I Cristiani e l’Islam

Aleksander Romanowski ha intervistato Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e professore di islamologia all’universita’ di Beirut, per meglio capire che cosa e’ l’Islam alla fine del ventesimo secolo

I cristiani nei paesi islamici: a colloquio con Samir Khalil Samir


a cura di Aleksander Romanowski


 


In un libro molto discusso e di notevole successo (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997, pp. 510, L. 49.000) il politologo americano Samuel P. Huntington delinea un possibile scenario di conflitto tra mondo islamico e Occidente, segnalando i fattori di attrito che ne sarebbero all’origine, tra i quali: l’islamizzazione della politica e della cultura nella maggior parte dei Paesi musulmani, la crescita dell’intolleranza verso le comunità non di fede maomettana, la violenza organizzata di sètte estremistiche, la pressione demografica delle popolazioni musulmane e l’emigrazione verso i Paesi occidentali, nonché altri fattori ancora. Per meglio capire che cosa è l’islàm alla fine del ventesimo secolo, e per accertare in quale misura siano persuasive le teorie di Huntington, il giornalista polacco Aleksander Romanowski ha intervistato Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e professore di islamologia all’università di Beirut, dove ha fondato un importante Centro studi di cultura arabo-cristiana, promuovendo in merito prestigiose collane editoriali, in intesa anche con la Casa editrice Jaca Book. Di padre Samir, che dal 1975 al 1986 ha insegnato presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma, segnaliamo infine il saggio storico apparso nel volume collettaneo Comunità cristiane nell’islàm arabo. La sfida del futuro (a cura di Andrea Pacini), pubblicato dalla Fondazione Giovanni Agnelli.



Padre Samir, all’inizio di questo secolo i cristiani nei Paesi musulmani del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale erano circa il 25% della popolazione; oggi, alla fine del secolo, questo numero è sceso al 7%. Perché i cristiani nei Paesi islamici stanno scomparendo?


I motivi della diminuzione dei cristiani nei Paesi musulmani sono vari, anche se la proporzione da lei indicata per l’inizio del secolo mi sembra troppo alta.
I musulmani si moltiplicano più dei cristiani anzitutto per motivi demografici. Il primo è la poligamia, che era assai diffusa in ambiente rurale. Il secondo è quello igienico: fino a cinquant’anni fa, cioè prima della diffusione degli antibiotici, la mortalità infantile era molto più diffusa tra le popolazioni musulmane che nelle popolazioni cristiane dello stesso Paese (essendo i cristiani spesso più educati); questo handicap dei musulmani è felicemente scomparso oggigiorno. Il terzo è dato dal fatto che i cristiani hanno una concezione della famiglia che dà più importanza all’educazione della prole, e li spinge a un autocontrollo delle nascite. Le famiglie cristiane, solitamente di più alto livello culturale, hanno mediamente tre-quattro figli contro otto-dieci figli delle famiglie musulmane. In questo modo cresce il divario tra cristiani e musulmani.
C’è poi una motivazione socio-culturale, ed è la più importante: il cristiano non gode nel mondo musulmano della parità con gli altri e della libertà come è intesa oggi. Vorrei spiegare questo partendo dal Corano.


La posizione del cristiano nel mondo islamico è contemplata dal Corano e dalla successiva tradizione. Il cristiano è una persona che deve pagare imposte particolari e che, essendo tollerato nella comunità musulmana, rimane sempre in una posizione di subalternità. Il Corano (sura IX, versetto 29) usa l’espressione “umiliazione” (wa-hum sâghirûn). L’interpretazione di questa parola dipendeva dai califfi: una volta i cristiani erano obbligati a cedere il passo ai musulmani, altra volta non era permesso loro di usare il cavallo (dovevano usare il mulo). In ogni caso il Corano dà la possibilità di “umiliare” i cristiani. Se un fanatico, un capo villaggio, un uomo politico vuole colpire i cristiani, può sempre farlo. Prendiamo alcuni esempi dall’Egitto: se si costruisce una chiesa, essa non può essere più alta della moschea; i cristiani non possono utilizzare nelle chiese altoparlanti, mentre tutte le moschee li utilizzano; non si può portare la croce in un luogo pubblico; ai cristiani è severamente vietato far conoscere la loro religione, mentre essi stessi sono oggetto di forte islamizzazione, e altri divieti ancora.


