Guerra e religione nell’antichità

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di Marta Sordi


Colpisce il fatto che popoli ritenuti fondamentalmente guerrieri, come gli Spartani e i Romani, si preoccupassero invece, soprattutto per motivi religiosi, di porre ostacoli rituali all’effettivo inizio delle ostilità e di ritardarle concedendo limiti ragionevoli al ripensamento degli avversari. Le stesse preoccupazioni religiose si avvertono in Senofonte che sembra il prototipo del militare di professione, ma che appare sempre estremamente attento, per motivi religiosi, all’osservanza dei giuramenti e degli impegni presi anche con il nemico

Bellum Iustum


di Marta Sordi


In antichità, popoli guerrieri come i Romani e gli Spartani si preoccupavano di ostacolare e ritardare l’inizio delle guerre. Lo facevano per motivi religiosi. Che col tempo vennero meno.


La definizione del bellum iustum (guerra giusta) è caratteristica del mondo romano, che accanto a questa formula, certamente più nota, conosce anche quella, ricorrente in Cicerone, in Livio, in Svetonio, in Floro, del bellum iustum ac pium, che affonda la sua radice nella mentalità sacrale dell’epoca arcaica, secondo cui la giustizia di una guerra non può essere sancita solo dal diritto umano e non può prescindere dalla sua conformità alla legge divina. In questa concezione, che i Romani teorizzano più sistematicamente dei Greci, e collegano addirittura con un sacerdozio particolare, quello dei feziali, e con lo ius, il diritto, che ad essi fa capo, la guerra è giusta solo quando è difensiva, quando chiede conto di una trasgressione: repetere res è la formula con cui i feziali presentano al nemico il loro ultimatum, che non riguarda necessariamente nè esclusivamente l’invasione del territorio, ma qualsiasi forma di aggressione e di ingiustizia.


Livio ci conserva il formulario arcaico per la dichiarazione di guerra (I, 32), preceduta dall’invocazione agli dei come testimoni e vendicatori delle eventuali violazioni e con la concessione di un intervallo di 33 giorni per la “restituzione” di ciò che era stato tolto ingiustamente e per la riparazione della trasgressione. Con l’andar del tempo ci fu una evoluzione dei riti e le varianti mirarono sempre ad eliminare quei rallentamenti che la pratica rituale imponeva e che rientrava invece nella sostanza dell’atto religioso, destinato a rendere possibile fino all’ultimo un ripensamento del nemico che impedisse la guerra e a far sì che si giungesse alle armi solo quando si erano espletate le vie della pace.


Lo stesso significato avevano i diabateria degli Spartani, i sacrifici imposti prima del superamento del confine per un’azione bellica.


Colpisce il fatto che popoli ritenuti fondamentalmente guerrieri, come gli Spartani e i Romani, si preoccupassero invece, soprattutto per motivi religiosi, di porre ostacoli rituali all’effettivo inizio delle ostilità e di ritardarle concedendo limiti ragionevoli al ripensamento degli avversari. Le stesse preoccupazioni religiose si avvertono in Senofonte che, per le sue scelte personali, sembra il prototipo del militare di professione, ma che appare sempre estremamente attento, per motivi religiosi, all’osservanza dei giuramenti e degli impegni presi anche con il nemico. Polibio, che scrive alla metà circa del II secolo a.C., parla della scorrettezza ormai diffusa nel mondo greco riguardo al rispetto delle regole (XIII, 3,1sgg) e osserva a proposito dei fatti del 205 che qualche piccola traccia dell’antica lealtà in guerra sopravviveva presso i Romani, che dichiaravano le guerre e si servivano raramente delle imboscate. Ma già nel 172 Livio (XIII, 47) riferisce, a proposito degli inizi della terza guerra macedonica, che gli ambasciatori tornarono a Roma dalla Macedonia, gloriandosi di avere ingannato il re con una tregua e con la speranza della pace (decepto per indutias et spe pacis rege): egli infatti era già preparato per la guerra, mentre i Romani non avevano preparato nulla, così che il re avrebbe potuto occupare tutte le posizioni favorevoli, prima che l’esercito romano sbarcasse in Grecia. Grazie al tempo acquistato con la tregua la guerra sarebbe stata più equilibrata. La maggioranza del Senato approvò questo comportamento, mentre “i vecchi memori degli antichi costumi” dichiararono di non riconoscere in quella ambasceria Romanas arte: Livio dice che vinse quella parte del Senato che “preferiva l’utile all’onesto” e rimpiange la religio Romana, non ancora contaminata dalle astuzie puniche e greche.


Negli anni tra la fine della seconda guerra punica e lo scontro vittorioso con le grandi potenze ellenistiche, il costume romano di fronte alla guerra si laicizza e il richiamo al fattore religioso si riduce sempre più al rispetto formale di certi riti e di certe formule, prive ormai del loro significato originario. Usare promesse di pace per prepararsi meglio alla guerra ed attaccare il nemico impreparato diventa un costume diffuso e il cristiano Ambrogio, vescovo di Milano, mette in guardia l’imperatore Valentiniano II da un attacco imminente dell’usurpatore Magno Massimo, adversus hominem pacis involucro bellum tegentem (Ep. 30,13). Sopravvive però anche presso i Cristiani il concetto romano di bellum iustum, che viene da essi pienamente percepito: Agostino (Civ. Dei, III, 10) ammette realisticamente che pro tantis bellis susceptis et gestis iusta defensio Romanorum est, quod inruentibus sibi importune inimicis resistere cogebat… necessitas tuendae salutis et libertatis (è giusto se i Romani per difendersi da tutte le guerre che avevano suscitato e condotto, dicono che a resistere alla furia insopportabile dei nemici li costringeva… la necessità di difendere la propria incolumità e libertà) e sostiene (Civ. Dei, IV, 15) che è iniquitas eorum cum quibus iusta bella gesta sunt (l’ingiustizia di coloro contro i quali si combatterono guerre giuste) a provocare le guerre e l’ingrandimento degli imperi. Le guerre, anche se giuste, sono in definitiva la conseguenza del male presente nel mondo, dell’incapacità dei popoli di convivere concordi vicinitate. Anche in questo caso, però, per ubbidire all’ordine di Cristo, che impone di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, lo stesso Agostino (Enarr. In Ps. 124,7) ricorda i doveri dei soldati cristiani: il potere politico è a volte buono e pio, a volte empio. Giuliano era un imperatore ateo, un apostata, un idolatra: eppure vi erano dei soldati cristiani nell’esercito dell’imperatore non cristiano. Costoro riconoscevano solo un imperatore celeste, dovunque si trattasse delle cose di Cristo, e quando l’imperatore ordinava loro di adorare gli idoli… allora anteponevano Dio all’imperatore. Quando però ordinava: in piedi per la battaglia, marciate contro il nemico, allora obbedivano prontamente. Distinguevano infatti nettamente fra il Signore dell’eternità e il signore del tempo, ma per volontà del Signore eterno erano sottomessi al signore temporale.


Bibliografia



Marta Sordi Bellum iustum ac pium, in Contributi Istituto di Storia Antica, XXVIII (Guerra e diritto nel mondo greco e romano), Milano 2002, p.3/11.
Hugo Rahner, Chiesa e Struttura politica nel Cristianesimo Primitivo, Jaca Book, Milano 2003.


© Il Timone, n° 25 del 2003, http://www.iltimone.org/