beni richiesti per il soddisfacimento dei suoi bisogni attuali (diritto questo, al quale egli può abdicare volontariamente, affidandosi alla provvidenza ed alle previdenze di una comunità cui aderisce volontariamente, diritto che può e deve essere altresì disciplinato dalla società ma non può essere tolto, anche dietro l’assicurazione di una più sicura e più larga provvidenza); 2) con il diritto dell’individuo alle altre legittime libertà (di studio, di professione ecc.) ed all’affermazione dei poteri della sua personalità: libertà ed affermazione che trovano assai spesso nell’indipendenza economica una necessaria condizione od una utilissima premessa; 3) con il diritto dell’uomo ai frutti del suo lavoro e del suo risparmio, incorporati nel capitale; 4) con i suoi diritti e doveri di provvidenza e previdenza familiare, relativamente ai quali è certamente lecito e talvolta richiesto l’intervento dello Stato, volto a favorire, potenziare od anche supplire l’operosità dei singoli, ma sarebbe sicuramente illegittimo ed innaturale qualora volesse sostituirsi all’opera dei medesimi, essendo ciò in netto contrasto con la finalità della famiglia e con una delle principali ragioni d’essere della indissolubilità del vincolo coniugale.


A ciò si aggiunga lo stesso interesse sociale, considerato tanto nel suo aspetto economico quanto negli altri elementi di pubblico ordine e di prosperità comune. Rilievo, quest’ultimo soprattutto, che orienta spontaneamente l’indagine verso l’altro concetto enunziato fin da principio: la naturale funzione sociale della proprietà.


Ben compendia quanto siamo venuti fin qui dicendo il Concilio ecumenico Vaticano II:


“Perché la proprietà e le altre forme di potere privato sui beni esteriori contribuiscono alla espressione della persona ed inoltre danno occasione all’uomo di esercitare il suo responsabile apporto nella società e nella economia, è di grande interesse favorire l’accesso di tutti, individualmente o in gruppo, ad un certo potere sui beni esterni.


La proprietà privata o un qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona indispensabile di autonomia personale e familiare, e devono considerarsi come un prolungamento necessario della libertà umana. Infine, stimolando l’esercizio della responsabilità, essi costituiscono una delle condizioni delle libertà civili.


Le forme di tale potere o di tale proprietà sono oggi varie e vanno modificandosi sempre più di giorno in giorno. Nonostante i fondi sociali, i diritti e i servizi garantiti della società, le forme di tale potere o di tale proprietà restano tuttavia una fonte non trascurabile di sicurezza. Tutto ciò non va riferito soltanto alla proprietà dei beni materiali ma altresì dei beni immateriali, come sono ad esempio le capacità professionali” (180).



2. Funzione sociale della proprietà.


a) Parliamo anche qui di funzione naturale, di funzione, cioè, che compete alla proprietà privata per legge di natura, prima ancora che essa trovi la sua determinazione in un qualsiasi ordinamento giuridico, che, perciò, non può considerarsi come un concetto sovrapposto al primo, una sovrastruttura logica che limiti e modifichi un diritto di proprietà già costituito con fisionomia e finalità del tutto individualistiche.


E ciò per diversi motivi: 1) la stessa originaria comune destinazione dei beni e la connessa comunità negativa dei medesimi, per cui fu possibile ai singoli, come abbiamo già osservato, rivolgergli in proprio vantaggio, impedisce che codesta appropriazione si risolva in una dannosa esclusione degli altri: per questo S. Basilio (181) poteva osservare che se la proprietà non avesse codesta funzione, si dovrebbe tacciare di ingiustizia Dio; 2) lo stesso apporto di natura economica che, per diverse vie, deriva alla proprietà privata dall’opera degli altri e dalla organizzazione sociale costituisce un nuovo motivo per orientare i vantaggi della proprietà privata ad alteros; 3) la naturale subordinazione della parte al tutto, del bene particolare al bene comune – subordinazione che non tocca sicuramente la persona come tale che, per la sua individualità sostanziale, non può essere considerata come parte, ma tocca le sue attività ed i suoi beni, e fa sì che i beni della parte siano mediatamente beni del tutto (così come, d’altro canto, i beni del tutto siano anch’essi mediatamente beni delle parti) – codesta subordinazione intrinseca al convivere sociale, se si applica alle stesse attività dell’individuo ed ai beni naturalmente personali (ad es. la vita), a maggior ragione e per titoli ancor più urgenti deve applicarsi ai beni economici che hanno un’originaria destinazione universale.