Questo sistema non era tanto cattivo e funzionò per diversi secoli, perché l’islàm riconosceva sempre il diritto di culto religioso. I popoli sottomessi dovevano accettare la loro posizione di sottomissione, conservando la libertà di culto. Ma a partire dal secolo scorso, i cristiani che vivevano nelle società musulmane aspiravano alle libertà godute nel mondo occidentale: la libertà di coscienza, di stampa, di pensiero, oltre alle libertà politiche: detto altrimenti, aspiravano a essere semplicemente cittadini, nel senso pieno della parola, e non a essere tollerati dai musulmani, anche se talvolta da questi molto stimati. Non volevano ricevere i propri diritti da altri, ma partecipare alla costruzione del loro Paese a parità di diritti e di doveri. Essi partecipavano a un grande movimento di idee, mentre i musulmani rimanevano molto indietro. Si capisce allora perché le aperture verso il mondo occidentale venissero sempre dai cristiani.


Nel VII e VIII secolo – il periodo delle conquiste territoriali dei musulmani – i cristiani conservavano l’eredità del mondo ellenistico. Gli arabi musulmani notavano la grande differenza tra la loro cultura beduina e la cultura greca dei cristiani di Damasco, di Alessandria, di Antiochia. Allora i conquistatori chiedevano ai conquistati di trasmettere loro questa cultura. Così per secoli i cristiani hanno trasmesso la scienza, la filosofia, la medicina al mondo arabo musulmano. E sono stati loro per secoli i più grandi scienziati e filosofi del mondo arabo. I primi grandi filosofi musulmani compaiono nel X secolo, ma sono tutti discepoli dei cristiani. Al-Farabi, riconosciuto dagli arabi come il più grande filosofo dopo Aristotele, è discepolo di tre maestri cristiani. Questo processo si riduce man mano che i cristiani diventano musulmani e i musulmani assorbono la cultura dei popoli conquistati.
Alla fine del XVI secolo, esattamente nel 1584, il papa Gregorio XIII fonda a Roma il Collegio maronita, dove vengono accolti i cristiani maroniti provenienti da Cipro e dal nord del Libano. Ivi si formano, studiano le varie scienze, imparano le lingue (latino, greco, italiano e altre lingue europee). Così nella Chiesa maronita si forma un’élite intellettuale e religiosa.
All’inizio del XVIII secolo essi creano in Libano la prima scuola di tipo occidentale nel mondo arabo. Nello stesso periodo, i missionari cattolici organizzano scuole ad Aleppo. In questo modo, nell’ambiente cristiano si forma una nuova cultura che è in equilibrio tra la cultura classica orientale (araba, siriaca, poi turca) e la cultura occidentale, latina. Nell’Ottocento si verifica ciò che il mondo arabo chiama la Nahda (rinascimento), che è opera dei cristiani e che continua fino all’inizio del XX secolo.
Nell’impero ottomano i cristiani lavoravano al servizio dello Stato, mentre altri, grazie alla conoscenza delle lingue, esercitavano le attività commerciali. Essi formavano una classe di funzionari, di intellettuali e di commercianti.
In Egitto, nel XIX secolo, il pascià Mehmet Alì, per formare gli egiziani alla cultura occidentale, chiama dalla Siria scienziati e uomini di cultura cristiani che conoscevano sia la lingua araba sia le lingue occidentali. Nell’Ottocento essi sono un’élite culturale ed economica: organizzano l’università, fondano i primi giornali, compreso il più grande giornale egiziano al-Ahram, scrivono i primi romanzi, creano la cinematografia, ma anche le prime industrie. Anche le leggi egiziane sono fatte sul modello delle leggi europee. Non a caso il Cairo e Alessandria sono considerate città occidentali.
Un fenomeno simile si verifica all’inizio del XX secolo in Turchia. La rivoluzione militare di Kemal Atatürk del 1923 mira ad avvicinare la Turchia all’Occidente, sopprimendo nel 1924 il califfato, simbolo dell’unione tra potere temporale e potere religioso. In questa società il cristiano sta bene perché trova spazi di libertà.


Il processo di reislamizzazione comincia con la crisi del mondo arabo provocata dalla fondazione dello Stato d’Israele nel 1948. Si può dire senza pregiudizio alcuno che Israele è stato creato in modo del tutto ingiusto: per la prima volta nella storia moderna si è istituito ex nihilo uno Stato a spese di un altro popolo, cancellando la sua identità. Si è voluto creare uno Stato con gente che per la maggior parte è venuta da fuori, specialmente dall’Europa dell’Est. Per il mondo arabo Israele è creazione dell’Occidente, cioè del mondo percepito come cristiano (purtroppo, nella mentalità musulmana perdura l’identificazione del mondo occidentale con il cristianesimo). L’Occidente, per lavare la sua cattiva coscienza, dà agli ebrei la terra che è di altri.


