B. SEBASTIANO dell’APPARIZIONE (1502-1600)

Gli abitanti delle campagne, edificati dalla vita tanto mortificata di lui, lo consultavano nei loro dubbi e si raccomandavano alle sue preghiere perché Dio gli aveva concesso il dono della profezia e del miracolo. A chi gli dimostrava stima e venerazione diceva: “Levatevi di qui perché io sono soltanto un po’ di spazzatura di terra. E Dio che mi fa desiderare il bene che faccio. Se non mi sostenesse con la sua grazia sarei ancora peggiore di quello che sono”. Con i confratelli e con le persone del mondo non sapeva parlare che di Dio e lo faceva con tanta unzione da commuovere fino alle lacrime chi lo ascoltava.

Questo beato, fratello laico francescano e mistico spagnuolo, nacque il 20-1-1502 a La Gudina, nella diocesi di Orense (Galizia), da Giovanni e da Teresa del Prado, poveri, ma pii agricoltori. Al fonte battesimale gli imposero il nome di Sebastiano. Alla loro scuola crebbe innocente, ma rozzo, dedito più al pascolo delle pecore che allo studio. Ancora in tenera età, durante un contagio, fu tenuto rinchiuso in un tugurio dalla mamma, perché sulla testa gli si era formato un tumore di natura sospetta. La Provvidenza però un giorno dispose che un lupo entrasse nella stanza isolata in cui giaceva, gli azzannasse il tumore e glielo liberasse con la lingua dal pus che ne era uscito. Fu la sua salvezza. In poco tempo guarì.
          A quindici anni il beato decise di andare ramingo per la Spagna in cerca di lavoro o perché i genitori erano già morti o perché le loro terre non bastavano per la sistemazione di tutti i figli. A Salamanca (Leon) trovò occupazione presso una vedova, nobile e bella, che possedeva una tenuta a pochi chilometri dalla città. Tuttavia non rimase molto a lungo al suo servizio perché, essendosi invaghita di lui, la padrona avrebbe desiderato trasformarlo in un suo amante. Sebastiano, che detestava sopra ogni cosa l’impudicizia, si trasferì allora a Zafra (Estremadura), dove si mise al servizio di un cavaliere il quale lo incaricò del n’asporto di panni a una gualchiera e della cura di alcuni giumenti. Anche in questa città Sebastiano non si fermò molto tempo perché una delle due figlie del padrone, che aveva il governo della casa, si innamorò di lui. Il beato che, invece di sposarsi, pensava soltanto di guadagnarsi da vivere servendo Dio nel prossimo, si trasferì a Sanlùcar de Barrameda (Andalusia). In quel porto di mare non gli fu difficile trovare un impiego presso una vedova che viveva in compagnia di due figlie. Una di esse escogitò tutte le arti femminili per ammaliarlo e farlo suo sposo, ma egli preferì andarsi a mettere al servizio di un signore che gli offrì un podere da coltivare.
          A Sanlucar de Barrameda Sebastiano restò molti anni intento alla coltivazione delle vigne e dei campi, ma anche alla propria santificazione offrendo a Dio le fatiche quotidiane e prendendo parte alla celebrazione dei divini misteri nelle domeniche e feste del Signore. Di anno in anno vide migliorare la sua condizione economica motivo per cui non si scordava di aiutare i poveri e i malati nei quali vedeva impresso il volto di Cristo sofferente.
          Nel 1533, a trentun anni compiuti, il B. Sebastiano concepì l’idea di trasferirsi nel Messico conquistato alla Spagna da Ferdinando Cortes dal 1519 al 1521. Si stabilì a Puebla de los Angeles appena fondata. Per vivere si trasformò in domatore di buoi e di tori che in quel tempo vivevano ancora allo stato brado. Fu così possibile aggiogarli all’aratro e moltiplicare le rendite di quelle terre con grande soddisfazione sia degli indiani che dei conquistatori. Con l’introduzione nella colonia soprannominata Nuova Spagna delle carrette, a quanto sembra, di sua invenzione, il beato rese inestimabili servizi all’agricoltura e al commercio perché rese possibile il trasporto di merci tra le città di Veracruz, Puebla e Messico e, dal 1542, tra la città del Messico e le miniere di argento di Zacatecas. I viceré e i ministri di Carlo V prima e di Filippo II poi gli testimoniarono la loro riconoscenza con lauti stipendi. Per merito suo nelle casse dello stato entravano delle somme favolose.