Ragioni queste, dalle quali crediamo scaturisca logicamente e sia facilmente comprensibile un rilievo: che cioè la funzione sociale della proprietà non è limitata a quella porzione di proprietà che trascende i bisogni dei singoli, non tocca, cioè, unicamente il superfluo, ma si estende a tutta la proprietà, nei limiti si capisce delle necessità comuni ed in maniera diversa e proporzionata sia alla natura dei beni quanto ai bisogni o dei singoli o della comunità.



b) Una prima forma con cui la proprietà privata esplica codesta funzione sociale è, possiamo dire spontanea, nel senso che essa si orienta spontaneamente ad alteros, e ciò per due motivi: 1) per la sua naturale ed intrinseca funzione familiare, che, come abbiamo già osservato, costituisce uno dei motivi fondamentali che giustificano il diritto di proprietà; 2) per il naturale rifrangersi del bene individuale sul bene collettivo, se si considera da una parte che è assurdo pensare ad un bene comune quasi ipostatizzato che si alimenti del continuo ed universale sacrifizio del bene individuale (quasiché non sia proprio questo il fine della società, di provvedere al bene comune dei singoli) e se si considera, d’altra parte, che ordinariamente e comunemente non esiste stimolo più efficace alla produttività e, quindi, al benessere comune, del vantaggio economico individuale. Per questo, ossia per un motivo del tutto simile e connesso, l’iniziativa privata nel campo della produzione è considerata come lo strumento efficace ed utile dell’interesse della nazione.



c) Non è tuttavia, in questa funzione spontanea che si esaurisce la finalità sociale della proprietà, non essendo possibile oggi abbandonare la piena e costante attuazione della medesima al gioco degli egoismi individuali; ma è necessario che ciò avvenga attraverso alla volontaria provvidenza dell’uomo, il quale, pur rimanendo, entro i limiti che in seguito esamineremo, il legittimo ed esclusivo proprietario dei beni, li rivolga a vantaggio anche degli altri.


La tradizione dell’insegnamento della Chiesa è su questo punto uniforme e costante: il divino precetto dell’elemosina trova nei Padri un eloquente commento, non privo talvolta di aggressività polemica e di espressioni paradossali, ma che si ispira costantemente al concetto della destinazione universale dei beni economici, e trova, infine, la sua sistemazione dottrinale nella formula di S. Tommaso, il quale, distinguendo nella proprietà la potestà dall’uso (usus), afferma quanto alla prima che è lecito all’uomo che possa possedere (propria possideat], mentre quanto all’usus egli deve considerare le cose non come proprie, ma come comuni (non ut proprias, sed ut communes), perché più facilmente possa comunicarle agli altri  (ut de facili eas communicet in necessitate aliorum) (182).



d) È appena necessario osservare che codesto comunismo d’uso, se così vogliamo chiamare codesta comunità di destino dell’uso della proprietà privata (considerando l’uso nella sua accezione più larga); comunismo che compete alla proprietà per diritto di natura, prima di qualsiasi intervento legislativo, non ha nulla a che fare col vero comunismo; giacché, a prescindere dalle limitazioni giuridiche imposte alla proprietà dalla legge e di cui parleremo in seguito, essa non rende di per sé i beni comuni (communia) ma comunicandi (communicanda).


Da quanto abbiamo finora rilevato, relativamente alla funzione sociale della proprietà, considerata sotto il solo aspetto del diritto di natura, segue: 1) che la proprietà non può essere considerata come una funzione, sociale (giacché questo concetto la svuoterebbe del suo contenuto e delle sue finalità individuali), ma come avente una funzione sociale; 2) che codesta funzione, considerata nel solo diritto naturale, non può essere riguardata come una limitazione giuridica del diritto di proprietà, ma come un obbligo etico inerente alla medesima; 3) che tanto meno può dirsi che con l’abuso e col non uso del diritto di proprietà questo venga a cessare, mentre l’uso onesto del medesimo e la comunicazione dei suoi frutti agli altri sono imposti ai singoli, atteso sempre il diritto di natura, non dalla giustizia commutativa, ma dalle altre virtù di ordine morale; 4) che sarebbe estremamente pericoloso o per lo meno equivoco introdurre nella definizione della proprietà l’obbligo del suo uso sociale, non essendo logico introdurre un elemento etico in un concetto giuridico, e non essendo possibile convenire codesto obbligo etico in obbligazione giuridica senza considerare la funzione sociale della proprietà come una limitazione giuridica della medesima e condannare perciò di ingiustizia colui il quale vien meno ad esso; 5) che opportunamente Pio XI nell’Enc. Quadragesima anno ha condannato coloro i quali hanno rimproverato alla Chiesa di aver permesso che fosse accolto nella dottrina dei suoi teologi il concetto romano della proprietà.


