B. PLACIDO RICCARDI (1844-1915)

Gustava assai le opere ascetiche del P. Federico Faber (+1863), specialmente Il Piede della Croce in otto volumi; leggeva sovente le Meditazioni del prelato Carlo Gay (+1892), sebbene le trovasse un po’ alte e difficili; aveva continuamente fra le mani la Storia della Passione del Signore secondo le contemplazioni di Anna Caterina Emmerich (+1824) e, negli ultimi anni di vita, amava assai leggere i Travagli di Gesù, capolavoro della letteratura mistica portoghese, dell’agostiniano Tommaso di Gesù (+l592). Nella gioventù aveva cominciato ad imparare musica e talora accompagnava all’organo i canti monastici della messa conventuale, ma in età più adulta non volle toccare strumenti musicali, benché fosse esortato a farlo per svago o per necessità.

A Trevi, ridente paese nella diocesi di Spoleto
(Perugia), spetta la gloria di aver dato i natali al Riccardi il 24-6-1844. Suo
padre, Francesco, droghiere e agiato possidente di terre, fece impartire al
figlio una distinta educazione, ponendolo per sei anni nel nobile collegio
Lucarini in Trevi. Quando ritornò a casa era pronto per il ginnasio.
 La gioventù del Beato ebbe diversi punti di somiglianza con
quella del suo conterraneo S. Gabriele dell’Addolorata (1838-1862). Di lui
attestò difatti il professore Sebastiano Riccardi: “In gioventù, a mio
fratello piaceva molto il vestire lindo e bene. Gli piaceva aver denaro, che
richiedeva anche ai fratelli e alle sorelle. Apparteneva alla cappella dei
cantanti della perinsigne collegiata di Sant’Emiliano, senza essere però molto
religioso. Tutte le sue pratiche religiose consistevano nell’entrare ogni
giorno in chiesa e dire tre Ave Maria“. Su di lui esercitarono una
forte attrattiva i teatri, ma, molto tempo prima di entrare in convento, il
giovane si era dato a vita penitente e devota come membro della Pia Unione
della Santa Famiglia.
 Ventenne, non potendo compiere gli studi di filosofia a Perugia a causa delle vicende politiche, il Riccardi si trasferì da Spoleto a
Roma, dove s’iscrisse tra gli alunni del collegio Angelico dei Domenicani della
Minerva (1865). Si sentiva spinto a quel passo dal desiderio di studiare, ma
ancora più dalla brama di conoscere meglio la sua vocazione. In un precedente
pellegrinaggio alla Casa di Loreto, mentre pregava, in un improvviso scoppio di
pianto aveva compreso che il Signore lo chiamava alla solitudine. Per impetrare
più luce dal cielo, sotto la direzione dei Gesuiti, attese, nella casa di
Sant’Eusebio, ad un corso di esercizi spirituali. Fu allora che, nauseato del
mondo e dei suoi pericoli, decise di farsi benedettino nell’abbazia di San
Paolo fuori le Mura (1866). Eppure, quando era partito per Roma, al sacerdote
che gli aveva predetto che si sarebbe fatto religioso, aveva gridato, gettando
adiratissimo il cappello per terra: “Se mi viene questa vocazione, l’affogo”.
 Il Riccardi
ricevette l’abito monastico dall’abate D. Francesco Leopoldo dei conti
Zelli-Jacobuzzi, mutando il nome secolare di Tommaso in quello di Placido.
Sotto la guida di D. Bonifacio Oslaènder, maestro dei novizi, il beato giunse
ad un eroico grado di penitenza e di ubbidienza e s’impegnò a pregare molto e
bene. Dopo che fu ammesso alla professione religiosa (1867), il Riccardi
riprese gli studi interrotti dedicandovi tutte le ore libere della giornata.
L’abate di San Paolo, don Ildefonso Schuster (1880-1954), morto arcivescovo di
Milano e cardinale, oggi venerabile, scrive nel profilo biografico del suo
beato maestro: “Posso attestare di lui quanto si legge di Beda il
Venerabile, il quale semper studuit, semper legit, semper docuit, semper
oravit
. Così don Placido passava dalla preghiera allo studio e dallo studio
alla preghiera, senza mai dedicare il tempo alla lettura di giornali o a
racconti dilettevoli”.
