CONTRIZIONE

"Cardinale Pietro Parente; Mons. Antonio Piolanti; Mons. Salvatore Garofalo: Voci selezionate dal Dizionario di Teologia Dogmatica". CONTRIZIONE (dal lat. conterere = ridurre in piccole parti): è definita dal Concilio di Trento «il dolore dell\’anima e la detestazione del peccato commesso con il proposito di non peccare più» (sess. 14, c. 4; DB, 897); non è dunque un sentimento vago ma un deciso atto della volontà, che, conosciuta tutta la deformità del peccato, lo fugge e lo detesta nutrendo il fermo proposito di non ricadervi per l\’avvenire.

La contrizione può essere perfetta e imperfetta. Quella perfetta nasce nel cuore del peccatore che si duole del peccato in quanto è un\’offesa recata a Dio, nel quale considera la paterna bontà ingratamente disprezzata. Mosso dunque da un amore puro, detto di benevolenza, il penitente quasi fa a pezzi il suo cuore sotto i colpi del dolore, onde il nome di contrizione, quasi frantumazione in minime parti del cuore pentito. A tale pentimento, tutto permeato delle fiamme della carità, va sempre congiunta (supposto il proposito di confessarsi) la giustificazione, ossia la remissione della colpa, perché «ubi caritas, ibi Deus est».
 Per accostarsi al sacramento della penitenza è sufficiente la contrizione imperfetta (attrizione = frantumazione in grandi parti), che sorge nell\’animo di chi rinnega seriamente il peccato, per un motivo soprannaturale sì (come il timore dell\’inferno o la bruttezza del peccato), ma inferiore alla carità perfetta. In questo caso il penitente vede in Dio più che l\’immagine del Padre, quella del Giudice che minaccia severi castighi ai trasgressori delle sue leggi.
 Quando poi l\’attrizione, ossia il dolore interno, soprannaturale e universale dei peccati commessi, sia informata dall\’assoluzione, il penitente da «attritus fit contritus», ossia diventa giustificato perché allora si ha il sacramento, il quale «ex opere operato» infonde la grazia, cui è infallibilmente congiunta la carità. Così il fedele che si accostava al tribunale della penitenza ancor trepidante per un timore, che i teologi chiamano servile, in virtù della passione di Cristo, che opera attraverso il rito sacramentale, se ne ritorna rinfrancato da un sentimento di amor filiale e di fiducia serena nella bontà del Padre Celeste (v. Penitenza).