Con ciò non si vuol dire che, considerando solo la legge di natura, esista un diritto all’abuso della proprietà, ma si vuoi soltanto osservare che, nonostante l’abuso, degno di tutta la condanna, il diritto può ancora sussistere (183).


Inoltre i doveri che, considerato il solo diritto di natura, non sono giuridici possono diventare tali per l’intervento legittimo del potere dello Stato.



e) Ci dispensiamo, in questa sede, di enumerare e classificare i vari doveri etici che presiedono all’impiego sociale della ricchezza, secondo la legge di natura.


Ci limitiamo soltanto a dire che essi si raggruppano facilmente intorno alla beneficenza ed alla giustizia legale.


Quanto alla beneficenza ricordiamo, senza scendere a determinazioni casistiche; 1) che l’obbligo della beneficenza o meglio di rendere partecipi dei propri beni gli altri è di natura sua grave; ma che la concreta determinazione sia del dovere come della sua gravità va ricercata nel grado di necessità (singolare o comune) del prossimo e nella capacità economica del proprietario; 2) che codesto dovere investe certamente, in alcuni casi, i beni così detti assolutamente superflui, quelli cioè che non sono assorbiti né dai bisogni vitali ne dai bisogni sociali, relativi alla propria dignità e condizione; 3) che talvolta si deve fare anche sacrificio dei beni relativamente superflui, quelli cioè che non sono assorbiti dai bisogni vitali e sono in un certo senso necessari ai bisogni sociali (184) ;



4) che nel caso di estrema necessità altrui, attesa l’originaria comune destinazione dei beni, se non è provato l’obbligo di giustizia di provvedere a codesto bisogno, è però contro la giustizia impedire al bisogno l’uso dei beni ai quali egli legittimamente aspira.


Quanto, poi, ai doveri di giustizia legale ci limitiamo a ricordare che codesta virtù è in rapporto con il diritto mediato della società sui beni dei singoli, diritto necessariamente circoscritto dai limiti delle esigenze comuni e con la relativa subordinazione dei beni dei singoli al bene comune. Pertanto: 1) codesta legge di subordinazione deve essere sempre tenuta presente, nel senso che, indipendentemente dalla stessa legge positiva, impone ciò che è necessario al bene comune; 2) essa può esigere talvolta anche ciò che non sarebbe richiesto per dovere di semplice carità, vale a dire il sacrificio anche di quei beni che sono necessari alla sussistenza, così come può esigere, in una forma ancor più immediata, lo stesso sacrificio della vita; 3) la giustizia sociale impone, infine, il dovere di ottemperare alle legittime determinazioni giuridiche che limitano o regolano il diritto di proprietà, perché esso assolva la sua funzione sociale.


Sempre più manifestamente nel più recente insegnamento della Chiesa si riscontra la preoccupazione che lo sviluppo economico sia abbandonato all’arbitrio di pochi uomini o gruppi, forniti di strapotere, o della sola comunità politica o di alcune potenti nazioni (cf. 65). Quale rimedio a tale situazione la cost. past. Gaudium et spes suggerisce che tutti i cittadini, e in particolare i lavoratori, abbiano la possibilità concreta ed effettiva di controllare i pubblici poteri, di intervenire e partecipare alle decisioni che li coinvolgono (cfr. n. 68).


La Gaudium apre dunque in tema di proprietà nuove prospettive che, pur saldandosi col passato, quanto alla sostanza, meglio ne precisano il senso e la portata nell’attuale contesto economico-sociale. La funzione sociale è talmente essenziale alla proprietà privata, che il suo pratico oblio rende la proprietà fonte di cupidigia e di scandali tali da offrire facile pretesto agli oppositori per mettere in discussione lo stesso diritto di proprietà (cfr. n. 71): il documento inoltre delimita l’estensione di questo diritto riconoscendo concretamente: la naturale e universale destinazione dei beni a tutti gli uomini, il diritto di tutti a partecipare all’iniziativa economica, l’esigenza di un più energico intervento dello Stato, la legittimità della proprietà pubblica dei grandi mezzi di produzione, il ruolo primario del lavoro nella vita economica, l’importanza delle forme sociali di proprietà e, finalmente, assumendo la categoria di proprietà sotto il concetto di potere sui beni che meglio esprime il diritto naturale della persona.


