DIRITTO ALLA VITA (21)

…DIRITTO ALLA VITA E ALL’INTEGRITÀ DELLE MEMBRA Fondamento e natura del diritto. Le ingiurie contro i beni del corpo: l’omicidio. Sperimentazione clinica. Il duello. I principali delitti contro il feto; l’embriotomia e l’aborto….

Trattato di Teologia morale


PARTE III


I DOVERI DELL’UOMO NEI SUOI RAPPORTI CON IL PROSSIMO


 


2. DIRITTI E DOVERI INDIVIDUALI – DIRITTI NATURALI


 


III. DIRITTO ALLA VITA E ALL’INTEGRITÀ DELLE MEMBRA  (62).


 


1. Fondamento e natura del diritto.


Il diritto alla vita ed all’integrità delle membra è di quelli più comunemente e più facilmente ammessi; l’omicidio è il delitto più universalmente condannato. Il precetto del Decalogo ” non uccidere ” trova la più larga eco in tutti i costumi e in tutte le legislazioni.


Ma forse proprio per questo si tralascia spesso di approfondirne l’indagine, ricercandone il suo vero fondamento. Indagine tanto più necessaria, in quanto presso tutti i popoli sono ammesse delle apparenti eccezioni a tale diritto; è cioè riconosciuta la liceità, in determinati casi, dell’uccisione e della mutilazione, senza che, però, vi sia identità di prassi ed unanimità di opinioni circa l’estensione di tali eccezioni e circa le ragioni che le giustificano.


Ne segue che assai spesso ci si trova di fronte ad affermazioni empiriche ed a dottrine che mancano di unità e di razionalità.


Talvolta ci si accontenta di richiamarsi all’ordine della natura, che bisogna rispettare. II principio è vero; ma ha bisogno di essere applicato al problema in esame, allo scopo di conoscere quale sia siffatto ordine, e pertanto quale il fine, al quale esso tende ed al quale deve necessariamente misurarsi.


Noi riteniamo che l’indagine, al riguardo, debba poggiare sulla natura della vita umana, nella sua fase terrena, considerata, quale di fatti è, come missione. In realtà la vita terrena è una missione; la rivelazione e la riflessione cristiana non fanno che ribadire ed approfondire continuamente questo motivo: la vita presente è vita di prova, in cui i doni ricevuti devono essere sviluppati nella misura e nel modo determinati da Dio. E la volontà di Dio si manifesta primieramente mediante l’ordine naturale.


È, in fondo, su questo fondamentale dovere dell’uomo che, come abbiamo già visto, poggiano i suoi diritti; è da esso che riceve luce la sua autonomia.


Pertanto a nessuno è lecito interrompere tale missione; nessuno può subordinare la vita altrui ai propri interessi, ne l’individuo ne la collettività.


Ciò, però non toglie che l’attuazione della stessa missione affidata all’uomo, ossia dei suoi molteplici doveri possa metterlo in condizioni di dovere sacrificare la sua stessa esistenza: in tal caso il principio della sua inviolabilità, tutt’altro che essere negato, è implicitamente ammesso, dato che in tal modo la missione affidata all’uomo, non si interrompe, ma si compie.


Tale diritto, connesso con la persona umana, appartiene all’uomo fin dal primo momento in cui l’anima è infusa nel corpo, anche se non abbia visto ancora la luce; giacché fin da questo momento il feto ha una vita indipendente da quella della madre.


Quando ciò si verifichi, è questione vexata ed annosa, che la Chiesa non ha dottrinariamente risolta, anche se qualche documento più recente sembra insistere sul concetto che la vita umana è già presente dalla fecondazione (63).


Gli antichi aderivano comunemente alla tesi dell’animazione ritardata; e sebbene i dati scientifici di cui essi disponevano non coincidano pienamente con le nostre cognizioni in materia di fisiologia e di embriologia, sarebbe erroneo credere che detta tesi, considerata nei suoi elementi essenziali, poggiasse su quelle particolari concezioni. Essa faceva principalmente leva sui seguenti motivi; a) la esigenza da parte dell’anima umana come forma sostanziale del corpo di una materia alla medesima proporzionata, di un corpo cioè umano, e la necessità di considerare come accidentale tutto ciò che si aggiunge all’essere sostanzialmente completo; giacché nell’ipotesi dell’animazione immediata dovrebbe essere considerato come accidentale tutto l’organismo umano; b) l’impossibilità di ammettere che la forma sostanziale sia anche la causa efficiente di quell’organismo col quale concorre a formare un’unica sostanza; e) la necessità di ritenere che la medesima forma sia termine, e non principio del processo generativo.


L’esame storico delle varie fasi attraverso alle eguali è passato il nostro problema, rivela come la tesi dell’animazione immediata cominciò particolarmente ad affermarsi quando nel campo scientifico sorse la teoria del preformazionismo, e dovette la sua successiva fortuna al decrescente interesse per la speculazione scolastica ed al prevalere delle preoccupazioni pratiche, per cui nel dubbio ci si accontentò di dettare delle norme pratiche circa l’amministrazione del battesimo ai feti immaturi.


Per l’animazione ritardata, da parte di qualche biologo recente (Gedda) è stata invocata la totipotenza dell’ovulo fecondato (può scindersi in gemelli monozigoti).


Tuttavia, in qualsiasi tesi, l’aborto rimane sempre delitto, anche se commesso prima dell’animazione del feto mediante l’anima razionale. Solo che in questo caso non si può parlare di violazione del diritto della persona umana; bensì di una violenza, sempre illecita, inflitta all’ordine stabilito dalla natura che, dal punto di vista morale, potrebbe essere ricondotto sullo stesso piano delle pratiche anticoncezionali e dal punto di vista giuridico potrebbe essere considerato come un delitto contro la famiglia.


Per i casi terapeutici alcuni teologi moderni portano avanti il cosiddetto principio del minor male dati i pericoli sociali degli aborti clandestini e vorrebbero così essere tolleranti verso legislazioni per la legalizzazione dell’aborto. A prescindere dal fatto se realmente le autentiche esigenze del bene comune giustifichino una tale tolleranza, vale sempre il principio che il fine non giustifica i mezzi e qui si tratta proprio di violazione di un diritto naturale.