Questo fatto provoca uno shock. I musulmani tentano di reagire ma, sul piano politico, non possono far niente né contro Israele né contro l’Occidente, che sta dietro Israele. Aumenta perciò il loro rancore insieme alla frustrazione. L’islàm appare come l’unica fonte in cui rinvenire la forza per opporsi all’imperialismo occidentale e al sionismo. Cominciano anche i movimenti popolari contro i governi di certi Paesi arabi ritenuti complici dell’Occidente. Nel 1952 Nasser prende il potere in Egitto. La sua rivoluzione antioccidentale non aveva carattere religioso, ma di riflesso colpirà i cristiani come persone legate all’Occidente. E così ha inizio la fuga dei cristiani da questo Paese. La situazione si ripete in Irak e in Siria e, come sempre, i primi a pagare sono i cristiani arabi che vivono in questi Stati.


La lotta più che secolare dei cristiani e dei musulmani colti dei Paesi arabi, per una certa concezione dello Stato distinto dalla religione, viene vanificata in pochi anni dai movimenti nazionalistici e dalla islamizzazione delle società.


La situazione peggiora dopo le disfatte degli arabi nelle guerre contro Israele e dopo la crisi del petrolio. La caduta dell’Unione Sovietica non migliora la situazione perché gli arabi pensano che il mondo occidentale, dopo aver sconfitto il suo grande nemico comunista, riunirà le sue forze per combattere i musulmani. Direi che il mondo arabo è affetto da un complesso di persecuzione: vede dappertutto complotti contro l’islàm. Al tempo stesso cresce negli arabi la convinzione che solamente l’islàm è capace di far fronte all’Occidente.


Ho fatto questa lunga introduzione storica per spiegare perché il numero dei cristiani nei Paesi arabi, tanto consistente un secolo fa, è diminuito e sempre più diminuisce.



La politica dietro la religione


Negli ultimi anni si nota una violenta campagna di persecuzione contro i cristiani nei Paesi abitati dai musulmani: i fedeli vengono uccisi e le chiese date alle fiamme. Che cosa sta succedendo oggi nel mondo islamico? Perché l’islàm permette l’uso della violenza contro i fedeli delle altre religioni?


Per capire che cos’è l’islàm bisogna cominciare dall’inizio, cioè dal progetto di Maometto volto a unificare tutte le tribù arabe sotto la guida di una sola persona e a creare un impero arabo nella penisola arabica. Questo progetto era l’aspirazione della tribù dei Coreisciti cui apparteneva Maometto. E Maometto, in modo geniale, è riuscito a realizzarlo.


Maometto attua il suo progetto a Medina, dove è fuggito da La Mecca nell’anno 622. La gente lo accoglie come una persona capace di organizzare la città per far meglio fronte a La Mecca, la città rivale. All’inizio l’attività di Maometto ha carattere amministrativo e politico: stipula un patto con le tre ricche tribù ebraiche presenti a Medina, ma poi le espelle e comincia piccole guerre (in dieci anni condusse quaranta guerre, secondo la prima e più famosa sua biografia, quella di Ibn Hisciàm), amministra la città istituendo un sistema politico, giuridico e fiscale-amministrativo.
Il suo grande progetto politico include anche la religione, la fede in un Dio unico. Sul piano religioso recupera tutto quello che può: le antiche tradizioni arabe, la tradizione di Abramo, di Ismaele, elementi dell’ebraismo e del cristianesimo. Dal paganesimo arabo provengono i riti del pellegrinaggio alla Mecca che verranno islamizzati: si rivela così come l’unico vero leader dell’Arabia.
L’islàm non è dunque solo la fede in un unico Dio e la preghiera: possono pensarla così solo quanti ignorano l’islàm e proiettano su di esso la propria mentalità cristiana. L’islàm è una totalità socio-politica, culturale e religiosa. Lo stesso si può dire della moschea: non è una chiesa musulmana, cioè non è solo un luogo di preghiera, ma anche di studio e di dibattiti politici. Lo sanno bene i politici del mondo musulmano, che sorvegliano le moschee in modo guardingo, dato che di là sono spesso venute fuori le rivolte e le ribellioni.
Purtroppo, la maggior parte dei cristiani paragona l’islàm al cristianesimo, pensando che l’islàm sia come una versione araba del cristianesimo, leggermente diversa da esso. I cristiani lo fanno con intenzioni buone, convinti che così comportandosi sono più vicini allo spirito del Vangelo. Invece pensare in tal maniera è da ingenui. Perché la prima regola del dialogo è di rispettare gli altri nella loro diversità, e considerarli per quello che sono, senza pretendere che tutte le religioni siano simili o che abbiano lo stesso scopo.
Pertanto un musulmano va visto come membro del suo movimento socio-politico-culturale-religioso. Se qualcuno si converte all’islàm, compie non soltanto un gesto religioso, ma anche una scelta politica, sociale, culturale, giuridica. Per esempio i croati sono chiamati tali secondo un criterio etnico, e i serbi pure; invece un croato o un serbo che si è convertito all’islàm, viene chiamato “musulmano”, come se perdesse la sua origine etnica.