 Gustava assai le opere ascetiche del P. Federico Faber
(+1863), specialmente Il Piede della Croce in otto volumi; leggeva
sovente le Meditazioni del prelato Carlo Gay (+1892), sebbene le
trovasse un po’ alte e difficili; aveva continuamente fra le mani la Storia
della Passione
del Signore secondo le contemplazioni di Anna Caterina Emmerich
(+1824) e, negli ultimi anni di vita, amava assai leggere i Travagli di Gesù,
capolavoro della letteratura mistica portoghese, dell’agostiniano Tommaso di
Gesù (+l592). Nella gioventù aveva cominciato ad imparare musica e talora
accompagnava all’organo i canti monastici della messa conventuale, ma in età
più adulta non volle toccare strumenti musicali, benché fosse esortato a farlo
per svago o per necessità.
 Don Placido fu ordinato diacono il 24-9-1870 nella
basilica del Laterano dal cardinale Patrizi. Pochi giorni prima l’esercito
piemontese, comandato dal generale Alfonso Ferrero Lamarmora, aveva occupato
Roma e posto fine al Potere temporale dei Papi. Tra i primi atti del nuovo
governo liberale del re Vittorio Emanuele II (+1878), ci fu quello di preparare
la soppressione degli ordini religiosi e di sottoporre il clero alla
coscrizione militare. Quando la classe di leva alla quale era iscritto il
Riccardi, riceverà ordine di partire per Venezia, egli stava dando gli esami a
Roma. Domandò due o tre giorni per poterli terminare e, per tutta risposta, dal
distretto militare di Spoleto, venne dichiarato disertore. Arrestato dai
carabinieri, fu tradotto in prigionia a Firenze. Nei due mesi che rimase in
carcere non fece altro che pregare. Il tribunale militare lo condannò ad un
anno di detenzione, ma gli fu condonato per interessamento dei suoi superiori.
Da Firenze, Placido fu mandato a Livorno, dove, per la sua gracile
costituzione, il 21-1-1871 venne finalmente iscritto negli elenchi di rassegna,
cosicché il giorno appresso fu inviato a Pisa a ritirare il congedo definitivo.
Il giovane poté così fare ritorno in famiglia e quindi all’amata abbazia di San
Paolo, emettere la solenne professione monastica dei voti e ricevere
l’ordinazione sacerdotale (1871).
 Quali furono le disposizioni di spirito del beato lo si può
dedurre dal fatto che, per tutta la vita, prima di celebrare la Messa, era
solito purificare la propria coscienza con il sacramento della penitenza e fare
due ore di preghiera e di meditazione sulla Passione del Signore. Dopo la Messa
si tratteneva ancora, almeno un’altra ora in orazione, sebbene tutta la sua
giornata fosse un’adorazione continua di Gesù Sacramentato, tanto che lo si
poteva chiamare, afferma Schuster, “la sentinella del tabernacolo”.
Perché i suoi doveri quotidiani non gli concedevano il tempo che la sua pietà
avrebbe desiderato, col permesso dell’abate, trascorreva dopo cena diverse ore
nell’oratorio in cui i monaci celebravano di notte le veglie liturgiche.
 Don Placido, nei
primi dieci anni del suo sacerdozio, non ricoprì cariche speciali. La
sorveglianza degli aspiranti alla vita monastica in qualità di vice-maestro, la
scuola, il ministero delle confessioni nella basilica e presso qualche
monastero di Roma, assorbivano per intero il tempo che gli rimaneva libero dopo
la celebrazione della divina salmodia. Gli alunni irrequieti misero più volte a
dura prova la sua pazienza, perché per temperamento si sentiva più portato alla
riflessione ed al raccoglimento che alla vita attiva. Anche nell’ambiente di
comunità non gli mancarono delle sofferenze. In refettorio aveva il posto
presso un polacco il quale soffriva di mania di persecuzione. Fisso nell’idea
che gli emissari dei cosacchi, non potendo più tradurlo in prigione, tentassero
di avvelenarlo, talora esigeva bruscamente che don Placido scambiasse con lui
il proprio piatto. Il beato lo compiaceva sempre con grande carità.