 


2. Le ingiurie contro i beni del corpo: l’omicidio (64).


Mentre nell’antico diritto romano l’uccisione dei servi non era contenuta nel concetto di omicidio, e recenti aberrazioni teoriche e pratiche pretenderebbero giustificare l’uccisione degli anormali da parte dello Stato, la dottrina cattolica, basandosi sia sui testi della Scrittura (65) che sui dati della ragione, condanna la diretta uccisione di qualsiasi persona innocente, a meno che essa non sia comandata o permessa da Dio. Difatti, come abbiamo già osservato, sulla vita umana, attesa la sua finalità, nessuno può vantare un dominio diretto.


Pertanto, non intervenendo nessuna delle ragioni che saranno in seguito spiegate e che valgono ad eliminare la malizia dell’omicidio diretto, è da condannarsi tanto l’uccisione degli ostaggi quanto quella di altri innocenti per fini politici, sia pure si trattasse di evitare grandi mali alla collettività.


Quando si tratta dell’omicidio, il principio che l’uomo non può disporre della vita umana si rafforza con quello dell’uguaglianza fra gli uomini.


L’uguaglianza della natura fra tutti gli uomini trova qui la sua applicazione più stretta. Se gli uomini hanno tutti un diritto rigorosamente uguale di tendere verso il proprio fine, questa uguaglianza si manifesta prima di tutto in una stretta uguaglianza davanti alla vita.


L’uguaglianza davanti alla vita è la prima applicazione, la più rigida di tutte, perché la vita è la condizione di tutti gli altri beni della terra. Un uomo dunque non può, per nessun motivo, sacrificare la vita d’un altro alla propria; una collettività stessa non può subordinare la vita degli altri, né può di conseguenza sacrificare la vita di un uomo per il bene degli altri.


Questa uguaglianza e l’esclusivo diritto di Dio sulla vita rende illecita l’uccisione dell’innocente non solo da parte di un altro qualsiasi uomo, ma anche da parte dello Stato, perché anche questo è costituito da uomini che gli preesistono con 1 loro diritti naturali e non sarà l’aggravio per la collettività, anche se eventualmente esistente, a far perdere all’individuo, minorato nel fisico, il suo diritto naturale alla vita.


L’omicidio è doloso, quando si ha l’intenzione di uccidere, qualunque siano i mezzi usati per dare esecuzione al proposito (fisici o morali, diretti o indiretti). Nell’estimazione morale esiste l’omicidio, pure quando la morte deriva necessariamente da una causa volontariamente posta, anche se l’effetto non sia desiderato, purché però sia previsto. È, invece, colposo l’omicidio quando la morte, non voluta, deriva da colpa (negligenza, imprudenza ecc.).


Diverse circostanze rilevanti nel diritto penale in ordine alla differenziazione specifica del delitto, sono invece, irrilevanti sotto il profilo etico, nel senso che non modificano le specie del peccato, anche se costituiscono talvolta delle aggravanti o delle attenuanti del delitto.


Alla malizia specifica dell’omicidio può aggiungersi quella del sacrilegio (personale o locale), dell’empietà (quando si tratti di consanguinei o affini), o di altra specie.


Oltre l’omicidio anche la lesione, illegittimamente inflitta, costituisce senza dubbio un’ingiuria contro l’integrità fisica. A maggior ragione costituisce un’ingiuria la mutilazione (66), ove non ci sia alcuna colpa da parte del soggetto (67).


Pertanto nessuna ragione eugenica può giustificare la sterilizzazione coatta, mentre occorre procedere con cautela nella sperimentazione clinica e dei trapianti, in vista delle conseguenze, anche letali, che può avere su chi vi si assoggetta o viene assoggettato.


 


3. Sperimentazione clinica.


Quando l’indagine nell’ambito del laboratorio o in campo animale è giunta a un certo punto di certezza tecnica, ha bisogno di accertarsi direttamente sull’uomo. Il passaggio dal laboratorio o dall’animale all’uomo costituisce una prova del tutto nuova, che, per quanto abbia accumulato molte probabilità a suo vantaggio in campo extraumano, comporta un rischio a carico dell’integrità e della sopravvivenza dell’uomo.


Il problema morale consiste precisamente nel determinare fino a che punto questo rischio è accettabile e quali sono i limiti oltre i quali la sperimentazione non può essere condotta. Molto dipende dalle circostanze in cui l’esperimento viene compiuto e dalla qualità dei soggetti su cui viene portato. Perciò è necessario distinguere tra interventi cimici sperimentali su ammalati, ed esperimenti su persone sane volontarie; tra esperimenti su se stessi, o su detenuti, o su condannati a morte.


Innanzitutto è da avvertire che l’uomo è arbitro esclusivo di se stesso e nessuno può intromettersi nella sua sfera, senza avere da lui l’autorizzazione specifica; è lui l’unico responsabile degli impegni assunti di fronte a se stesso, di fronte alla comunità e di fronte a Dio, e nessuno può sostituirsi alla sua azione.


Solo nel caso, in cui le sue capacità arbitrali (intelligenza, ragione, critica) venissero meno nella loro efficienza, lo si potrà sostituire nelle sue scelte, in linea coi suoi autentici interessi.


In circostanze d’urgenza, il consenso del soggetto potrà essere presunto, purché sia a suo vantaggio; potrà anche risultare, tale consenso, contrario a una scelta irresponsabile del paziente che, per ragioni d’incoscienza o di paura, rifiuta l’intervento salvatore.


Ma neppure il paziente, o comunque il soggetto da esperimento, nel suo consenso di disposizione del proprio organismo, può oltrepassare determinati limiti di disponibilità. L’essere e la facoltà di cui è dotato, gli sono stati consegnati a precise condizioni: che ne usasse per il conseguimento dei suoi destini umani e soprannaturali.


Il suo potere sul corpo è semplicemente facoltà di usufrutto e non è potere di disposizione illimitata, o di distruzione, o di cessione a terzi, o di manipolazione a piacere.


Però rientra nell’ambito di una saggia amministrazione di se stessi, in termini di usufrutto, il sacrificio di una. parte del corpo e di qualche facoltà anche fondamentale, quando queste abdicazioni fossero richieste dalla necessità di salvare tutto l’essere. La parte per sua natura, è al servizio del tutto.


Nell’ambito di questa parziale disponibilità dell’organismo umano, in vista di un bene maggiore, rientra la legittimità morale di chiedere al nostro essere una quota di rischio o di rinuncia a bene della comunità.