Dice testualmente la cost. Gaudium et spes:


“La legittimità della proprietà privata non è in contrasto con quella delle varie forme delle pubbliche proprietà. Però il trasferimento dei beni in pubblica proprietà non può essere fatto che dalla autorità competente, secondo le esigenze ed entro i limiti del bene comune e con un equo indennizzo. Mentre spetta alla pubblica autorità di impedire che si abusi della proprietà privata agendo contro il bene comune.


Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questa funzione sociale, la proprietà può diventare in molti modi occasione di cupidigia e di gravi disordini, così da offrire facile pretesto agli oppositori per mettere in discussione lo stesso diritto di proprietà ” (185).



3. La disciplina giuridica della proprietà.


a) Abbiamo già detto che i doveri che, considerato il solo diritto di natura, non sono giuridici, possono diventare tali per l’intervento del legittimo potere dello Stato. Ad esso spetta, infatti, in maniera particolare il compito di attuare in pieno, attraverso ai suoi ordinamenti giuridici ed alle sue provvidenze economiche, la funzione sociale della proprietà privata. E ciò per due motivi; per la indeterminazione della legge naturale e per la comune pressione degli istinti egoistici, per cui non è lecito affidarsi esclusivamente alla norma etica ed alla buona volontà dei singoli.


Pio XI nell’Enc. Quadragesimo anno spiega: “E veramente dal carattere stesso della proprietà privata che abbiamo detta individuale insieme e sociale, si deduce che in questa materia gli uomini devono aver riguardo non solo al proprio vantaggio, ma altresì al bene comune. La determinazione poi di questi doveri in particolare e secondo le circostanze, e quando non sono già indicati dalla legge di natura, è ufficio dei pubblici poteri”.


E l’enc. Mater et magistra (15 maggio 1961) aggiunge:


“La proprietà privata, anche dei beni strumentali, è un diritto naturale che lo Stato non può sopprimere. Ad essa è intrinseca una funzione sociale, e però è un diritto che va esercitato a vantaggio proprio e a bene degli altri.


Lo Stato, la cui ragion d’essere è l’attuazione del bene comune nell’ordine temporale, non può rimanere assente dal mondo economico; deve esser presente per promuovervi opportunamente la produzione di una sufficiente copia di beni materiali, l’uso dei quali è necessario per l’esercizio della virtù, e per tutelare i diritti di tutti i cittadini soprattutto dei più deboli, quali sono gli operai” (186).



b) Si capisce, quindi, che il potere dello Stato su questo terreno, così come negli altri settori della vita pubblica, non è assoluto, ma trova necessariamente dei limiti nella legge di natura e nella sua specifica funzione.


La legge di natura non gli consente di abolire né formalmente né virtualmente il diritto di proprietà ed il connesso diritto della trasmissione ereditaria dei beni, e la sua specifica funzione, cui è chiamato sempre ad ispirarsi, limita naturalmente la sua attività ed il suo intervento a ciò che è necessario per il bene comune, non essendo esso chiamato a mortificare, ma piuttosto a proteggere e potenziare la iniziativa sia dei singoli come delle minori società, e non dovendo, perciò, alle medesime sostituirsi se non quando ciò è richiesto dalle vere esigenze del bene comune.



c) Tuttavia, entro questi limiti, non è possibile determinare a priori le varie forme di economia sia indiretta che diretta attraverso alle quali esso può assolvere il suo compito (187).



d) In questa medesima scelta dell’ordinamento giuridico della proprietà privata, in tanta diversità di forme possibili, non è il capriccio od il semplice arbitrio che deve prevalere, ma il vero interesse comune, valutato secondo le esigenze dei tempi.


Per questo motivo gli stessi Sommi Pontefici che si sono in questi ultimi anni succeduti sulla Cattedra di Pietro, considerando i mali economici, non hanno mancato di indicare i principi fondamentali, ai quali una saggia legislazione dovrebbe ispirarsi. Un’attenta lettura comparativa dei diversi documenti pontifici rivela chiaramente una sempre maggiore determinazione di questi medesimi principi, con una sempre più accentuata tendenza a mettere in rilievo la natura della funzione sociale che la proprietà è chiamata ad assolvere. L’ultima parola in materia è dell’enc. Populorum progressio.


La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola ” il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento della utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei Padri della Chiesa e dei grandi teologi “. Ove intervenga un conflitto ” tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali “, spetta ai poteri pubblici ” applicarsi a risolverlo, con l’attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali ” (188).