Voglio ripetere, ancora una volta, che l’islàm è un progetto politico che include la religione (come, in senso contrario, il comunismo era un progetto politico che escludeva la religione). L’islàm è un sistema integrale che può facilmente scivolare verso il totalitarismo, perché lo scopo dell’uomo politico musulmano, anzi il suo dovere, è di sostenere la religione musulmana.
In tutte le regioni del mondo dove i musulmani diventano maggioranza – Bosnia, Cecenia, province occidentali della Cina, in certe zone delle Filippine -, essi chiedono l’indipendenza politica. A loro non basta la libertà religiosa, proprio perché lo scopo ultimo dell’islàm è una società integralmente basata su determinate visioni politiche. Dietro la religione c’è anche un progetto politico. Altri esempi. Il corso di religione per i musulmani in Germania include quasi sempre l’insegnamento della lingua e delle usanze turche; mentre in Francia, quando si insegna l’islàm, si insegna anche la lingua araba e le usanze nord-africane. Infatti religione e cultura sono quasi inseparabili nell’islàm. In tal maniera, i governi europei pagano professori che insegnano non solo una religione, ma anche lingue e culture che non hanno niente a che fare con la cultura tedesca o francese.
È questo che rende l’integrazione in Europa degli immigrati musulmani generalmente più difficile dell’integrazione di altri immigrati. Il fatto è che il musulmano fa fatica a dissociare la fede dalla sua cultura. Se dunque gli si chiede di rinunciare parzialmente alla propria cultura per fruire di quella europea nella quale ha scelto di vivere, il musulmano immigrato ha l’impressione che gli si chieda di rinunciare all’islàm. Eppure, anche se difficile, anzi doloroso, quella rinuncia è indispensabile per permetterne l’integrazione, ed è benefica perché arricchisce l’islàm di nuove dimensioni culturali.


È questo, per noi cristiani, il grande problema: essendo l’islàm società, cultura e religione, come vivere in un sistema musulmano che ha come fine l’islamizzazione di tutti gli aspetti della vita della società?


Adduco qualche esempio. Già prima dell’alba, gli altoparlanti delle moschee svegliano tutti per la preghiera, proclamando che “la preghiera vale più del sonno”. La radio deve interrompere i programmi e i notiziari per trasmettere le preghiere musulmane. L’islàm è materia obbligatoria anche per i non musulmani, cioè per i cristiani. Anche nelle scuole private cattoliche, prima di cominciare le lezioni, si deve leggere e commentare qualche brano del Corano. La radio diffonde tutta la giornata passi coranici. La televisione è sempre più islamizzata nei programmi. I film sono spesso ispirati alla storia musulmana e talvolta hanno finalità chiaramente apologetiche o proselitistiche.
Anche nelle minime cose l’islàm interferisce. Per esempio, un cristiano in Egitto non può allevare un maiale, perché ciò può dare fastidio a qualche musulmano. Anni fa un musulmano ci ha denunciati alle autorità, perché allevavamo dei maiali nel nostro seminario (circondato però da alte mura) e la polizia ci ha costretti ad ammazzarli, divieto che perdura fino a oggi.


In questo modo chi vive in Egitto deve agire da musulmano, altrimenti viene escluso dalla società. Un cristiano non si accorge nemmeno quando si comporta da musulmano. Come possiamo meravigliarci allora che, in questo clima d’oppressione e di strangolamento, i copti egiziani diventino musulmani a migliaia ogni anno, oppure emigrino?


Cresce anche il fenomeno dei matrimoni misti. La ragazza cristiana che sposa un musulmano ha teoricamente il diritto di rimanere cristiana. In pratica diventa però impossibile, poiché non erediterebbe e i figli sarebbero comunque legalmente musulmani, anche se battezzati. Se inoltre capita un divorzio, i figli sono automaticamente affidati “alla parte migliore” come dice la legge, cioè a quella musulmana.


Al contrario, l’islàm non autorizza per legge l’unione tra una musulmana e un cristiano. Il motivo è politico: il matrimonio non è un affare d’amore, è un progetto di società, di vita, serve anche ad aumentare il numero dei credenti. Capo di questa società famigliare è l’uomo. Una donna musulmana non può sposare un cristiano, perché i figli sarebbero cristiani, salvo che il cristiano non si converta all’islàm. Il caso contrario è impossibile: un musulmano che si converte al cristianesimo o all’ebraismo, deve essere ucciso in quanto apostata.
Diventa ovvio che, in questa situazione, non è nemmeno possibile parlare di libertà di coscienza. Il sistema islamico è coerente, conferisce alle persone una grande consapevolezza di forza, ma non lascia spazio agli individui, alla libertà e a chi è diverso. Chi più soffre in questo sistema totalizzante sono i non musulmani, cristiani ed ebrei, nonché i musulmani che hanno una cultura diversa.
Recentemente ho preso parte a un convegno in Tunisia, uno degli Stati musulmani più laici. Ho posto ai partecipanti la domanda: è possibile uno Stato islamico laico, dove le autorità politiche siano neutrali sul piano religioso? Mi hanno risposto sinceramente che al presente non è possibile.
La speranza dei cristiani nei Paesi islamici è di poter aiutare i musulmani a entrare nel mondo moderno sotto l’aspetto socio-politico. Lo Stato moderno non può opporsi alla religione, ma non può nemmeno identificarsi con una religione. Il mondo musulmano vive oggi un momento di duro confronto tra religione e modernità.