Questo non si deve condannare senz’altro, purché ci si arresti ai limiti tracciati dai principi morali.


Naturalmente alla scienza che non è il più alto valore esistente a cui tutto debba soggiacere non tutto è permesso. C’è un limite anche alle esigenze della scienza e alle esigenze della comunità, costituito da quelle esigenze che tutelano i diritti superiori della persona e che perciò hanno su quelle la precedenza. Per quanto la scienza sia pregevole sforzo verso la verità e verso la perfezione umana, proprio per non urtare contro le leggi dell’uomo è chiamata a fermarsi quando vi sia di mezzo una compromissione profonda del suo essere o un grave rischio per la sua sopravvivenza.


La scienza, infatti, è a servizio dell’uomo e non viceversa. In ogni caso, resta l’esigenza che il danno chiesto all’uomo sia proporzionato al bene che si vuol raggiungere con l’esperimento.


Nel calcolo di ciò che viene sottratto al singolo con l’esperimento occorre tener presenti anche i valori spirituali che possono emergere nella persona proprio in forza della prestazione sperimentale.


Queste leggi di rispetto della persona e della sua indisponibilità non cambiano intensità neppure nei confronti delle vie ” apparentemente infelici e inutili ” (malati mentali, malformati, ecc.); la vita umana ha in ogni caso un valore sostanziale identico, Ciò premesso, e venendo al pratico, è lecito un esperimento nel caso in cui il ricorso a una metodica curativa non ancora sufficientemente provata e di conseguenza da ritenersi ancora allo stato sperimentale viene ritenuto dall’esperto l’unica via da seguire nel tentativo di salvare il malato. Qui il carattere sperimentale si identifica con la cura, e rientra nel consenso generale già dato dall’ammalato perché tutto venga tentato contro la malattia.


Nei tarati, previo il dovuto consenso, più vaste sono le possibilità e le occasioni per tentativi sperimentali ai fini di scoprire metodiche nuove di recupero e di riabilitazione.


Nei moribondi, ripugna a un ovvio sentimento di pietà e di umanità sottoporre il paziente morente a interventi, ingestioni o iniezioni sperimentali, sia pure con il consenso dei parenti. Solo particolari ragioni di urgenza e di gravità li potrebbe giustificare.


Restano, perdo, escluse le forme di sperimentazioni su ammalati o irregolari non consenzienti o ridotti allo stato di incoscienza, È palese, infatti, qui l’usurpazione della libertà personale e la violazione del quinto comandamento, nella misura in cui il soggetto ne risulterà minorato.


In base al principio della solidarietà che tutti ci lega, il singolo può certamente accettare o addirittura cercare di sottoporsi a qualche esperimento medico, per motivi di carattere scientifico o di immediato bene comune, in ordine all’efficacia di determinate sostanze o alla validità di particolari tecniche di intervento. Se vi si aggiungono ragioni di gravità e di urgenza, l’ammissibilità morale è ancora più evidente. Naturalmente occorrerà il consenso libero del paziente conscio del rischio e questo non dovrà passare la barriera della vita e dell’integrità sostanziale.


Quello che si è detto di soggetto volontario vale per l’esperimento su se stesso: valgono cioè gli stessi principi e le stesse cautele. Né il carattere ” eroico” di un gesto di estremo coraggio nell’offrirsi alla scienza per la verifica di una propria ipotesi, muta la valutazione morale dell’azione; altrettanto va detto dell’ammirazione, della simpatia e riconoscenza riscosse dall’opinione pubblica.


Anche le ricerche compiute sull’organismo dei detenuti rientrano nello schema dei principi e delle soluzioni precedenti.


La cessione di se stesso non può allora avere un carattere di riparazione del male compiuto nella comunità con il comportamento delittuoso, Può avere uno scopo di riemancipazione del proprio prestigio distrutto col reato, o anche lo scopo di accorciare i tempi di detenzione, Sono tutti motivi che sul piano morale hanno una loro particolare validità, Ma per ciò che si riferisce al limite della indisponibilità sostanziale della vita e della vitalità dell’organismo, neppure i motivi specifici elencati cambiano le ragioni del divieto morale.


Una valutazione alquanto diversa va fatta nei confronti di detenuti condannati alla pena di morte e in attesa dell’esecuzione. In questi casi, data la certezza della morte, ormai imminente e inevitabile, la dottrina morale ritiene che si possano compiere su di loro esperimenti anche assai rischiosi per la vita e per l’integrità del detenuto, a condizione che l’autorità, ormai responsabile di quella vita, ne dia l’autorizzazione; che il detenuto ne dia il consenso, previa informazione oggettiva delle conseguenze fisiche e mentali che ne potranno derivare a suo carico; che la condanna non abbia più alcun dubbio sulla sua irremissibilità; e che l’esperimento non porti con sé sofferenze o aspetti degradanti non previsti specificamente dal soggetto. Nel caso l’esperimento anche letale vale come sostituzione di pena.


Un testo di raccomandazioni, per gli esperimenti sull’uomo è stato approvato ad Helsinchi nel giugno del 1964 da parte dell’associazione medica mondiale.


 


4. Il duello (68).  Di origine superstiziosa, per una materiale ed insipiente valutazione del coraggio, è da alcuni considerato piuttosto come segno di animo forte.


È chiamato duello qualsiasi combattimento convenuto tra due o più persone a pari numero, per causa privata, con l’osservanza di alcune norme stabilite dalla consuetudine cavalleresca (69).


Nella convenzione, preceduta ordinariamente dalla sfida o comunicazione della volontà di battersi, si stabiliscono il luogo, il tempo, le armi con cui battersi.


Forse derivazione dei giudizi di Dio, il duello è il prodotto di un’epoca barbarica, nella quale i torti, non riparati dall’intervento della forza pubblica, venivano abbandonati alla vendetta privata; è stato conservato e fatto rivivere da una società, non permeata dallo spirito del Vangelo ed in opposizione all’ingentilimento dei costumi prodotto dal Cristianesimo, legittimato da false concezioni di onore e stima. Il duello si può attuare in varie forme e con varie armi. Usuatissima è la distinzione tra duello solenne e semplice, tra duello al primo od all’ultimo sangue, cioè fino alla morte di uno almeno dei contendenti.