L’enciclica da anche precisazioni su l’uso dei redditi e sull’industrializzazione; ” il bene comune esige dunque talvolta l’espropriazione, se per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni, del danno considerevole arrecato agli interessi del paese, certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva. Affermandolo in maniera inequivocabile, il Concilio ha anche ricordato non meno chiaramente che il reddito disponibile non è lasciato al libero capriccio degli uomini, e che le speculazioni egoiste devono essere bandite. Non è di conseguenza ammissibile che dei cittadini provvisti di redditi abbondanti, provenienti dalle risorse e dall’attività nazionale, ne trasferiscano una parte considerevole all’estero, a esclusivo vantaggio personale, senza alcuna considerazione del torto evidente ch’essi infliggono con ciò alla loro patria. Necessaria all’accrescimento economico e al progresso umano, l’introduzione dell’industria è insieme segno e fattore di sviluppo.


Mediante l’applicazione tenace della sua intelligenza e del suo lavoro, l’uomo strappa a poco a poco i suoi segreti alla natura, favorendo un miglior uso delle sue ricchezze. Mentre imprime una disciplina alle sue abitudini, egli sviluppa del pari in se stesso il gusto della ricerca e dell’invenzione, l’accettazione del rischio calcolato, l’audacia nell’intraprendere, l’iniziativa generosa, il senso delle responsabilità ” (189).


Al fine di realizzare l’uso sociale e comunitario dei beni, l’enciclica accentua la necessità di un intervento ampio ed organico dello Stato per riformare e programmare, espropriare latifondi improduttivi, sottrarre l’uso del reddito al ” libero capriccio degli uomini “, bandire speculazioni egoistiche, impedire fughe di capitali all’estero. Questo intervento, si precisa, non deve provenire tutto dall’alto, senza controlli ed interventi della base, ma implica ” l’attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sodali ” (23).


Interessanti sviluppi si riscontrano nel documento a proposito dell’espropriazione dei latifondi improduttivi (n. 32), la fuga dei capitali all’estero (n. 48), l’equità nelle relazioni commerciali (n. 56ss) e soprattutto in tema di superfluo: i principi tradizionali vengono infatti estesi dalle relazioni intersoggettive o interclassiste (dator di lavoro e prestatori d’opera) ai rapporti internazionali: “II superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri” (n. 49) (190).


La condanna dell’esclusivismo nell’uso dei beni non rappresenta una norma etica solo per l’individuo, ma vale anche per gli Stati, i quali non possono (sotto il profilo etico) avanzare pretese esclusivistiche nei confronti dei beni di cui dispongono. Affermando che la regola del superfluo deve essere oggi estesa alla totalità dei bisogni del mondo, il documento stimola i moralisti ad una riflessione più accurata in tema di proprietà e superfluo sia a livello intersoggettivo che interstatale.


Sul problema del latifondo in particolare si era soffermata la cost. past. Gaudium et spes:


“In molti paesi economicamente meno sviluppati, esistono proprietà agricole estese od anche molto estese, mediocremente coltivate o tenute in riserva per motivi di speculazione senza coltivarle; mentre la maggioranza della popolazione è sprovvista di terreni da lavorare o fruisce soltanto di poderi troppo limitati, e d’altra parte, l’accrescimento della produzione agricola presenta un carattere di evidente urgenza. Non è raro che coloro che sono assunti ad un lavoro dipendente da coloro che detengono tali vasti domini ovvero coloro che ne coltivano una parte a titolo di locazione ricevono un salario o altre forme di remunerazione che sono indegni di un uomo, non dispongono di una abitazione decorosa, o sono sfruttati da intermediari. Mancando così ogni sicurezza, vivono in tale Stato di dipendenza personale, che viene loro interdetta quasi ogni possibilità di agire di propria iniziativa e con personale responsabilità, e viene loro impedita ogni crescita nelle espressioni della umana civiltà ed ogni partecipazione attiva nella vita sociale e politica. Si impongono pertanto, secondo le varie situazioni, delle riforme intese ad accrescere i redditi, a migliorare le condizioni di lavoro, ad aumentare la sicurezza dell’impiego e a favorire l’iniziativa personale; ed anche riforme che diano modo di distribuire i fondi non sufficientemente coltivati a beneficio di coloro che siano capaci di metterli in valore ” (191).



d) Non è nostro compito esaminare in quale misura il diritto delle singole nazioni abbia già provveduto ad assicurare alla proprietà la sua funzione sociale, ed in che modo esso si sia finora ispirato ai proposti principi! così come non è nostro compito esaminare le esigenze e le possibilità della economia di oggi e di domani: ciò spetta ai sociologi ed economisti.


