Del disprezzo del mondo.

Del P. R.-Th. Calmel O.P.  (Appendice a Per una teologia della storia, Borla 1967) Proibendoci di amare il mondo, il Signore non intende condannare l’amore e la gioia serena di un onesto matrimonio, la salute di cui abbiamo bisogno, e infine la dolcezza e il conforto dell’amicizia. Ma allora, che cosa intende dirci con la proibizione categorica: “nolite diligere mundum”?
 

I vostri santi misteri, Signore Gesù, ci comunichino un fervore divino, affinché, avendo compreso la soavità del vostro cuore dolcissimo,impariamo a disprezzare le cose della terra e ad amare le cose del cielo
(Postcommunio della Messa del Sacro Cuore).

Non amate il mondo, ci dice il Signore, tramite san Giovanni (1 Gv. 2,15). Il Signore che ci proibisce di amare il mondo per voce del suo apostolo è lo stesso che ha moltiplicato il vino per le nozze degli sposi di Cana, ha aperto gli occhi al cieco dalla nascita, ha approvato la disciplina del centurione romano che felicitava per la sua grande fede; è lo stesso, infine, che ha pianto sul suo amico Lazzaro e l’ha miracolosamente restituito a questa vita terrena e mortale.
È quindi chiaro che, proibendoci di amare il mondo, il Signore non intende condannare l’amore e la gioia serena di un onesto matrimonio, la salute di cui abbiamo bisogno, l’ordine delle legioni indispensabili alla pace civile e infine la dolcezza e il conforto dell’amicizia.
Ma allora, che cosa intende dirci con la proibizione categorica: “nolite diligere mundum”? E che cosa vuol dire la sua Chiesa quando, ad esempio, nella preghiera della festa del Sacro Cuore, come in molte altre, implora come una grazia di disprezzare “le realtà terrene”?
Il Signore e la santa Chiesa vogliono affermare ciò che la tradizione più coerente non cessa di spiegare da venti secoli: dobbiamo disprezzare e combattere il nostro attaccamento smodato ai beni della terra (e in primo luogo l’amore incontrollato per la nostra persona, per il nostro valore e per le nostre qualità); dobbiamo cessare di vivere per i beni terreni nella misura necessaria per porre fine al nostro attaccamento smodato (e tale misura è tutt’altro che piccola); dobbiamo accettare in piena tranquillità di venire privati dei beni terreni se ciò piace al Signore, sicuri che tale privazione è da lui voluta per il nostro bene, sia per riparare i nostri peccati, sia soprattutto (e talora unicamente) per inserirci in un maggior amore.
Il disprezzo cristiano per noi stessi e per le creature non significa nient’altro, Non è il contrario dell’amore vero, è contrario unicamente all’amore malvagio o a quello imperfetto. Non presuppone che noi stessi non valiamo nulla, o che il nostro prossimo non valga di più, ne’ che lo splendore di una creatura che ci ha affascinati sia di per sé un abominio, che la stima e gli incoraggiamenti dei nostri amici non abbiano importanza, che le malattie non contino e che l’onore e l’armonia della città rappresentino un inutile lusso. Tanto nella dottrina che nella pratica cristiana il disprezzo per le creature non ha mai avuto questo significato nichilista o di disgusto.
Non è un disprezzo che getta la creatura tra i rifiuti, ma il disprezzo di ciò che Dio rigetta in noi stessi, nelle nostre inclinazioni verso le creature uscite dalle mani di Dio.
Riflettendo su queste questioni vitali, dopo moltissimi altri, dopo sant’Agostino e sant’Alberto Magno, dopo l’Imitazione e san Giovanni della Croce, due grandi filosofi che sono (a titoli diversi) il vanto del tomismo del ventesimo secolo, Jacques Maritain e padre Garrigou-Lagrange, ci spiegano dottamente che si tratta di un disprezzo mistico e non nichilista. Il cristiano non disprezza l’essere delle creature (e in primo luogo il suo essere personale) in quanto è visto e voluto da Dio nel Cristo; si tratterebbe in questo caso di disprezzo nichilista.
Ha semplicemente in orrore l’attaccamento disordinato che gli impedisce di amare le creature come deve amarle chi le vede e le vuole in Dio nel Cristo; è il disprezzo mistico del cristiano che desidera aderire al mistero soprannaturale di Dio in Cristo. È scritto nel Vangelo: “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio, la salverà. – Chi non ama meno di me il padre e la madre, e la moglie e i figli, e i fratelli e le sorelle, ed anche la sua vita, non può essere mio discepolo. – Certi si sono fatti eunuchi da sé in vista del regno dei cieli” (Mt. 16,25; Le. 14,26; Mt. 19,12).