Il duello è contro il diritto naturale, che proibisce di uccidere o di ferire altri, nonché di esporre la propria vita ad un grave pericolo (70). Il duello partecipa della malizia dell’omicidio e del suicidio insieme, omicidio in quanto attentato contro la vita altrui, suicidio in quanto espone temerariamente a grave pericolo la propria, senza nessuna ragione plausibile. Ed anche escluso nell’intenzione dei duellanti il persistere nel duello fino all’ultimo sangue, va ugualmente contro la legge naturale e divina, la quale vieta non solo l’omicidio voluto, ma anche quello al quale si può, pur non volendo, dare una remota occasione, e vieta qualunque volontaria lesione del prossimo.


Né vale il dire che v’è compenso tra le due para, essendo ambedue ugualmente assalite e non correndo un maggior pericolo dell’altra. Sia pure che siano assalite, ma sono anche assalitrici, e perciò ambedue colpevoli. Ed ammesso pure che il pericolo in sé e per sé sia piccolo, gli eventi però superano talora le previsioni, Comunque il ferire o cercar di ferire è sempre cosa proibita dalla legge divina e umana.


Inoltre il duello va anche contro l’ordine sociale, perché sostituisce all’autorità dello Stato ed alla maestà della legge la vendetta o giustizia personale. Le false massime sull’onore, che si portano per giustificarlo, non valgono allo scopo. L’offeso o che offeso si crede, sfida l’offensore, e gli impone un atto, al quale soggiace egli pure con gli stessi rischi e doveri. Dov’è la riparazione, se l’offeso deve pagare lo stesso prezzo e la stessa soddisfazione dell’offensore?


Qualora, poi, si costringa l’avversario al duello, questo si aggrava dell’ingiuria contro la libertà.


Attesa la sua intrinseca immoralità, non potrà essere mai né scelto né accettato come mezzo per sfuggire altri mali; a meno che la provocazione e la minaccia non siano fatte in tali circostanze, per cui l’accettazione perda la sua specifica natura, ed equivalga alla legittima difesa (71).


 


5. I delitti contro il feto.


Nella formazione e nello sviluppo del corpo umano, come in genere in quello dei mammiferi, si distinguono due periodi successivi, l’embrionale e il fetale. Il primo nell’uomo dura otto settimane; il secondo, che si inizia quando il processo di accrescimento acquista una prevalenza decisa sui processi di formazione, occupa tutto il tempo successivo della gravidanza. Noi ci riferiamo indistintamente all’uno e all’altro periodo, adoperando il termine ” feto ” nella sua accezione più larga.


I principali delitti contro il feto sono l’embriotomia e l’aborto (72) .



a) L’embriotomia. Ha luogo quando il feto viene tagliato a pezzi nell’utero materno, nel caso in cui non possa essere espulso in maniera normale. L’operazione, ove si colpisca la testa del feto, prende il nome di craniotomia.


Tale intervento, oggi superato dal punto di vista ginecologico, era noto agli antichi: ne parla anche Tertulliano “, il quale non sembra riprovarlo. Il D’Annibale alla fine del sec. XIX, tentò parimenti di giustificare tale operazione nel caso che fosse necessaria per salvare la vita della madre, assimilando, in tale ipotesi, il feto all’ingiusto aggressore. Ma il S. Uffizio (oggi S. Congr. per la dottrina della fede) il 14 agosto 1889 riprovò tale opinione (74).


In realtà non può non considerarsi illecita l’azione diretta ad uccidere il feto, anche se per mezzo di essa si intende salvare la vita della madre: giacché nessun fine onesto può giustificare la scelta di un mezzo intrinsecamente illecito.


Né, in tal caso, può parlarsi di ingiusta aggressione: dove tutto avviene in forza di un processo naturale, sia pure a carattere anormale, non può parlarsi di aggressione neppure materiale (75).


Non neghiamo che l’osservanza della legge morale può, in rarissimi casi, implicare il sacrificio non solo della madre, ma anche del feto. In tale ipotesi, se il sentimento può suggerire l’eccezione del sacrificio inutile e della legge crudele, la ragione avverte che altro è permettere la morte provocata da cause naturali, altro è interrompere violentemente la vita.


Va da sé che, se il feto è già morto, l’embriotomia perde qualsiasi ragione di illiceità.


Può dirsi lo stesso quando si dubita se esso ancora viva? Taluni rispondono al quesito affermativamente (Ferreres, Prùmmer), osservando che il diritto certo della madre prevale su quello incerto del feto. A noi sembra che non possa confondersi il diritto dubbio con un diritto certo, ma ipotetico, qual è quello cui si riferisce il caso di cui ci occupiamo. Trattandosi di un dubbio di diritto non possono applicarsi i principi del probabilismo, come non ci si può neppure appellare al principio del duplice effetto. Difatti nel caso che il feto in effetti viva, la sua morte non è indirettamente permessa, ma direttamente causata. Tuttavia, ove non ci sia alcuna positiva ragione per dubitare della sua morte, riteniamo si possa con tranquillità di coscienza effettuare l’embriotomia  (76).


b) L’aborto. L’aborto, dal punto di vista morale giuridico, consiste nell’interruzione della gravidanza, quando il prodotto del concepimento non può vivere fuori del seno materno.


Quando, invece, l’interruzione della gravidanza porta alla espulsione di un feto, che può vivere fuori dell’utero materno, si ha il così detto parto prematuro.


Se si riflette attentamente a tali concetti, si avverte subito che la terminologia morale giuridica non coincide esattamente, né con quella medico legale, né con quella ostetrico-clinica.


Infatti dal punto di vista medico legale la differenza fra aborto e parto prematuro è determinata esclusivamente dall’elemento biologico di fatto, l’essersi cioè ” avuto un feto morto ovvero un feto vivo e capace di continuare a vivere ” (Palmieri), sicché da questo stesso punto di vista l’aborto viene definito: ” l’interruzione della gravidanza con morte del prodotto del concepimento “, mentre il parto prematuro consiste nella interruzione della gravidanza con espulsione di un feto vivo e vitale.


Invece dal punto di vista ostetrico clinico si tien conto unicamente dell’elemento cronologico: si ha, infatti, parto prematuro quando il feto viene espulso, vivo o morto, dopo la ventottesima settimana; mentre se l’interruzione della gravidanza avviene prima si ha l’aborto.