Ma non possiamo fare a meno, di rilevare che le norme giuridiche sono chiamate ad appoggiare, determinare ed integrare la norma etica, ma che non possono in nessun modo prescindere dal suo contenuto e sostituirne la forza e l’efficacia vincolatrice, e che senza lo spirito di carità che infreni gli egoismi ed orienti lo spirito ad alteros qualsiasi riforma è destinata a naufragare.



e) Una delle forme più ardite di intervento statale è la socializzazione dei grandi mezzi di produzione e delle tonti di energia.


Poiché, nella grande impresa moderna si trovano cointeressati azionisti, imprenditori prestatori d’opera, Stato e consumatori, non si può certo ammettere, anche dal punto di vista morale, che a disporre dell’andamento dell’impresa, del suo inizio e delle sue scelte, dei suoi utili e profitti siano esclusivamente i detentori del capitale. Giustizia esige che i lavoratori in forme sempre più adeguate partecipino alla gestione dell’impresa, il cui andamento è profondamente connesso alle loro prestazioni; del pari non possono essere ignorati i diritti dei consumatori e quelli dello Stato, non solo in veste di azionista, nelle aziende a partecipazione statale, ma soprattutto in quanto supremo responsabile della cosa pubblica. Lo rileva la Octogesima adveniens: è al potere politico che appartiene l’ultima istanza anche in materia economica, poiché, nell’attuale contesto, ogni intrapresa economica e sociale assume sempre più una dimensione che investe tutta la comunità (cfr. n. 46) (192).


Poiché l’esperienza dimostra che l’eccessivo potere economico impedisce l’indispensabile autonomia del potere politico, oggi sempre più chiaramente si ravvisa la necessità di socializzare le fonti di energia e gli strumenti produttivi o di comunicazione, che darebbero ai privati un potere esorbitante. Le forme di socializzazione attraverso cui si effettua il passaggio ad un’economia non esclusivamente o prevalentemente privatistica, sono assai diverse.


Alcuni paesi stanno sperimentando le nazionalizzazioni delle fonti di energia, delle ferrovie, delle assicurazioni e di quei settori produttivi che non si ritengono gestibili dai privati. Altri preferiscono forme più moderate che si compendiano nel termine socializzazione: al capitale privato si associa quello dello Stato senza che per questo esso divenga Stato-imprenditore e si effettui il trapasso da un capitalismo privato ad un capitalismo di Stato.


Il giudizio morale su queste forme ovviamente deve essere cauto e presuppone corretta informazione e competenza. Il moralista deve soprattutto attendere al fatto che la persona e i gruppi siano messi nella condizione di autorealizzarsi con libera dignità e che i beni, giusta l’intenzione di Dio, pervengano a tutti, senza cristallizzazioni in settori privilegiati.


Dai moralisti, però, si riconosce sempre la doverosa rimunerazione in caso di espropriazione e l’opportunità di conservare quelle forme di proprietà privata che assolvano la loro funzione sociale e promuovano il bene comune.





Note


174          Cfr. F. FEROLDI, Orientamenti economico-sociali, Brescia 1945.


175            Cfr. R. SPIAZZI, Politica e morale, p, 254 ss.; L. LOMBARDI, La fondazione del diritto di proprietà privata nella seconda scolastica, Roma 1958.


176     Cfr. L. VANNICELLI, Proprietà. XIII: II diritto di proprietà nell’etnologia, in EC, X, 149-152.


177     Così inteso il diritto di proprietà è la facoltà di possedere e di usare dei beni conseguentemente a un rapporto di appartenenza. Questi due clementi, che ne costituiscono l’essenza completa, sono separabili l’uno dall’altro, potendosi dare una nuda proprietà, ossia un rapporto di appartenenza a cui non segue, definitivamente o temporaneamente, la facoltà di disporre (così nel caso di infermità di mente o di minore età). Viceversa si può dare un puro possesso, che importa una facoltà di disporre dei beni, non fondato sul predetto rapporto. Ma anche riuniti nel medesimo soggetto del diritto, i due elementi differiscono quanto alle caratteristiche della esclusività e dell’indipendenza che all’uno e all’altro competono.