Esaminiamo un caso frequentissimo e facilmente comprensibile: quello dell’amore fra l’uomo e la donna. Pensiamo a una giovane cristiana, indubbiamente non cattiva, ma che da anni, per una scelta non apparente ma profonda, si è lasciata scivolare sul pendio della tiepidezza; ecco che un giorno si presenta a lei, così sprovveduta e impreparata, la tentazione potente di un amore colpevole. Se la donna è ancora abbastanza umile e devota per non tergiversare, per non entrare nella tentazione, allora riuscirà a respingere questa attrazione; avrà la forza, come si dice, di strapparsela dal cuore. Ciò significa che dovrà considerare ignobile l’essere che l’aveva per un attimo stordita, e ritenere vili e vergognose le capacità d’amore datele dal Creatore? No; si tratta invece di non concedere niente alla vertigine che l’ha afferrata perché non aderiva sufficientemente a Dio. Si tratta di disprezzare una fiamma che non si sarebbe mai dovuta accendere.
È in questo senso che la creatura è disprezzata per amore di Dio. Non è disprezzata in quanto proveniente da Dio, formata da Dio, ma per il fatto che si oppone, con un affetto impuro, al ritorno verso Dio. Queste annotazioni sull’amore colpevole si possono applicare a tutte le passioni e inclinazioni del nostro cuore fatto di carne. È così che la passione della giustizia è raramente pura, e le analisi di Bernanos su questo punto, come su molti altri, non fanno che porre in una luce chiarissima una realtà molto umana. Per poco che abbiamo riflettuto su noi stessi, capiremo che non è mutile essere tormentati o persino stroncati affinché la nostra fame e la nostra sete di giustizia diventino pure. Tramortiti e perfino schiacciati da un’iniquità incosciente o maliziosa, non diremo certo che le persone che ci fanno torto o ci usano delle angherie compiano un’opera pia. Non avremo certo la debolezza di rinnegare il bene che avevamo fatto col pretesto che la nostra azione non fu sempre abbastanza pura; ma in piena coscienza sapremo che è bene essere in preda a simili sofferenze per amore di Dio è compiere, “in cospectu Dei”, quell’opera onesta che è ancora possibile fare.
L’analisi sul significato mistico ma non nichilista del disprezzo del mondo e delle creature, potrebbe protrarsi a lungo; ma dovrebbe estendersi a tutte le inclinazioni: amore fra l’uomo e la donna, passione della giustizia, avidità di sapere, gusto della bellezza, volontà di creare una grande opera.
Dopo aver evocato le grandi passioni come l’amore e la sete di giustizia, ricorderò soltanto per inciso una passione molto più meschina, che si è scatenata in questa nostra epoca dominata dal denaro, dall’industria e dalla tecnica, intendo dire l’ossessione del rendimento materiale e la ricerca frenetica delle comodità della vita. A questo riguardo un vero cristiano non può evitare di parlare di disprezzo. Non perché trovi degne di disprezzo in se stesse le invenzioni tecniche e le comodità che esse procurano. Ma sa fin troppo bene che un mondo invaso dalla tecnica provoca le nostre concupiscenze con un’abilità, una tenacia e una insistenza molto più pericolose di quelle di un mondo allo stato artigianale; sa che l’economia e
la tecnica sono molto spesso possedute dal demone dell’avarizia e dell’orgoglio, organizzate con una complessità inaudita per incatenare gli uomini a un’impresa mondiale di negazione di Dio, nel sogno di forgiare una non meglio definita umanità nuova. Quindi, a meno di misconoscere il
cuore dell’uomo con un estremo semplicismo o di essere trastullo di una magnanimità illusoria, non si può immaginare di compiere l’opera di Dio, ne’ di praticare un amore cristiano delle “realtà terrene” dando libero corso a energie tumultuose e torbide, tutte tese verso una “ricerca” fuori delle regole morali, verso la trasformazione e la produzione indefinite. In realtà, un amore cristiano del nostro mondo, invaso dalla tecnica, chiede l’ascesa e la mortificazione più vigilante e l’allontanamento da molte imprese intrinsecamente viziate.