Sotto l’aspetto morale, al contrario, non si considera ne l’elemento biologico (il fatto) né, per sé, quello cronologico, anche se quest’ultimo offra la base per la presunzione di vitalità, ma unicamente la possibilità per il feto di vivere la vita extrauterina.


Perché si abbia l’aborto non si richiede essenzialmente la espulsione del feto (talvolta, interrotta la gravidanza, il prodotto del concepimento viene trattenuto definitivamente nell’utero, e va soggetto a successive trasformazioni) ne il momento dell’aborto (aborto interno) coincide sempre con quello della espulsione del concepimento.


L’aborto può essere spontaneo (involontario) o provocato (volontario).


L’aborto spontaneo può dipendere da cause patologiche sia materne (di carattere generale, come la sifilide, il tifo, la leucemia ecc., o di carattere locale, come l’infantilismo, i tumori dell’utero ecc.) che fetali; oppure da cause accidentali, ossia da fattori imprevisti di natura tossica (avvelenamenti) o traumatica (urti, cadute ecc.).


L’aborto provocato, nei trattati medico legali vien distinto in aborto terapeutico ed aborto criminoso. Quest’ultimo, poi, vien distinto in aborto criminoso procurato con fine specifico (quando, cioè, l’interruzione della gravidanza è direttamente intesa dall’agente) ed aborto criminoso senza fine specifico (quando l’interruzione della gravidanza non è voluta direttamente, ma rappresenta la conseguenza di lesioni inferte alla donna all’infuori di tale obiettivo).


A voler prescindere dall’incompletezza della classificazione dal punto di vista etico, essa, per ciò che concerne l’aborto terapeutico, è ispirata al principio legale, per cui lo stato di necessità, ove appaia dimostrato, rende impunibile l’intervento diretto a procurare l’aborto.


Più completa, pertanto, e più conforme ai principi di imputabilità etica è la dottrina morale che distingue l’aborto provocato in diretto (se direttamente voluto o causato mediante azione necessariamente abortiva) e indiretto (se non è ne inteso come fine ne direttamente causato, ma solo attivamente permesso).


Riteniamo, d’altra parte, che l’aborto terapeutico, inteso nella sua accezione più larga, non possa essere considerato senz’alto e sempre come un caso di aborto diretto, dato che l’intervento medico, nell’Intento di salvare la vita della madre, può attingere il prodotto del concepimento o direttamente o indirettamente.


L’elenco delle ” indicazioni ” terapeutiche, prima molto lungo, si è venuto man mano assottigliando, ed i migliori ginecologi sperano che tale aborto sia una operazione “destinata a scomparire dal novero delle operazioni ostetriche, come già, per 1 progressi della scienza, è scomparsa l’indicazione dell’embriotomia su feto vivo ” (Pestalozza). Particolare interesse destano, come vedremo, il caso dell’isterectomia per carcionoma in donna gestante, e l’escissione di. una tuba contenente un feto ectopico.


L’aborto è stato sempre condannato dalla Chiesa (77), anche nel recente Concilio ecum. Vaticano II (cost, past. Gaudium et spes, m, 27, 31).


Tuttavia, nel caso di feto non ancora informato dall’anima razionale, diversi autori antichi (Sanchez, Laymann, Viva ed altri), su cui fanno leva, per atteggiamenti anche più arditi, alcuni moralisti moderni, ritenevano lecito l’aborto terapeutico diretto. Che anzi, anche quando la tesi dell’animazione ritardata non incontrò più il primitivo consenso, non mancarono degli autori che ritennero ancora lecito tale aborto, ove si dimostrasse necessario per salvare la vita della madre (D’Annibale, Lehmkuhl). Ma la S. Congregazione per la dottrina della fede (S, Uffìzio) più volte si è pronunziata in senso di condanna (28 maggio 1884, 19 agosto 1889, 24 luglio 1895), ribadendola di recente nella “Dichiarazione sull’aborto procurato ” del 18 novembre 1974 (78).


a) In realtà l’aborto diretto, inteso sia come fine sia come mezzo, è intrinsecamente illecito. Ove si tratti di feto già informato dall’anima razionale esso è da assimilarsi, dal punto di vista etico, all’omicidio. La violenta interruzione della gravidanza, privando il feto di elementi vitali e dell’ufficio di organi destinati dalla natura allo sviluppo, non può essere spiegata come semplice cessazione di un’azione conservatrice del feto (come pensò in un primo tempo il Lehmkuhl), né si può parlare di presunta rinunzia da parte del feto a un suo diritto, giacché, oltre al resto, nessuno può lecitamente acconsentire all’uccisione di sé. Nel caso di feto inanimato (se si può ancor oggi parlare di animazione ritardata), l’aborto diretto, come abbiamo già osservato, è pure sempre illecito, non già quasi si tratti di anticipato omicidio, come qualcuno ha pensato, ma perché direttamente contrario all’ordine della natura, non altrimenti che l’uso onanistico del matrimonio.


Oggi il problema dell’aborto sta interessando la cultura e la prassi con spirito spesso assai critico di fronte alla valutazione etica e alla posizione giuridica comunemente accettate e sostenute sino a ieri. Il ripensamento critico nasce dal contesto socio-culturale del mondo contemporaneo, ed è dovuta soprattutto ad una duplice spinta, l’una d’indole più pragmatica e 1’altra d’indole più teoretica: tentativi in atto in diversi Paesi per una regolamentazione o addirittura per una liberalizzazione assoluta dell’aborto, reclamate in particolare da alcuni movimenti di emancipazione femminile; serie di dubbi sulla validità delle argomentazioni tradizionali, portati avanti da alcuni teologi circa la proibizione morale e legale dell’aborto.


La riflessione teologica sviluppatasi in simile contesto socio-culturale, e da questo sollecitata a riesaminare in modo critico l’eredità del passato non ha trovato ragioni convincenti per recedere dalla linea tradizionale della Chiesa.


“I motivi più ricorrenti insinuati a favore della libertà di aborto sarebbero le situazioni penose e talvolta drammatiche della abortività clandestina, la colossale speculazione da parte di medici compiacenti nel mondo dei ricchi, la mortalità da pratiche abortive; una legge diversa dalla attuale, secondo tale propaganda, eliminerebbe gli inconvenienti, soprattutto attraverso la gratuità dell’intervento e l’assistenza sanitaria, Ad accentuare l’interesse intorno al problema, si aggiungono le voci di un’assoluta necessità del ricorso all’aborto per contenere l’aumento demografico, che nella previsione dei demografi e biologi si sarebbe dovuto bloccare con i contraccettivi: ciò che non è avvenuto (79) “.