 In quel tempo la basilica di San Paolo era circondata da
campi disabitati e malarici. Don Placido nel 1881 contrasse le febbri malariche
che non lo lasciarono mai del tutto nei trent’anni che ancora visse. Essendosi
rincrudite, nell’estate del 1882 i superiori lo inviarono nel monastero di San
Pietro in Perugia.
 Dal secolo XII la giurisdizione dell’abate di San Paolo si
estendeva fino ad Amelia (Terni) e particolarmente sul monastero delle
benedettine di San Magno. Tra di loro si erano introdotti degli abusi che
snervavano la vigoria dell’osservanza monastica. Nel 1884 l’abate Zelli nominò
don Placido suo vicario abbaziale in San Magno. Appena vi giunse, il beato si
adoperò con l’esortazione e la confessione di riportare le monache all’antico
fervore. Scriveva per intero le prediche che teneva loro. La parola, per quanto
studiatamente disadorna e semplice, gli scorreva fluida, chiara e devota, così
che senza fronzoli andava subito allo scopo. Ad esse diceva, per esempio:
“Pensiamo d’ora innanzi che la vita ci è data per unirci a Dio e tutto ciò
che facciamo dev’essere a quello indirizzato. Fuori di questo, tutto è perduto.
L’osservanza non deve essere da noi considerata come una cosa di riserva e come
un avanzo a cui ci applichiamo se ci basta il tempo, altrimenti si lascia. No,
l’osservanza, perché la più vicina a Dio, vuol essere tenuta in cima dei
pensieri e nell’intimo del cuore; tanto che lo stesso lavoro, gli atti di
mortificazione, le preghiere private debbono tralasciarsi quando non possono
accordarsi con la santa osservanza”.
 Dice Schuster che quelle monache non fecero molto onore
al loro dotto e zelante predicatore. Avrebbero voluto qualche compromesso con
le vecchie abitudini, ma Don Placido, per togliere il malanno dell’accidia e
della dissipazione dal loro cuore, prescrisse minutamente il tempo del silenzio
monastico, diminuì la frequenza delle religiose alla grata del parlatorio,
soppresse le comunicazioni superflue con la gente del paese e volle che
ritornassero in onore le varie pratiche di pietà e di penitenza prescritte
dalla regola benedettina.
 L’opera riformatrice di Don Placido faceva buoni
progressi, quando fu richiamato a Roma. Nel noviziato era entrato un giovane di
buone speranze, il quale dopo qualche tempo aveva cominciato a fare sfoggio di
falsi doni mistici, gettando tra i monaci la divisione. Per rafforzare il
vincolo della pace, il cardinale Bartolini, protettore della Congregazione
Cassinese, ritenne opportuno esigere che lo pseudo mistico fosse dimesso e che
il maestro dei novizi, Don Bonifacio, fosse sostituito con Don Placido (1885).
Costui non aveva tardato a convincersi che il giovane non poteva essere
favorito da Dio di quei fenomeni perché mancava dello spirito di mortificazione
e d’umiltà.
 L’abate Zelli aveva subito con rincrescimento la nomina di
Don Placido alla direzione del noviziato, perché non lo riteneva molto adatto
al compito. Difatti, più che uomo della preghiera pubblica, rappresentata dalla
celebrazione solenne dei divini uffici, egli, per difetto di formazione,
dimostrava di essere piuttosto l’anacoreta della preghiera privata. Difatti,
dopo aver detto tutto il mattino una quantità di rosari e aver fatto più volte
la Via Crucis, si riduceva verso sera a recitare Iam lucis orto sidere
dell’ufficio di Prima. Egli si sforzò quindi di formare i suoi novizi alla devozione
più con meditazioni sulla Passione di Gesù, ore di adorazione davanti al SS.
Sacramento che con la solenne ufficiatura liturgica.