I musulmani in Europa


Abbiamo parlato della presenza dei cristiani nel mondo musulmano. Soffermiamoci un po’ sull’altro argomento: la presenza dei musulmani tra noi, in Europa.


Prima di tutto occorre sapere che i musulmani considerano i Paesi europei come un luogo ideale per vivere da musulmani. Me l’ha confermato ancora di recente uno sceicco: “Un musulmano trova in Inghilterra, in Francia e in altri Paesi europei una totale libertà per vivere da musulmano. Perciò si può considerare che l’Europa sia uno spazio chiamato dar al-Islàm, la casa dell’islàm”. Due anni fa uno dei capi della comunità sciita di Beirut, lo sceicco Hussain Fadlallah, in un dibattito televisivo aveva rilevato che “l’Occidente è luogo ottimale per vivere la nostra religione, lì abbiamo più libertà che in certi Paesi musulmani. Perciò invito ad andare a diffondere l’islàm in Europa, dove c’è grande apertura e tolleranza”.


Queste parole sono una bella testimonianza in favore dell’Europa; ma ci fanno capire il rischio o semplicemente l’ambiguità legata alla presenza musulmana in Europa. Questo rischio viene dalla concezione che certi politici occidentali hanno della tolleranza. Per certuni, la tolleranza significa che tutti quanti possono fare ciò che ritengono conforme alle loro idee e alla loro tradizione. Questa visione mi sembra assai pericolosa, perché la società verrebbe a frantumarsi e la sua identità si dissolverebbe.


L’Europa ha impiegato secoli per creare la sua identità, per affinarla, per renderla aperta agli altri senza tuttavia sminuire la propria. L’identità europea, acquisita con tanta fatica, è patrimonio di tutta l’umanità. Se adesso quel patrimonio storico e culturale dovesse essere dilapidato, disperso con il pretesto che dobbiamo aprirci a tutte le culture e religioni, che dobbiamo essere “tolleranti”, allora non sarei d’accordo. Ciò significherebbe autodistruzione. L’Europa potrebbe aprirsi proponendo agli altri i suoi valori di democrazia, dando loro la libertà di inserirsi nella società.
Non è giusto che la gente venga in Europa perché qui trova lavoro e libertà, e nello stesso tempo ne rifiuta la cultura e i valori. Direi che quanto si sta verificando in Europa è una forma di sfruttamento, di colonialismo all’inverso. Come, nei secoli precedenti, i colonizzatori del vecchio continente andavano nel Terzo Mondo per sfruttarlo senza assimilarsi alle società indigene, così oggi certi musulmani vengono in Europa solo per guadagnare denaro, rifiutando tutto ciò che è europeo e pretendendo di poter edificare qui la società musulmana. Come potrebbe, la stragrande maggioranza dei cittadini europei, tollerare questo fenomeno? C’è il grave rischio che questa migrazione sia vissuta come una invasione culturale. Non è dunque da stupirsi se questo crea il rifiuto del diverso e la xenofobia!
Adesso, in Europa, si fa una fortissima propaganda islamica. Gli attivisti che visitano le famiglie musulmane proclamando: “Voi siete diversi”, fanno male non alla Francia o alla Germania, ma agli stessi musulmani, perché impediscono agli immigrati una naturale integrazione. Purtroppo si sta affermando una mentalità ghettizzante: un musulmano, dovunque va, si presenta come diverso. Non era così quarant’anni fa.


I musulmani, nei Paesi europei, devono scegliere: o l’integrazione o la ghettizzazione. Se il musulmano vuole vivere a modo suo, come ha sempre vissuto, e secondo le proprie legittime tradizioni ancestrali, dovrebbe tornare nel suo Paese anziché emigrare. Gli Stati europei, per facilitare l’integrazione degli stranieri di diversa cultura, dovrebbero limitarne e controllarne l’immigrazione. Altrimenti, il corpo sociale rifiuterà gli stranieri, come l’organismo rifiuta spesso un trapianto. E questo non perché la gente è razzista o fanatica, ma perché ci vuole tempo per imparare a vivere insieme, nella differenza. Accettare un numero illimitato di stranieri, come vogliono certi politici, può essere autodistruttivo. Il problema non è ideologico, ma pratico; e mi sembra che, per il bene dell’emigrante come per quello dell’autoctono, si debbano fare delle opzioni ragionevoli, non ideologiche.