          Nel 1552 il beato, oramai stanco dei continui e lunghi viaggi per strade impervie ed esposte a tutte le intemperie, decise di darsi nuovamente all’agricoltura. Nei pressi della città del Messico comprò una fattoria con i denari guadagnati nel trasporto delle merci e dei minerali da una città all’altra a conto del governo e dei privati. Benché fosse facoltoso, Sebastiano conduceva una vita casta e mortificata. Trovava la sua delizia nella recita del rosario la sera, e nell’accostarsi con frequenza ai sacramenti della confessione e della comunione. Dai suoi dipendenti esigeva morigeratezza di costumi, rettitudine di giudizio e vicendevole amore. Ai bisognosi somministrava sementi, alle giovani povere che andavano a marito provvedeva la dote, ai malati procurava le medicine, ai debitori pagava le cambiali. La fama della sua carità si sparse per tutta la regione tanto che persino gli indigeni lo chiamavano “il padre comune”. Un giorno fu assalito da una pericolosa malattia. Credendosi al termine della vita si dispose alla morte moltiplicando le preghiere e lasciando i propri beni per disposizione testamentaria ai poveri e soprattutto al convento dei Domenicani di Escapuzalco. poco distante dalla sua abitazione.
         I disegni di Dio su di lui erano diversi. Sebastiano guarì, riprese il lavoro dei campi, ma al pensiero della vecchiaia che oramai avanzava pensò di unirsi in matrimonio con una ragazza povera e disposta a vivere con lui in perpetua verginità. La trovò al Capultepeque, dove aveva stabilito la sua residenza, e la sposò dichiarandola erede universale dei suoi beni qualora gli fosse sopravvissuta. Invece morì quasi subito. Il beato si trasferì allora nel podere che aveva comperato a Tlalneplanta, poco lontano dalla città del Messico. Dopo tre anni passò a seconde nozze con un’altra povera giovane che aveva fatto educare a proprie spese in un Conservatorio, ma anche questa volta rimase vedovo dopo solo otto mesi.
         Che disegni aveva Dio sopra di Lui? Un fatto è certo, che da quel momento Sebastiano si sentì ispirato a condurre una vita di maggior perfezione, a fare uso cioè di abiti dozzinali, a moltiplicare le preghiere, le elemosine ai poveri e le penitenze. Questo maggior impegno di perfezione gli attirò le ire del demonio. Ogni tanto gli appariva sotto forma di giganteschi mori, di furiosi tori o di avvenenti fanciulle per tentarlo al male.
         Confessore di Sebastiano era il P Guardiano dei Frati Minori Osservanti della città del Messico. A lui un giorno manifestò il desiderio che sentiva di farsi religioso. Veniva esso da Dio? Il confessore, pur conoscendo e ammirando la sua virtù, esitò a lungo prima di confermarlo in quel proposito. A settant’anni quale convento lo avrebbe accolto con gioia? In seguito alle reiterate istanze, il confessore lo consigliò nel 1573 di donare i suoi soldi ai poveri e i suoi poderi alle Clarisse del monastero della città del Messico, e di mettersi al loro servizio come domestico e sagrestano. Per il momento gli fu permesso di vestire l’abito francescano in qualità soltanto di Oblato ossia di Terziario. Gli amici lo biasimarono per la grave risoluzione che aveva preso, egli invece ne fu molto lieto perché il denaro gli faceva ribrezzo.
          Per la vita intemerata che conduceva, la forte fibra e la resistenza alla fatica, il 9-6-1573 il beato fu ammesso, in via eccezionale, al noviziato nel convento di San Francesco della città del Messico. Sotto la guida del maestro di spirito egli fece rapidi progressi nell’osservanza della regola. Nonostante la sua tarda età si adattò al compimento dei più umili servizi quali scopare il convento, spaccare la legna, vangare l’orto e aiutare in cucina. Il demonio fremeva dei continui progressi che faceva sulla via della perfezione. Per questo, specialmente di notte, continuava a percuoterlo e a vessarlo in mille diverse maniere. Fu ammesso alla professione solenne il 13-6-1574, festa di S. Antonio di Padova. La sua gioia fu al colmo perché, per tre notti consecutive, gli apparve S. Francesco con altri santi a incitarlo alla perseveranza.
         Il beato fu destinato dai superiori al convento di S. Giacomo di Tecali dove per un anno fece l’ortolano, il cuoco, l’infermiere, il portinaio e il sagrestano. Nel 1576 fu mandato nel convento di Puebla de los Angeles dove, fino alla morte, fu addetto alla questua che in quel tempo si effettuava con le carrette tirate da buoi, di cui era ritenuto l’inventore. Considerevoli furono le fatiche alle quali si sobbarcò senza un lamento sia d’estate che d’inverno per balze e strade polverose e fangose. Nel trasportare pesi superiori alle sue forze contrasse un’ernia molto fastidiosa. Altre volte scivolò e si ruppe ora un braccio, ora una costola. Non ancora sazio di tante sofferenze camminava scalzo anche d’inverno, portava il cilicio, non mangiava carne e non beveva vino tranne la domenica, si flagellava a sangue e quando cadeva in qualche imperfezione si percuoteva violentemente il petto con un sasso.