Non è affatto per pusillanimità che ci si tiene in disparte, che si desidera rimanere puri e che si detesta l’empietà. “Quale accordo tra Dio e Belial?” (2 Cor. 6,15). Il cristiano dei ventesimo secolo non disprezza la tecnica ma Belial, che troppo spesso la dirige e di cui rifiuta di divenire schiavo; così come il cristiano dei tempi di san Paolo non disprezzava le feste e le agapi, ma il culto diabolico che spesso accompagnava inseparabilmente le feste dei Gentili, e che poteva così facilmente trovare connivenze nel suo cuore di neofita (1 Cor. 10,14-33).
Solo chi non ha letto il Vangelo può immaginare che i discepoli del Signore avessero un disprezzo nichilista per la propria persona, per il prossimo e i beni della terra; ma all’opposto, bisogna essere insensibili al mistero della croce e della Messa per immaginare di potersi per sempre unire a Dio senza un oblio e un disprezzo mistici di noi stessi e del mondo.
Rimasi tranquillo e mi lasciai andare abbassando sul mio amico il mio viso. Tutto cessò, mi abbandonavo, rimettendo i miei affanni alla sua grazia, come se fossimo tutti immersi nella splendida aiuola dei gigli” (La notte oscura, nelle opere di san Giovanni della Croce).
Il disprezzo cristiano della creatura non ha nulla in comune con il disgusto degli impotenti e degli esseri inariditi o semplicemente scettici: “Ci lusinghiamo di abbandonare le nostre passioni quando sono le nostre passioni che ci hanno abbandonati” (La Rochcfoucauid). Ci sono molti pensieri simili nella sua opera o in quella di La Bruyère.
Dio mi guardi, tuttavia, dall’essere ingiusto verso le creature incapaci di vibrare, di sentire, di affezionarsi, di rischiare o di avere iniziativa. Questa impotenza congenita (o purtroppo acquisita col peccato) quando viene chiamata col suo nome e vissuta “in conspectu Dei”, quando poco alla volta si libera di voglie e di risentimenti, può rappresentare una strada dolorosissima ma sicura verso un amore delle creature veramente degno di Dio. Thibon (il dimenticato Thibon) era riuscito a dirlo in alcune pagine lucide e riposanti:
Alle anime che soffrono di non amare – e di non soffrire per amore – vorremmo dire quanto sia preziosa la loro miseria interiore e quanto
Dio abbia sete di una preghiera proveniente da loro. Non si tratta di avvalorare l’egoismo (che sarebbe del quietismo), ma si tratta di offrire, con mani amorose, la miseria ‘affettiva’ dell’egoismo. A che serve tentare di abbellire i nostri poveri dolori? Niente è troppo misero, nulla è vano di fronte a Dio. Ci sono degli esseri che ignorando le ferite alate della sofferenza amorosa, si credono esclusi dalle profondità della vita divina. Ma ‘vivere d’amore’ è altra cosa che ‘vivere l’amore’. La vita divina è un abisso di cui nessun sentimento umano ha mai toccato il fondo; non consiste in ciò che si ‘sente’ di Dio, ma in ciò che si “da’” a Dio. E a colui che non trova nella propria anima niente di puro e di vivo da offrire, non resta che offrire se stesso. Offerta spoglia e fondamentale, che giunge sino alla sostanza. I poveri sono cari a Dio perché, privi di ogni avere, donano il loro essere. Non è donare nulla il donare il proprio nulla. Beati i poveri in spirito, ha detto Gesù. Ossia ‘i poveri interiori’. E non vi è povertà più intima di quella della sterilità affettiva. Niente è impuro sulla terra come la povertà che si ribella (poiché può ricorrere solo alla bassezza e alla frode). Ma la povertà che si sottomette, la povertà il cui occhio resta semplice, tocca i vertici più casti dell’amore. In questi tempi devastati dal
soggettivismo, Dio ha bisogno di molte anime che credano nell’amore a detrimento di se stesse, per compensare il tradimento di quelle che non hanno cercato che se stesse nell’amore” (GUSTAVE THIBON, Riflessioni sul dolore, in “Etudes carmelitaines”, ottobre 1936).
Anch’io, in un capitolo delle ” Routes d’exil”, ho tentato di far luce su quel cruciale mistero che può, che deve divenire liberatore.