Ho l’impressione che l’Occidente, già da molto tempo, stia perdendo la propria identità. Non sa veramente chi è. Questa perdita d’identità non riguarda soltanto la religione, ma anche la cultura, i valori, l’etica. Come si fa allora a confrontarsi con un’altra identità quale l’islàm, che non è una religione nel senso abituale dei cristiani, ma un sistema integrale (religioso, politico, sociale, culturale, giuridico)?


Le differenze tra il sistema integrale islamico e la realtà occidentale sono grandi. Prendiamo, per esempio, il ruolo della donna. Secondo la legislazione musulmana, nel giudizio ci vogliono due donne contro un uomo; alla figlia spetta la metà di eredità che compete al figlio. Ancora: la donna deve accettare la poligamia, anche se inizialmente il marito aveva lasciato intendere che sarebbe stato monogamo: è libero, quando vuole, di prendere un’altra moglie se può permetterselo. Con grande facilità il marito può ripudiare la moglie, e neppure è obbligato a fornire una giustificazione. Quando la ripudia, non è tenuto a pagare gli alimenti, se non per nove mesi, finché si è certi che essa non porta in grembo un figlio di lui. Parlare di queste differenze legali e sociologiche non è razzismo, è serietà oggettiva: la vita a due è troppo impegnativa per affrontarla alla leggera.
Perciò accettare in Europa tutto quello che il sistema musulmano racchiude, significa minare la democrazia e l’identità occidentale, significa l’autodistruzione.


Il rapporto dell’Europa con le altre realtà, islàm compreso, è caratterizzato da una malattia che chiamerei meaculpismo. Gli occidentali sembrano provare gran piacere a battersi il petto esclamando mea culpa, mentre gli altri non hanno nessuna voglia di riconoscere i propri errori.


Prendiamo per esempio le crociate. Ho partecipato l’anno scorso a un convegno tenutosi ad Halle, in Germania, su questo argomento. Tutti gli specialisti presenti hanno confermato che nella letteratura araba la parola “crociata” non esiste! Gli autori arabi parlano delle guerre dei Franchi (Farang: genovesi, ungheresi, eccetera), ma non di guerre religiose, perché la vita era allora fatta di periodi di guerre alternati a periodi di pace, e spesso i Franchi erano alleati con un principe musulmano contro altri Franchi congiunti in alleanza con qualche altro principe musulmano. Solo recentemente gli arabi hanno preso dall’Occidente la parola “crociata”, per descrivere una fanatica guerra di religione. Ma questo significato non corrisponde alla realtà storica. Tutte le guerre sono da condannare, ma nel contesto storico d’allora la guerra era una delle forme di relazioni, come il commercio o i patti di pace.
In questo quadro storico, mi sembra ridicolo ciò che numerosi cristiani hanno fatto tre anni fa in occasione del nono centenario della prima crociata (1095): chiedere perdono ai musulmani per ciò che i loro presunti antenati avevano fatto contro le popolazioni islamiche. Questo denota in primo luogo mancanza di senso storico, perché all’epoca la guerra non era stata vista affatto dai musulmani come qualcosa di reprensibile; e denota altresì un complesso di colpevolezza profondamente radicato, il che, come tutti i complessi, è da curare (proprio con il realismo storico).
Ma più grave è che ci siano persone convinte che, recitando di continuo il mea culpa, dimostrano di essere più fedeli al Vangelo. Che stupidaggine! Non bisogna fidarsi dei buoni propositi di certi cristiani, che dicono sempre: “Siamo tutti fratelli, siamo tutti buoni, tutti ci vogliamo bene, tutte le religioni si propongono la pace…”. Sono generalità pericolose. Certo che siamo fratelli, ma taluni fratelli si rivelano talvolta nostri nemici. Non è neanche vero che tutti ci vogliamo bene, né che tutte le religioni si propongono la pace. È proprio questo che si deve dimostrare con i fatti. Secondo una certa mentalità ecclesiastica non bisogna parlare delle differenze, ma sottolineare solo le cose che ci uniscono. A mio giudizio questo atteggiamento è spesso sbagliato. Direi piuttosto che dobbiamo, prima di tutto, chiamare le cose con il loro nome e sostenere la verità intorno a noi.