 Nel 1887 l’abate Zelli istituì di nuovo Don Placido suo
vicario abbaziale in Amelia, non senza avergli consigliato la discrezione e la
prudenza nel suo zelo per non compromettere il buono con la ricerca
dell’ottimo. Don Placido misurava un po’ troppo gli altri dalla sua virtù ed
esigeva dalle monache un’osservanza così esatta che quando stava per scadere il
secondo triennio del suo vicariato, la comunità era poco propensa a
riconfermarlo nell’ufficio. Non solo egli faceva nulla per conciliarsi i loro
voti, ma diceva chiaramente che avrebbe mantenuto mano ferma nel promuovere la
riforma. L’abate lo esortava a non “pretendere di avere tutti gli uffici
in pugno”, a correggersi “specialmente da quel fare selvaggio”
che tanto amava e a prendersi ogni tanto uno svago.
 Don Placido rimase ad Amelia fino all’estate del 1894.
Essendosi ammalato a morte l’abate Zelli e reso vacante l’ufficio di rettore
della basilica di Santa Maria di Farfa, fondata nel secolo V da S. Lorenzo
Siro, vi fu destinato il nostro beato. La badia, rovinata dagli abbati
commendatari, non aveva obblighi parrocchiali. Soltanto alla festa accoglieva
da trenta a cinquanta persone provenienti dai paesi circonvicini. Lungo la
settimana Don Placido viveva da anacoreta nel castello di Sanfiano, presso Fara
Sabina, distante una mezz’ora di cammino dal santuario al quale apparteneva. La
domenica mattina discendeva prestissimo a Farfa per ricevere le confessioni dei
penitenti, celebrare la Messa, fare un po’ di catechismo e soccorrere i
bisognosi. Don Placido dava a tutti con generosità, perfino i suoi indumenti,
tanto che l’abate gl’ingiunse di non dare più di quattro soldi per volta a chi
gli chiedeva l’elemosina. Gli oggetti di devozione che. da Roma, Don Ildefonso
Schuster gli spediva, non bastavano mai alle necessità del suo zelo. Un giorno,
il confratello ardì scrivergli di limitare alquanto la sua generosità, giacché
coloro che gli chiedevano tali oggetti di devozione avevano già ricevuto da lui
parecchie dozzine di corone e di medaglie. Don Placido gli rispose con molta
serietà che le rendite di Farfa dovevano servire per il culto e la propagazione
della devozione alla Madonna.
 Personalmente il beato era molto distaccato dai beni di
questo mondo. Tuttavia gli oggetti di cui si serviva risplendevano di serafica
povertà. Le piccole forbici che la zia gli aveva dato quand’era entrato in
noviziato le usò per oltre cinquant’anni e a forza di farle affilare non
avevano più lama. Lo specchietto rotondo di cui si serviva per radersi, dono
delle benedettine di San Magno, aveva il diametro di cinque centimetri e non
costava più di dieci centesimi. Gli occhiali che adoperava a causa della sua
miopia erano montati con semplice filo di ferro che a lungo andare gli perforò
un orecchio.
 Nel 1899 l’abate Bonifacio Oslaénder richiamò a Roma Don
Placido perché era stato nominato penitenziere della basilica durante il
giubileo. Verso il 1902 si rese vacante l’ufficio di confessore nel monastero
delle clarisse in Fara Sabina. L’ordinario del luogo, il cardinale Cassetta,
non esitò ad affidare quella comunità alla direzione spirituale di Don Placido,
il quale per una dozzina d’anni si recò regolarmente da Sanfìano a Santa Chiara
due volte la settimana a confessare le monache, nonostante la febbre malarica
che lo consumava. Lo stesso cardinale gli affidò pure l’ufficio di confessore
straordinario delle Francescane della riforma Barberini. Don Placido compì il
suo ufficio con tanta soavità e discrezione che alcune delle monache lo
consideravano “un pozzo di santità”.