        Nel corso della questua il B. Sebastiano non accettava l’ospitalità che i benefattori generosamente gli offrivano. Preferiva dormire per terra sotto una pianta o sotto le sue carrette avvolto in poveri panni. Confidò a chi gliene faceva rimprovero: “A dire il vero ho provato varie volte a coricarmi nel letto, ma mi sentivo inferiormente bruciare da così vive fiamme che compresi non essere quella la volontà di Dio”. La veemenza dell’amore che provava in sé lo costringeva non soltanto a dormire all’aria aperta, ma a gettarsi persino d’inverno nei corsi di acqua gelata. Per lo stesso motivo anche in convento dormiva per terra, in un angolo del cortile oppure nell’orto.
          Gli abitanti delle campagne, edificati dalla vita tanto mortificata di lui, lo consultavano nei loro dubbi e si raccomandavano alle sue preghiere perché Dio gli aveva concesso il dono della profezia e del miracolo. A chi gli dimostrava stima e venerazione diceva: “Levatevi di qui perché io sono soltanto un po’ di spazzatura di terra. E Dio che mi fa desiderare il bene che faccio. Se non mi sostenesse con la sua grazia sarei ancora peggiore di quello che sono”. Con i confratelli e con le persone del mondo non sapeva parlare che di Dio e lo faceva con tanta unzione da commuovere fino alle lacrime chi lo ascoltava.
          Nell’imminenza delle feste o della domenica, il B. Sebastiano raggiungeva con i suoi compagni di questua il convento più vicino per prendere parte ai divini misteri, confessarsi e comunicarsi. Pregava immerso in un profondo raccoglimento da cui ogni tanto si scuoteva sospirando: “Dio! Dio!” Sovente fu trovato alienato dai sensi, con il volto luminoso e sollevato per aria.
         A contatto continuamente degli uomini e degli animali il beato, anche se d’istinto era un contemplativo, credeva utile, assumere talora atteggiamenti poco simpatici per attirare su di sé il disprezzo del prossimo. Molte volte, tornando al convento, entrava in chiesa con la tonaca infangata o rialzata, il pungolo in mano e il cappello sul dorso. Un confratello un giorno lo riprese, ma egli gli rispose con tutta semplicità: “Che importa che coloro i quali mi vedono così mal ridotto ridono di me? A me preme soltanto servire Dio, il resto non mi interessa affatto”. A sollievo dei poveri più volte si spogliò delle proprie vesti e indossò tonache e mantelli talmente logori e rappezzati da essere chiamato da alcuni confratelli “il vituperio dell’Ordine”.
         A motivo della sua naturale rozzezza e degli errori di latino che faceva nel rispondere al sacerdote nella Messa il P. Guardiano, infastidito, lo riprese con asprezza e gli ordinò di ritornare in noviziato anziché andare alla questua con le carrette. Il beato accettò con molta pazienza l’umiliazione sapendo bene che al regno di Dio si giunge soltanto attraverso molte tribolazioni. I cattivi trattamenti terminarono presto. Il P. Guardiano, essendo stato colpito da un tremore in tutta la persona, capì che aveva abusato della sua autorità con Fra Sebastiano. Prima di morire ne fece pubblica ammenda. Chi gli successe nel governo del convento ordinò al beato di riprendere la questua ed egli, benché quasi novantenne, prontamente ubbidì.
          Quando gli fu rivelato che presto avrebbe cessato di vivere, Fra Sebastiano andò a visitare per l’ultima volta amici e benefattori per raccomandarsi alle loro preghiere. A causa dell’ernia fu costretto dal Guardiano a starsene a letto nell’infermeria. Non potendo dormire per terra, volle almeno non spogliarsi dell’abito. A causa del continuo vomito non fu in grado di ricevere il Viatico. Gli fu portato ugualmente il SS. Sacramento perché lo adorasse. Lo volle ricevere adagiato per terra sopra una coperta. Morì il 25-2-1600 con gli occhi fissi sul crocifisso che stringeva tra le mani e teneramente baciava mentre i confratelli, secondo la consuetudine, cantavano il Credo. Molti accorsero ai funerali esclamando: “Andiamo a vedere il santo!”. La salma di lui, flessibile e odorosa, fu rivestita quattro o cinque volte di una nuova tunica perché tutti bramavano trasformare in reliquie le sue vesti.
         Clemente XIII riconobbe l’eroicità delle virtù di Fra Sebastiano il 2-5-1768 e Pio VI lo beatificò il 27-3-1789. Il processo fu aperto nel 1628 per i numerosi miracoli che si verificarono sulla sua tomba. Sorsero difficoltà da parte degli esaminatori a motivo dei due matrimoni da lui contratti. Furono consultate le università di Salamanca, della Sorbona e di Padova dal 1720 al 1722. I dottori lo scagionarono da ogni imprudenza e temerità, anzi ne lodarono l’eroica virtù.
         Il corpo del beato è venerato incorrotto sopra l’altare della splendida cappella a lui dedicata nella chiesa di S. Francesco di Puebla. In Messico è stato scelto come patrono dei conducenti e dei fiorai. E’ rappresentato con il rosario in mano, accanto a un toro ammansito o presso una carretta tirata da buoi.
 
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 263-268.
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