178          Cfr. ad es. LATTANZIO, Div. inst., 1. 5, c. 15; 1. 6, c. 12; S. BASILIO, Hom. in textum S. Lucae: destruam horrea mea, n. 2 e 5; J. A. RYAN, Alleged socialism of the Church Fathers, S. Louis 1913.


179         Cfr. Allocuzione natalizia 1939; Radiomessaggio 1° giugno 1941; Radiomessaggio natalizio 1941 e 1942; Radiomessaggio di Pentecoste 1942; Radiomessaggio 1° settembre 1944; Radiomessaggio natalizio 1944, ecc.


180      Cost past. Gaudium et spes, n. 71. Sull’argomento che segue, oltre gli studi già citati all’inizio della presente esposizione, rfr. A. VERMEERSCH, La funzione sociale della proprietà, in I problemi economico-sociali dell’ora presente, Roma 1920; J. PEREZ GARCIA, De principiis; functionis socìalis proprietatis privatae apud Divun Thomam Aquinatem, Priburgo i. S. 1924; A. VERMEERSCH , Crise sociale et théories réformistes, in ” Dossiers de l’Action Populaire “, Paris 1930; J. M. PALACIO, Concetto cristiano della proprietà, Milano 1937; J. DANIELOU, La propriéte privée et sa fonction, in Etudes, 20 ottobre 1933; I. HÓFNER, II concetto della proprietà e gli odierni principi della tassazione dal punto di vista della morale, in Jus, 3 (1952) 369-380; AA. VV., La vita economica nel magistero della chiesa, Milano 1966; G. MATTAI, La proprietà privata nella Populorum progressio, in Riv. di teol. mor., 1 (1969) 2, 13-61; AA. VV.,


I problemi dell’economia mondiale alla luce della ” Populorum progressio “, Milano 1967.


181     Hom. in textum S. Lucae: destruam horrea mea; n, 2 e 5.


182     Ciò, però, non toglie che si debba tener conto della funzione sociale della proprietà, non solo nel momento del consumo, ma anche, e forse soprattutto, in quella della produzione: l’usus di S. Tommaso ha un significato larghissimo (S. Theol. 2-2, q. 66, a. 2), come ben commenta il Concilio ecumenico Vaticano II: “Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità. Pertanto, quali che siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta di diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e Dottori della Chiesa quando hanno insegnato che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo. Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui. Considerando il fatto del numero assai elevato di coloro che sono oppressi dalla fame, il Sacro Concilio richiama urgentemente tutti, sia singoli che autorità pubbliche, affinché – memori della sentenza dei padri: “Nutrì colui che è moribondo per fame, perché se non lo avrai nutrito, lo avrai ucciso ” – realmente mettano a disposizione ed impieghino utilmente i propri beni, ciascuno secondo le proprie risorse, specialmente fornendo ai singoli e ai popoli i mezzi con cui essi possono provvedere a se stessi e svilupparsi.


Nelle società economicamente meno sviluppate frequentemente la destinazione comune dei beni è in parte attuata mediante un insieme di consuetudini e di tradizioni comunitarie, che assicurano a ciascun membro i beni più necessari, Bisogna tuttavia evitare che alcune consuetudini vengano considerate come assolutamente intangibili, se esse non rispondano più alle nuove esigenze del tempo presente; d’altra parte non si deve agire imprudentemente contro quelle oneste consuetudini che non cessano di essere assai utili, purché vengano opportunamente adattate alle odierne circostanze.


Similmente, nelle nazioni economicamente molto sviluppate, una rete di istituzioni sociali per la previdenza e la sicurezza sociale può in pane contribuire a tradurre in atto la destinazione comune dei beni ” (Cost. past. Gaudium et Spes, n. 69). Cfr. A. BURGHARDT, Etica e revisionismo della proprietà, Alba 1960.


183        II diritto romano definì la proprietà ius utendi et abutendi, ossia una piena, perpetua ed esclusiva facoltà di disporre dei beni posseduti, senza alcuna differenza tra beni mobili e immobili e con limitazioni molto scarse quanto al modo di usarne, tenuto conto delle esigenze sociali. Sebbene l’espressione di ius abutendi sia da interpretarsi in Opposizione allo ius utendi, nel senso di usu consumere e non in quello letterale della parola, la definizione romana si contentava di enunciare la semplice idea del diritto come facoltà di disporre liberamente dei beni. Nel periodo medioevale entrò in uso una concezione essenzialmente diversa della proprietà, che senza sottovalutare il diritto, metteva in evidenza i doveri del proprietario.