“Una legalizzazione dell’aborto che significasse un riconoscimento da parte dello Stato di diritto all’aborto, sia pure in casi determinati ed a certe condizioni, è contraria alla retta ragione, la quale esige, anche da parte dello Stato l’obbligo di assicurare l’assoluto rispetto di ogni vita umana innocente, specie se indifesa” (80).


b) La provocazione del parto prematuro è certamente lecita quando è fatta nell’intento di salvare la vita del feto; se ordinata a salvare la vita della madre, è necessario che avvenga nel tempo e nei modi atti di per sé a salvare la vita del figlio e della madre (81).


c) L’aborto indiretto, per cui l’interruzione della gravidanza non è né intesa né direttamente causata, ma solo indirettamente permessa, è lecito, se giustificato da una causa proporzionatamente grave. Si richiede pertanto:


1) che l’intervento, indipendentemente dalla circostanza accidentale della gravidanza, non sia in sé diretto all’espulsione del feto; 2) che l’effetto sperato, per cui l’intervento ha luogo, non sia ne inteso ne attuato come fine da raggiungere attraverso all’interruzione della gravidanza; 3) che tale effetto sia proporzionato al male che si permette.


d) L’aborto terapeutico diretto è sempre illecito: lo stato di necessità, anche se sia vero, non giustifica un intervento intrinsecamente immorale. Il peggioramento delle condizioni di un ammalato non può giustificare l’assassinio di un altro uomo (Peller), né la violazione di un ordine stabilito da Dio. Del resto, come abbiamo già accennato, tale indicazione va sempre più perdendo favore; e ” quando la gravità della affezione lo consenta, si va facendo sempre più strada l’uso di procrastinare, sinché possibile, l’interruzione della gravidanza al settimo mese (quando il feto ha già raggiunto un grado di maturità che gli conferisce capacità di vita autonoma), trasformando così l’intervento in una provocazione di parto prematuro, nell’intento di salvare anche la vita del prodotto del concepimento” (Palmieri).


e) L’isterectomia per carcinoma in donna gestante è da considerarsi come aborto diretto o indiretto? Non pochi autori (Lehmkuhl, Génicot-Salsmans, Priimmer, Vermeersch) ritengono che l’ablazione di un utero gravido canceroso non costituisce un intervento diretto in sé alla interruzione della gravidanza (difatti esso potrebbe avvenire anche in un utero di donna non gestante), e pertanto l’aborto deve essere considerato come indiretto (82).


f) Al contrario, deve essere considerato come aborto diretto l’intervento chirurgico inteso ad espellere dalla tuba il feto ectopico: in questo caso l’interruzione della gravidanza è direttamente voluta (83).


Come è universale la condanna dell’omicidio, così è universale, nell’estimazione e nei costumi dei vari popoli, l’esclusione di alcuni casi da tale condanna. Ma sul numero e la determinazione di essi esiste la massima varietà. Abbiamo già visto la differenza di opinioni intorno alla liceità dell’aborto terapeutico. Altri ammettono anche la liceità dell’omicidio per pietà (eutanasia) allo scopo di abbreviare le sofferenze al moribondo (alcuni limitano il principio al caso in cui ci sia il consenso del paziente). Comunque è pure predicata, specie in certi ambienti, la legittimazione del duello e per certe teorie è consentito il ricorso al genocidio. E sullo stesso terreno politico, diversi sono, nelle varie concezioni, i limiti dei diritti riconosciuti al potere civile.




NOTE


(62)  P. A. ARRIGHINI, Quinto: non uccidere, Padova 1946; J. LECLEKCQ, Leçons de droit naturel. IV: Les droits et les devoirs individuels, I part., Louvain 1946; L, BENDER, Occisio directa et indirecta, in Angelicum, 28 (1951) 224-53; ID., Ius in vita, ib., 30 (1953) 50-62.


(63)  PAOLO VI, Lettera al Card. Villot, segretario di Stato, 3 ott. 1970. Per la letteratura in merito, crf.; A. L.ANZA, La questione del momento in cui l’anima razionale e infusa nel corpo, Roma 1939; R. LACROIX, L’origine de l’àme humaine, Québec 1945; BARBADO, Estudios de Psicologia experimental, II, Madrid 1948,519-569; H. HAERING, De tempore animationis foetus humani, in Angelicum, 28 (1951) 18-29; G. DAVANZO, Aborto, in Dizionario enc. di teologia morale. 2a ed., 13-18.


(64)  Cfr. M. G, MALPHAEUS, Tractatus de omni genere homicidii Spira 1582; P. CABALLI, Tractatus de omni genere homicidii, Firenze 1614; G. AYRER, De triplici genere homicidiorum, Francoforte 1646; G. RODRIGUEZ, Le droit à la vie, Paris 1934; J. HESSEN, Der Sinn des Lebens, Rottenburg 1936; G, A. FARNER, Ueber den Sinn des Lebens, Zurigo 1957; O, HILKER, Das Ziel del Lebens, Paderborn 1939; G. PERICO, Difendiamo la vita, Milano 1960; M. TRINCAS, La collaborazione tra medici giuristi come base di una nuova giustizia penale, Modena 1970.


(65)  Cfr. nell’Antico Testamento; Gen, 4, 10; 9, 5; Es. 21, 12, 28; Num. 35, 21,33; Deut. 19, 6, 15. Non si trovano testi espliciti nel Nuovo. Si cercano delle allusioni in testi che parlano di altre cose. Così i teologi citano a volte il testo di S. Paolo:


Nemo enim nostrum sibi vivit et nemo sibi moritur… Sive ergo vivimus sive morimur, Domini sumus (Rom. 14, 7-8); o quello del Deuteronomio (32, 39): Ego occidam et ego vivere faciam; o quello del libro della Sapienza (16, 15): Tu es enim, Domine, qui vitae et mortis habes potestatem (cfr. ancora la parabola dei talenti e delle mine: Mt. 25, 14-30; Lc, 19, 11-27).