 Le piccole gite che il beato faceva da Sanfìano a Farfa o
a Fara Sabina per opere di ministero e per confessarsi, furono tutto il suo
muoversi durante gli ultimi quindici anni in cui fu rettore di Farfa. Tutti i
parroci dei dintorni frequentavano volentieri Sanfiano, dove egli li accoglieva
con signorile generosità, ma non s’indusse mai a recarsi presso di loro,
neppure a prendere parte a funzioni religiose, per non uscire dalla stretta
solitudine che si era imposta e dal consueto tenore di vita. Pur di mortificare
la natura nelle soddisfazioni più innocenti non esitava a valersi della scusa della
malattia. Mangiava la pasta cotta semplicemente nell’acqua, senza sale e senza
sugo e si asteneva dalla frutta, dal latte e dai salumi. Per mancanza di
sufficiente nutrimento si estenuò talmente che i superiori lo richiamarono più
volte a Roma perché si sottoponesse ad una cura ricostituente. A poco essa
giovò, perché la fibra di Don Placido era ormai logorata dalla continua
mortificazione. Attesta Schuster: “Dopo la sua morte vidi tra i suoi
arnesi di penitenza una specie di ampio scapolare intessuto d’ispido crine di
cavallo; e perché il suo uso riuscisse più tormentoso, vi aveva intrecciato
intorno al collo una corona di spilli perché lo punzecchiassero
continuamente”. Durante la permanenza ad Amelia aveva ottenuto dall’abate
il permesso di portare una volta al mese la catenella di ferro e di fare la Via
Crucis
con alcuni sassolini nelle scarpe.
 Nel 1914, la piccola comunità diretta da Don Placido, fu
trasferita dall’abate Don Giovanni Del Papa stabilmente da Sanfiano a Farfa e
posta sotto il governo di un monaco tedesco. Questi aveva un temperamento e un
modo di fare del tutto diverso da quelli di Don Placido. Amante degli orari e
dei sistemi rigidamente ordinati, poco gl’importava se il popolo giungeva in
ritardo alla Messa e se disertava le funzioni sacre. Don Placido soffrì
immensamente nel vedere distrutta tutta l’opera sua, ma non fece valere le sue
ragioni e non conservò rancori contro il superiore, ostinato nelle proprie
idee. In quel tempo era pure gravemente afflitto da un catarro intestinale che
lo costringeva talora ad abbandonare improvvisamente l’altare. Dio, per mezzo
della pazienza e dell’umiliazione, raffinava così lo spirito di Don Placido.
 Un giorno, del mese di novembre 1914, dopo il frugale
pranzo che per i suoi disturbi consumava sempre da solo, mentre si ritirava in
cella rotolò per le scale. Era stato colto da un attacco di paralisi e da forti
convulsioni. I confratelli lo trasportarono in cella privo di sensi, gli
amministrarono la santa unzione e, dopo un mese di crisi violenta, lo
trasportarono all’abbazia di San Paolo. Don Placido divenne rigido ed immobile
nel suo letto come un tronco. Le gambe gli si rattrappirono talmente che non
poteva neppure riposare supino ed il braccio destro gli si inaridì. Fortunatamente
lo abbandonò l’eccitamento nervoso dei primi giorni di modo che, conformato al
divino volere, ilare, paziente, poté in silenzio purificarsi da qualsiasi
attaccamento alle proprie inclinazioni meditando la Passione del Signore,
confessandosi e comunicandosi ogni giorno e recitando l’ufficio della Madonna
invece del breviario.
 Nei primi mesi del 1915 l’infermo non fece che peggiorare,
tanto che giorno e notte aveva bisogno di continua assistenza. Non si lamentò
mai del suo stato, ne delle privazioni alle quali era costretto. Disteso sul
letto, incapace di portare il cibo alla bocca, egli trascorreva la giornata in
preghiera e penitenze continue. Timoroso di mancare alla modestia, desiderava
giacere sul letto semivestito e soffriva immensamente quando l’infermiere
doveva prestargli i servizi. Fino all’ultimo conservò vivo l’uso abituale delle
facoltà intellettive.
 Don Placido morì serenamente il 14-3-1915 assistito dal suo
confessore, Don Ildefonso Schuster. Durante il trasporto della salma dal
chiostro alla basilica i campanari, scambiando gli ordini ricevuti,
anticiparono il suono festivo della Messa stazionale ai rintocchi funebri. Di
fronte all’equivoco l’abate si limitò a dire allo Schuster, che l’accompagnava:
“Lascia pur fare; se non si suona a gloria per Don Placido, per chi mai si
dovrà suonare?”. Pio XII beatificò il pio monaco il 5-12-1954 le cui
reliquie sono venerate nella basilica di Farfa in Sabina.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 172-178.
http://www.edizionisegno.it/