Porto un esempio. Una decina di anni fa, il cardinale Pappalardo regalò ai musulmani tunisini residenti a Palermo una chiesa del ‘700 non più in uso, come atto di fraternità. Tutta la stampa cattolica elogiò questo gesto. Per me fu una cosa sbagliata. Se qualcuno vuole costruirsi una moschea e ha i permessi necessari, può farlo, perché per le moschee i fondi non mancano. Due giorni dopo, leggendo la stampa tunisina, ebbi la conferma di aver ragione. I giornali scrivevano sulle prime pagine: “La vittoria dell’islàm sul cristianesimo, il cardinale di Palermo obbligato a trasformare una chiesa in moschea”. Di questo la stampa cattolica non parlò.


Pensare sempre che l’altro è come me, semplicemente di altra religione, costituisce un’ingenuità. Un cristiano, l’arcivescovo di Palermo, fa un gesto di carità pensando che esso sarà inteso come tale; invece no, l’altro l’ha inteso come gesto di debolezza: “vittoria dell’islàm sul cristianesimo”. Porgere cristianamente “l’altra guancia” può essere capito come un invito a schiaffeggiarti, a distruggerti. Non è vero che tutti i gesti sono universalmente recepiti. L’intenzione mia vale per me, non per gli altri, e non sempre un gesto di carità crea carità.


In Europa risiedono più di dieci milioni di musulmani. Per loro vivere in Europa può costituire anche l’opportunità di scoprire non solo la democrazia, la cultura, la giustizia sociale, ma anche la figura di Cristo. Secondo me, questo aspetto dei nostri rapporti con i musulmani è quasi sempre trascurato dalla Chiesa. I musulmani hanno il diritto di conoscere Gesù Cristo. Non hanno avuto questa possibilità nei loro Paesi, perché il contesto sociale lo impediva. Ma quando vengono in Occidente, tale contesto sparisce, non sono più schiavi del gruppo, ognuno può fare le sue scelte. Io considero il diritto di conoscere Cristo al pari del diritto al lavoro, all’educazione, a essere curati. Vorrei dire ai cristiani d’Occidente: se un musulmano ha il diritto di conoscere Gesù Cristo, tu hai il dovere di proporglielo così come cerchi d’informare qualcuno che non ha conoscenza, come cerchi di dare la cultura a chi non ce l’ha. Perché il nostro più grande tesoro è la fede, che ha creato questa cultura, che ha elaborato questi valori.


Ho sentito dei sacerdoti che dicevano di voler rispettare la libertà dei musulmani, la loro identità. Addirittura, ho conosciuto un ecclesiastico che per anni rifiutava di battezzare un musulmano che voleva diventare cristiano, per non “sradicarlo”, come lui diceva. Ma Cristo si è indirizzato agli uomini di ogni cultura. Con quale diritto si può rifiutare il dono dello Spirito, se Dio lo manda? Che cristiani siamo se non vogliamo condividere con gli altri il nostro più grande tesoro? Non possiamo pensare di dare loro solamente da mangiare.


In Oriente la gente è più spirituale, sia i cristiani sia i musulmani. Lì, di norma, la fede è più importante che il cibo. L’islàm ci può insegnare tante cose. L’atteggiamento di fede di un musulmano è molto profondo, talvolta sino al fanatismo. A Catania ho sentito dei senegalesi, senza lavoro e in condizioni di illegalità, dire a un italiano: “Ma tu, perché non ti fai musulmano?”. Essi, sociologicamente debolissimi, erano fortissimi dal punto di vista religioso. Questa è una lezione per i cristiani d’Occidente. La fede è un dono preziosissimo da coltivare, da comunicare, da predicare.



Il Papa & la speranza


Il Santo Padre ha espresso il desiderio di recarsi in pellegrinaggio sulle orme di Abramo. Troverà ancora dei cristiani in Medio Oriente?


A essere precisi, dobbiamo dire che nella terra di Abramo, nell’Irak (a Ur, Mosul, Ninive), il Papa non troverà che pochi cristiani.
Se va in Terra Santa, troverà a Betlemme una maggioranza musulmana (per il momento il sindaco della città è ancora cristiano, ma solo per salvare le apparenze). A Nazaret, troverà ugualmente una maggioranza musulmana, per non parlare di Gerusalemme. Dunque, anche nei luoghi più cari al cristiano, quelli che evocano la vita di Cristo, i cristiani sono diventati una minoranza nella minoranza.
La Turchia, ai tempi di Bisanzio, era tutta cristiana. Oggi, il Patriarca di Costantinopoli ha meno fedeli di un parroco di Roma, e a sud della Turchia, là dove i cristiani siriaci erano numerosissimi, non superano nemmeno il 5%.
Persino nel Libano, i cristiani arrivano oggi appena al 40%. La situazione peggiorerà sempre più per i motivi indicati all’inizio: lo sviluppo demografico dei musulmani, particolarmente degli sciiti, e l’emigrazione dei cristiani. Un cristiano in Libano si sente sempre meno sicuro, sia a causa della diminuzione della presenza cristiana sia a causa dell’islamizzazione lenta, ma costante. I cristiani, per far fronte ai problemi economici o per mandare i figli a studiare all’estero, vendono le terre che passano ai musulmani. Si capisce, allora, perché oggi in Libano i cristiani stanno perdendo terreno demograficamente, geograficamente e politicamente. Questa è la realtà.
Mi sembra umanamente impossibile fermare il processo di sparizione dei cristiani nei Paesi musulmani del Medio Oriente. Tuttavia qualcosa si può fare: nell’immediato, bisognerebbe consolidare le comunità per consentire loro di vivere dignitosamente e in pace.
Non vorrei però dare un’immagine nera della situazione. Per conto mio, vedo il problema diversamente. Forse i cristiani spariranno un giorno dal Medio Oriente; ma ciò che importa è che, se emigrano, lo facciano portando con loro una fede granitica come la roccia. Infine, che importa se un giorno non ci siamo più (in realtà sarà di danno per chi ci rimane, cioè per i musulmani)? L’importante è che rechiamo con noi la fede dovunque andiamo, la comunichiamo a chi non ce l’ha più o a chi vive nel dubbio.