(66)  Cfr. V. HEYLEN, o, c., 681-683.


(67)  Anche applicata come pena la mutilazione presenta più lati negativi che positivi. Su questo argomento si è già trattato al n. 46, 4.


(68) Cfr. E. LEVI-GELLI, Bibliografia del duello, Milano 1903; B. OIETTI, Duellum, in Synopsis…, Romae 1912, 1692-1700; Dissertatio de duellis, in Per., 13 (1952) 241-47; I. M. ROMERO, El duelo en la historìa y en la legislacion, in Razon y fe, 76 (1926) 257-275, Circa i duelli studenteschi in Germania, in II monitore ecclesiastico, 38 (1926) 264-74; A. C., Le duel des étudiants allemands devant la S. Congregation du Concile, in Le canoniste, 48 (1926) 291-96; I. MAUSBACH, Die Strenge der Kirche gegenuber der studentischen Mensur, in Theologie u. Glaube, 18 (1926) 308-15; W. POPP, Duel u. Mensur, in Klerusblatt, 12 (1931) 717-19; 738-41; 756-58,773-75; A. GENNARO, Cooperazione al duello, in Perfice munus, 7 (1932) 912-13; I. B, UMBERG, De liceitate et obligatione committendi duellum publicum, in Per., 36 (1947) 161-68; P. PALAZZINI, Duello, in EC, IV, 1966-1970.


(69) Si distingue pertanto il duello dalla rissa che è un combattimento subito ed improvviso senza norme prefisse. Si distingue dalla guerra, scontro o serie di scontri tra due eserciti e si distingue ancora da quella forma di combattimento fra due o pochi soldati, per definire le sorti d’una guerra in modo più semplice, che con lo scontro di due eserciti, come il combattimento di David con Golia nella storia sacra, degli Orazi e Curiazi nella storia classica; forma di combattimento senza dubbio lecita, se lecita, in determinate condizioni, può dirsi la guerra. Si distingue ancora dal pugilato (boxing) perché non è un vero combattimento fatto con armi di per sé letali.


(70)  II duello, oltreché peccato, è anche, nella legislazione ecclesiastica, delitto, punito con la scomunica simpliciter reservata alla S. Sede. Non risponde alla configurazione di delitto del duello, pur meritando sempre riprovazione morale, il duello all’americana, nel quale l’accettante deve scegliere tra due armi, di cui una è carica e l’altra no, e tra due pillole, di cui una è avvelenata e l’altra no, e combattere così ad armi disuguali,


Risponde invece al concetto di duello sopra accennato, la prova di forza (Bestimmungsmensur) in uso presso gli studenti delle Università germaniche, in quanto non è semplice esercizio di scherma, ma è un vero combattimento convenuto tra due persone, anche se al primo sangue (cfr. S. C. C., 9 agosto 1890; 23 gennaio 1904; 10 febbraio 1925;13 giugno 1925). La scomunica colpisce gli autori principali anche se il duello non abbia avuto luogo (perpetrantes, provocantes, acceptantes), mentre i cooperatori (quamlibet operam aut favorem praebentes, de industria spectantes illud peremittentes vel quamtum in ipsis est non prohibentes), incorrono nella stessa pena, effectu seculo (can, 2351 § 1 del CIC del 1917). Inoltre i duellanti e i loro padrini sono ipso facto infames (can. 2351 § 2) e diventano per ciò stesso irregolari (can. 984 § 5).


(71) Cfr. proposizione 17a condannata da ALESSANDRO VII; BENEDETTO XIV, cosi Detestabilem, Denz. S. 2037 (1117), 2571-2575 (1491-1495).


(72) Cfr. I. PENNACCHI, De abortu et embryotomia…, Roma 1884; D. PRUMMER Zicht die Kraniotomie die Excomunication nach sich, in Theologischpraktische Quart chrift, 63 (1910) 586-588; M. J. O’DONNEL, Craniotomy and excommunication, in Irish ecclesiastical record, 29 (1911), 537-538; A. O’ MALLEY, The ethics of medical homicide and mutilation, New York 1922; A. GEMELLI, De l’avortment indirect, in Nouv. Rev. Théol, 60 (1933) 500-527; 577-599; 1, ANTONELLI, Medicina pastoralis, II, Roma 1932, 55-67; A. VERMEERSCH, De causalitate per se et per accidens…, in Per., 21 (1932 101-116; T. L. BOUSCHAREN, Ethics of ectopic operations, Chicago 1933; A. VERMEERSCH, Avortement di


rect ou indirect, in Nouv. Rev. Théol., 60 (1953) 600-620; A. LANZA, La questione del momento in cui l’anima razionale è infusa nel corpo, Roma 1939; J. W. O’ BRIEN, Ectopie Gestation. Moral Aspect, in Ecclesiastical Rewiew, 105 (1941) 95-103; R. I. HUSER, The crimc of abortion in canon law, Washington 1942, 122-157; G.PALAZZINI, Jus fetus ad vitam, Urbania 1943; ID., Embriotomia, in EC, V, 279-18; G. CLEMENT, II diritto alla nascita (Quaderni professionali, 8), Roma 1943; V. M. PALMIERI, Medicina legale canonistica, Città di Castello-Bari 1946, 284 ss; L. SCREMIN, Dizionario di morale professionale per i medici, Roma 1949, 101 s.; G. JUDICA CORDIGLIA, Questioni medico-legali, Milano 1952, 67 ss; 98 SS,; S. Di FRANCESCO, Il diritto alla nascita, Roma 1952; A. BONNAR, II medico cattolico, Alba 1953, 117 ss., 139 ss.; BENDER, Extirpatio uteri morbosi ut actus coniugalis tuto fieri possit (c. 1111), in Angelicum, 30 (1953) 273-280; G. PERICO, L’aborto. Aspetti morali, Milano 1952; Conc. Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, n. 28, 51; M. MARCOZZI, La liberalizzazione della legge sull’aborto, in Anime e corpi, 33 (1971) 7-24, Centre catholique des medecins français, Avortement et respect de la vie, Parigi 1972; AA. VV., Aborto questione aperta, – La posizione dei moralisti italiani. Torino 1973. Quale siano le allarmanti mete della liberalizzazione dell’aborto e le argomentazioni addotte, si può vedere in Consiglio nazion. delle donne italiane, Pianificazione della famiglia e aborto. Aspetti giuridici, medici ed etico-sociali, Roma 1972; AA, VV,, Aborto, in Medicina e morale (1974/2), L’intero numero è dedicato a questo argomento, con articoli di C, Caffarra, E. Nardi, G, Caglia, V, Fagone, F. Stella, A. Bompiani, P. Bergamaschi, R. Licordari.