Mi direte; ma se l’odio del mondo, l’odio evangelico delle creature riveste un significato mistico, perché gli autori spirituali, i testi evangelici e liturgici non lo hanno sottolineato più chiaramente? Vi risponderò: lo dicono chiaramente per un cuore che non sia cieco. Quando le preghiere del messale ci fanno chiedere: “terrena despicere et amare coelestia ” v’è certamente, diceva Pascal, “abbastanza luce per coloro che non desiderano che vedere” e v’è anche sufficiente oscurità per coloro che preferiscono rimanere ciechi. Non pretenderete comunque che ogni preghiera del messale e ogni precetto del Vangelo siano muniti di una chiosa interpretativa. Esiste un linguaggio speculativo che è fatto per tradurre la conoscenza. astratta della creazione e del fatto rivelato, ma esiste anche un linguaggio pratico e persino mistico e anagogico che è destinato a far breccia in noi, a portarci in una certa direzione divina: una direzione che fa orrore al nostro amor proprio e alle nostre concupiscenze. Tale linguaggio è quello dei predicatori, dei polemisti e dei poeti cristiani, ma prima di tutto è quello dei grandi spiritualisti.
Ci è impossibile non impiegare questo linguaggio, mistico e analogico così come ci è impossibile non impegnarci e prendere posizione. Il linguaggio speculativo si colloca dal punto di vista dell’analisi delle essenze (tuttavia non è irreale; a modo suo, è “esistenziale”, ci manifesta il reale esistente o possibile). Ma il modo speculativo di vedere le cose, così come il linguaggio speculativo e astratto che gli corrisponde, non ci bastano per guidare la nostra vita (per lasciarla guidare dal Signore); ci è indispensabile adottare un punto di vista diverso da quello dell’analisi delle essenze; dobbiamo anche considerare concretamente, sotto l’aspetto di un impegno pratico, le nostre passioni, i nostri sentimenti e tutti gli oggetti ai quali si riferiscono. Da questo punto di vista non delle essenze in se stesse, ma dell’impegno immediato di una libertà – che è insieme piena di concupiscenze e chiamata alla santità in Cristo – è indubbio che l’amore non sia una forma di disprezzo (un disprezzo dell’inclinazione disordinata che ci spinge verso le concupiscenze). Parimenti, la memoria cristiana, la santa memoria delle creature, è come un oblio (un oblio in rapporto al nostro modo così spesso impuro e avido di ricostruire gli avvenimenti nella nostra memoria).
Rimproverate agli autori spirituali di non aver fatto eco al comandamento del Genesi: “Popolate la terra e sottomettetela”. Ma allora bisognerebbe anche rimproverarlo al Vangelo che non menziona tale precetto e che da’ invece un terribile avvertimento: “Che cosa serve all’uomo impadronirsi dell’universo se finisce col perdere la sua anima?”. E si può capire benissimo perché il Vangelo si esprima in questo modo. Il comandamento di sottomettere il mondo, che venne dato quando si levò il sesto mattino della creazione, era diretto a un uomo e a una donna ancora integri, puri da ogni concupiscenza e da ogni orgoglio. Ma simile beata condizione non doveva durare. Sarebbe stata soppressa prestissimo e per sempre.
Adamo ed Eva, quando commisero il primo peccato, erano appena all’inizio della loro giovane vita e nella forza piena degli anni. Da allora, il disordine e la concupiscenza dovevano impadronirsi del cuore dell’uomo. Senza dubbio, in quel nuovo stato di caduta e di corruzione, il dovere di impadronirsi dell’universo e di sottometterlo non sarebbe stato soppresso, ma come sarebbe stato possibile compierlo con rettitudine senza mortificare in noi ciò che è contrario all’amore di Dio nella presa di possesso dell’universo e nell’adempimento dell’opera profana? Da qui,  la grande massima evangelica: “Quid prodest homini si universum mundum lucretur…”.
Tanto più che non è proprio il caso di affermare che l’uomo si dimentichi di collaborare al completamento della creazione usando dei beni naturali. Anzi… Infatti non capita spesso che l’uomo dimentichi di ammogliarsi, di farsi una posizione, di “costruirsi una casa e coltivare una vigna”, come dice con frequenza san Tommaso; si verifica invece comunemente che l’uomo non si ricordi più di avere un destino soprannaturale e di dover rimanere fedele a Dio in Cristo. Quando l’uomo forma una famiglia, cerca di farsi una posizione, perfeziona le tecniche o governa lo stato, gli capita, ahimè troppo spesso, di cercare di sottomettete l’universo falsandolo poiché intende piegarlo a soddisfare i bisogni infiniti della propria concupiscenza. In simili condizioni, non vedo come i santi e i mistici ci indichino una strada falsa quando ci insegnano a disprezzare il mondo.