Che cosa fare, allora, perché i cristiani non spariscano nei Paesi musulmani?


L’Occidente potrebbe fare molto, se volesse. La comunità internazionale, per esempio, non dovrebbe tollerare l’occupazione del Libano da parte della Siria e d’Israele. È una duplice occupazione che fa comodo all’Occidente.
Bisogna protestare con i governi qualora si verifichino casi di intolleranza verso i cristiani nei Paesi arabi. Ma perché nessuno interviene quando vengono violati quotidianamente i diritti umani in Arabia Saudita e nei Paesi del Golfo? Per non perdere gli affari, si chiude un occhio sui tanto sbandierati diritti dell’uomo. Il male dell’Occidente è di aver sostituito ai suoi valori religiosi, sociali ed etici i “valori” economici. L’Occidente pretende di essere il simbolo della libertà, della democrazia e della giustizia, ma non lo è per motivi economici. Noi sentiamo questa indifferenza dell’Occidente, che ha perso la propria credibilità.
Che cosa chiediamo all’Occidente? Prima di tutto, più coerenza, più rispetto per i suoi stessi princìpi e valori che sono la sua vera grandezza. In secondo luogo, vi chiediamo di non perdere la vostra identità cristiana, che ha fondato la cultura, la supremazia della legge, la democrazia. Non a caso la democrazia è nata nel mondo cristiano, e non nel mondo buddista, induista o musulmano. Può sembrare che la democrazia sia sorta contro la Chiesa. Ma in profondità non è vero, anche se la Chiesa ha impiegato del tempo per accettare di rinunciare al suo potere terreno. L’ateismo è nato solo nell’ambiente cristiano, e non poteva nascere altrove. Perché è la libertà della Chiesa che lascia prosperare anche l’ateismo.
Se l’uomo occidentale rinuncia alla sua fede, rinuncia in realtà a ciò che è la matrice di quei valori, la fonte delle fonti, cioè la visione cristiana. Ai miei amici agnostici e atei, dico: “Io vi rispetto per quello che siete, ma potreste anche riconoscere che i valori che proclamate sono valori cristiani avulsi dalla religione, e che la vostra cultura è la cultura cristiana che ha preso movenze areligiose”. Sono convinto che, sul piano culturale, il cristianesimo apre la strada ai grandi princìpi della democrazia, della giustizia, della libertà.
Per questo, in Occidente, anche i non credenti dovrebbero sostenere i cristiani dei Paesi musulmani, perché sono loro che aprono la strada a questi valori. C’è chi, in nome dell’umanesimo, vuole aiutare tutti. A costoro dico: “Riflettete”. I musulmani aiutano i musulmani e non gli altri, gli ebrei aiutano gli ebrei, a meno che non convenga loro, per motivi di immagine, aiutare qualcun altro. I cristiani nei Paesi musulmani pensano: “Siamo già in minoranza, svantaggiati politicamente ed economicamente. Se non ci aiutano i nostri fratelli di fede, chi ci aiuterà?” Da tutto ciò si evince la mancanza di solidarietà cristiana, ossia del vincolo religioso che ci fa sentire uniti e solidali con gli altri.


Ma questo non ci toglie la fiducia di sapere che il Signore ci ha affidato una missione riguardo ai nostri compagni di vita, i musulmani: quella di indicare un progetto di società basata sulla libertà umana, sul rispetto della persona (uomo o donna, credente o ateo che sia), sull’amore della giustizia e della democrazia. Sentiamo intuitivamente che questi valori sono portati avanti dalla nostra fede nel Vangelo di Cristo. Con i nostri poveri mezzi cerchiamo di proporre questo Vangelo e questi valori.