Uno sguardo all’evoluzione storica della proprietà quale andò sviluppandosi nelle sue grandi linee, ci rivela che il dominio sui beni è passato dalla forma assolutistica del periodo romano ad una più temperata nel periodo medioevale, per ritornale poi all’antico assolutismo nella seconda metà del sec. XVIII e il principio del XIX, avviandosi verso sempre più estese limitazioni, a causa degli interventi statali nel campo della proprietà privata, fino alle forme estreme dell’odierna economia regolata o ” dirigismo ” nei paesi a regime democratico. A queste diverse maniere di concepire il diritto di proprietà corrispondono le definizioni che se ne diedero nel vari periodi.


184      Cfr. T. A. IORIO, Theologia moralis, I, Neapoli 1946, n. 262-265; C. ANTOINE, Corso d’economia sociale, trad. dal francese di P. MARTINELLI, Siena 1901, 619-622; G. BIANCHI, Vita sociale, Vicenza 1932, 422-426; B. MAGNINO, Sociologia, Brescia 1953, Cfr. ancora su questo argomento le interessanti ricerche sulla teologia medievale di E. LIO, Nuove fonti domenicane nei Commentari dello Pseudo-Oddone Rigaldi al IV libro delle Sentenze, estr. di Franziskanische Studien, Mùnster s. d.; ID., Osservazioni critico-letterarie e dottrinali sul famoso testo: proprium nemo dicat e testi connessi, estr. di Franciscan Studies 1953, New York 1953; ID., finalmente rintracciata la fonte del famoso testo patristico; ” pasce fame morientem “, in Antonianum, 27 (1952) 349-366; ID,, Determatio ” superflui ” in doctrina Alexandri Halensis etusque scholae, Roma 1953.


185      Cost. past. Gaudium et spes, n. 71.


186          Enc. Quadragesima unno, II: AAS (1931) 193; Enc. Mater et magistra: 53 (1961) 406. Già S. Tommaso (Pol. II, 1263) osservava: “Quomodo autem usus rerum propriarum possit fieri communis, hoc pertinet ad previdentiam boni legislatoris “.


187          Già Pio XI nel discorso ai Soci dell’Azione Cattolica Italiana del 16 maggio 1926 e poi nella Quadragesima anno ribadiva che il dominio privato, come qualsiasi altro elemento della vita sociale, non può essere concepito come alcunché di statico, ma segue naturalmente lo sviluppo della stessa vita sociale (cfr. AAS [1931] 193).


Tuttavia lo Stato non ha un potere diretto sulla proprietà dei cittadini; per questo non può né totalmente abolirla nella società, instaurando un regime di proprietà collettiva, né espropriare il singolo cittadino dei beni legittimamente acquistati, a meno che non si tratti di infliggere una pena proporzionata alla gravita di un delitto (confisca), Così pure lo Stato non può estromettere il titolare dall’esercizio del diritto, se non temporaneamente e nei singoli casi, in cui non fosse possibile raggiungere altrimenti determinati fini di pubblica utilità. In materia di proprietà privata lo Stato ha un potere indiretto, nel senso che deve disciplinarne il diritto, in modo che resti subordinato alle esigenze generali del bene comune e sia compatibile con i vari diritti naturali degli altri cittadini, soprattutto col diritto che tutti hanno di attingere i mezzi necessari alla vita. Cfr. L. S. SCHUMACHER, The phylosophy of the equitable distribution of Weallh, Washington 1949; F. ALLUNTIS, The problem of expropriation, Washington 1949.


188      Enc. Populorum progressio, n. 23; AAS 59 (1967) 269. Alcune idee dell’enciclica si ritrovano nella Lettera alla Settimana Sociale di Brest, in L’homme et la revolution urbaine, Lyon, Chronique sociale, 1965, 8-9. Per studi sull’enciclica, cfr. Quaderni Ekklesia, n, 1 – Populorum progressio – testo e commento dell’Enciclica, ed. Città Nuova Editrice, Roma 1967 (con articoli di P, Rossi, T. Sorgi, S. Lucarini, L. Benfanti, E. Rossi, R. Betz, St. Vagovic, G. Marchesi).


189      Ibid., n. 24-25; AAS 59 (1967) 269-270. Cfr. anche Gaudium et spes, n. 71, § 6.


190       Enc. Populorum progressio, 23, 32, 48, 56, 49: AAS 59 (1967) 268-269, 273, 281, 285.


191     Cost. past. Gaudium et spes, n. 71.


192      AAS 63 (1971) 433-435.