(73). De anima, c. 25; CV, 20, 343. Cfr. anche OVIDIO, Amores, II, 14, 5-38; GIOVENALE, Satyr., VI, 594-597; G. PALAZZINI, lus fetus ad vìtam, Urbaniae 1943, 39-47.


(74). Cfr. G. D’ANNIBALE, Summula théol.. mor., II, Romae 1908, n. 290; Denz, S. 3258 (già 1889-1890).


(75). Cfr, Discorso di Pio XII sull’apostolato delle ostetriche, 29 ottobre 1951: AAS, 43 (1951) 835-854.


(76)  Cfr. V. M. PALMIERI, Medicina legale canonistica, Città di Castello-Bari 1946, 296 ss,; L. SCREMIN, L’aborto terapeutico, in Studium, 48 (1959) 313-517, I, DURANO, L’avortement therapeutique dans le protestantisme, in Sciences ecclesiastiques, 19 (1967) 445-464; R. TROISFONTAINES, faut-il légaliser l’avortement?, in Now, Rev, Théol. (1971) 489-512; Centre cath. des médecines français, Avortement et respect de la vie humaine, Parigi 1972.


(77) Cfr. D. TETTAMANZI, L’attuale problematica morale-giuridica sull’aborto, in Scuola cattolica, 100 (1972) 163-190, specie p. 166; G. CAPRILE, Non uccidere, Il magistero della Chiesa sull’aborto, Roma 1973.


(78)  Denz. S. 3258 (1889), 3298 (1890); Declaratio de aborti procurato: AAS 66 (1974) 730-747. Cfr. ancora; GIOVANNI XXIII, enc. Mater et magistra, n, 181: AAS 53 (1961) 447; PAOLO VI, All. Salutiamo con paterna effusione, 9 dic. 1972: AAS 64 (1972) 777.


(79)   Cfr. G. PERICO, Regolamentare l’aborto?, in Aggiornamenti Sociali 22 (1971) 629.


(80)   Nota pastorale dell’episcopato italiano: Aborto e legge di aborto (n. 13) del febbraio 1975, Non ci pare in armonia con questa nota e la comune dottrina l’articolo di G. DAVANZO, Aborto, in Dizionario enc. di teologia morale, 2a ed., 13-17.


(81)   S. Congr. per la dottrina della fede, 4 maggio 1898; Denz. S. 3336-3338 (1890), Così pure è lecito alleviare i dolori del parto (parto indolore), purché l’uso degli anestetici non metta in pericolo la salute della madre e del bambino e non rischi di cambiare il sentimento di tenerezza materna del neonato. Cfr. G. JUDICA CORDIGLIA, Questioni medìco-matrimomale, 60-63; A. LANZA-PALAZZINI, o. c., 293-294; S. DI FRANCESCO, Maternità senza dolore, Milano 1950; GRANTLY DICK READ, Rivelazioni sul parto, Napoli 1951; Pio XII, Discorso ai medici cattolici, (IV Congresso), 30 settembre 1949, in Discorsi ai medici, Roma 1959, 113-120.


(82). II Pestalozza, per un’errata interpretazione del principio che non si limita all’esame dell’intenzione dell’agente, ma considera altresì la natura dell’azione in sé, ha creduto di poter da ciò concludere all’identificazione di qualsiasi aborto terapeutico con l’aborto indiretto. Al contrario il Gemelli, in polemica sia col Pestalozza come col Vermeersch, ha affermato che costituisce aborto diretto anche l’isterectomia in donna gestante ed in genere qualsiasi intervento che provochi sempre e con certezza la morte del feto (A. LANZA-P. PALAZZINI, o. c., 287-289).


A noi, però, non sembra che le ragioni addotte dal Pestalozza siano valide. Se non è sufficiente considerare la sola intenzione di chi opera per giudicare della natura dell’aborto, cosi come ritiene il Pestalozza, il giudizio non può neanche essere fondato unicamente sulla certezza della morte del frutto del concepimento. Quanto al Gemelli, poi. diciamo che se l’azione diretta ad ottenere un determinato effetto buono non causa di per sé l’effetto cattivo, ma solo nell’ipotesi del concorso accidentale di un’altra causa, l’effetto non cessa di essere accidentale sol perché nell’ipotesi di tale coincidenza o accidentale concausalità, l’effetto ha sempre luogo. Far saltare in aria un ponte, su cui si trovino per caso dei liberi cittadini, nel caso di necessità bellica è stato sempre considerato dal teologi come un caso di volontario indiretto.


La gravidanza è accidentale nella donna affetta da carcionoma all’utero, e l’isterectomia mira direttamente ad eliminare il tumore, non già il prodotto del concepimento.


(83).  Per questo la S. Congregazione per la dottrina della fede (S, Uffizio) al quesito; Utrum aliquando liceat e sinu matrìs extrahere foetus ectopicos adhuc immctturos, nondum exacto sexto mense post conceptionem, in data 5 marzo 1902, ha risposto: Negative, iuxta decr. fer. IV, 4 Maii 1898, vi cuius foetus et matris vitae, quantum fieri potest, serio et opportune providendum est; quoad vero tempus, iuxta idem decretum, orator meminerit nullam partus accelerationem licitam esse, nisi perficiatur eo tempore ac modis, quibus ex ordinarie contingentibus matris ac foetus vitae consulatur. (Denz. S., 3336-3938 [1890b], 3358 [1890c]).


Diverso dovrebbe essere, secondo alcuni, il giudizio morale circa l’escissione della stessa tuba contenente un feto ectopico, atteso l’obiettivo immediato dell’intervento chirurgico (la tuba). Noi, però, non riusciamo a vedere il valore della distinzione, dato che detto intervento mira direttamente ad interrompere la gravidanza tubarica.


Cfr. A. GEMELLI, De l’avortement indirect, in Nouv. Rev. Théol,, 60 (1933) 500-527; A. VERMEERSCH, De causalitate per se et per accidens, in Per., 21 (1932) 101-116.