B. MARIA ASSUNTA PALLOTTA

Spetta a Force, nella diocesi di Montalto (Ascoli Piceno), il vanto di avere dato i natali a questa Francescana Missionaria di Maria il 20-8-1878, primogenita dei cinque figli che Luigi, falegname, ebbe da Eufrasia Canali. A sei anni Assunta frequentò la scuola del villaggio, ma imparò soltanto a leggere e a scrivere perché, dopo la seconda elementare, la mamma la trattenne a casa per la custodia degli altri figli. Seria, quieta, la beata fin da piccola parlava poco e rifuggiva dai trastulli puerili.


Trovava, invece, le sue delizie, nella preghiera e nella lettura delle vite di santi.

Dopo la prima comunione Assunta accentuò la sua devozione verso l’Eucaristia e la Madonna che prese a onorare recitando tutti i giorni il rosario e iscrivendosi al sodalizio delle Figlio di Maria. Attestò suo padre: “Tutte le volte che poteva, correva alla chiesa, sino a tre volte al giorno, specialmente quando tornava dalla campagna”. Anche in mezzo alle più estenuanti fatiche, la beata viveva unita a Dio. Un autunno, durante la raccolta delle olive, disse alla compagna che si lamentava del freddo pungente: “Cos’è quello che noi soffriamo in paragone di quanto ha sofferto per noi il Signore? Metti l’intenzione di fare tanti atti di amore quante sono le olive che raccogli”.


Pur di esser utile alla famiglia, Assunta non disdegnò neppure di sobbarcarsi all’ingrata fatica di manovale-muratore. Ma anche allora, anziché perdersi in discorsi frivoli, la si vedeva andare e venire con la canestra in testa e una mano in saccoccia, intenta a sgranare il rosario, non curante dei sarcasmi degli operai. Nella breve sosta che le era concessa dopo pranzo si appartava con qualche amica per pregare e fare la lettura spirituale. In seguito imparò a lavorare d’ago in casa del vecchio sarto del paese. Presso la macchina da cucire aveva posto alcune devote immagini alle quali rivolgeva sovente lo sguardo e il pensiero.


Con l’età crebbe in Assunta anche il desiderio della penitenza. Di notte, all’insaputa della madre, per dormire meno e attendere di più alla preghiera soleva mettere mattoni, pezzi di legno e di ferro nel letto. In famiglia, data la miseria, il cibo era sempre molto frugale. Ciononostante la beata, specialmente di venerdì, si alimentava soltanto con polenta condita di sale. Verso i quindici anni cominciò a digiunare tre volte la settimana.


La mamma, preoccupata di trovare alla figlia un buon marito, ogni tanto, durante il carnevale, la conduceva a qualche innocente festa da ballo. Assunta vi prendeva parte a malincuore perché aveva in animo di entrare in convento. Una volta, per il gran caldo, nella sala da ballo si tolse la maschera dal viso. Poiché il suo cavaliere si era permesso di dirle: “Quanto sei bella, ti darei un bacio” se ne tornò subito a casa sconvolta e decisa ad abbandonare quanto prima il mondo.


Nell’ottobre del 1879 la beata si rivolse per aiuto a Mons. Luigi Canestrari, suo compaesano in ferie, impiegato nella curia romana. Costui si adoperò perché la fanciulla fosse accolta tra le Francescane


Missionarie di Maria, fondate nel 1877 a Saint Brieuc (Bretagna), da Elena de Chappotin de Neuville, in religione Madre Maria della Passione (+1904), per l’istruzione e l’educazione della gioventù e la cura dei malati specialmente in terra di missione. La beata iniziò nel 1898 il suo noviziato a Grottaferrata con la ferma volontà di farsi santa, benché fin dai primi giorni dei probandato fatto a Roma, fosse stata inquieta riguardo il genere di vita abbracciato, parendole che si sarebbe trovata meglio in un Istituto che avesse esercitato l’umile ufficio della questua e avesse atteso alla cura degli infermi.


Durante il noviziato, Assunta corse il pericolo di esser rimandata in famiglia a causa di un’infiammazione alle ghiandole situate tra il collo e l’orecchio. Ella,che sarebbe stata contenta “di poter entrare in un Istituto religioso anche come donna di servizio”, ne rimase costernata.


Piuttosto di ritornare nel mondo si augurava che il Signore la facesse morire in convento. Pregò con grande fiducia la B. M. Vergine di Pompei che aveva imparato a venerare a Force sotto la guida del parroco, Don Luigi Martini, e la salute ritornò. Poté così legarsi a Dio con i voti l’8-12-1900 e continuare a sognare la vita missionaria.


In convento la beata poté dare libero sfogo alla brama che provava di pregare. Le sue consorelle attestano che in cappella stava immobile a mani giunte, senza appoggiarsi al banco, con gli occhi fissi al tabernacolo. Durante la meditazione, che faceva d’ordinario sulla passione di Gesù, per vincere il sonno si metteva sovente in piedi. Pregava continuamente per la conversione dei peccatori, la salvezza degl’infedeli e il suffragio delle anime del purgatorio per cui lucrava tutte le indulgenze possibili e faceva sovente la Via Crucis.


Col farsi suora, la Pallotta non cessò di attendere per amore di Dio e delle consorelle ai più umili e pesanti lavori dell’orto, del pollaio e del porcile. Tuttavia, anche durante le quotidiane fatiche, pregava con grande spontaneità. Nei brevi momenti che le rimanevano liberi dalle occupazioni correva in cappella. In ricreazione amava parlare o udire ragionare di Dio e di cose spirituali. Mostrava grande rispetto per i libri santi, i decreti della Chiesa e le decisioni del papa che chiamava “Dio in terra”.


Diffidente di se stessa, la beata nulla faceva senza il consiglio del confessore e il permesso delle superiore. Ubbidiva anche alle consorelle e nelle inevitabili contrarietà della vita religiosa esclamava serena: “Sia fatta la volontà dei Dio; come piace al buon Dio; come Dio vuole”. Se una consorella le appariva scontenta o scoraggiata le diceva con dolcezza e persuasione: “Pazienza, pazienza, dopo andremo in paradiso”. A chi lavorava con lei nell’orto, sotto il sole o la pioggia, sussurrava ogni tanto: “Coraggio, tutto per Gesù”. All’inizio del noviziato aveva detto alla condiscepola che le aveva manifestato la propria ripugnanza al maneggio della zappa: “Sorella, siamo venute qui per farci sante”.


Suor M. Assunta aveva cura delle minime cose, anche di quelle che altri rifiutavano, come i pozzetti di filo, di carta e di panno. Ricordava sempre i suoi umili natali, e riteneva troppo grande e troppo bello per sé quello che riceveva dalla comunità. Ripeteva che. essendo entrata nell’Istituto per carità, intendeva vivere e morire povera. Perciò quasi arrossiva quando le si apprestava qualche indumento nuovo preferendo scarpe vecchie e vestiti sdruciti. Della sua famiglia, in comunità parlava solo per chiedere la licenza di fare speciali penitenze perché suo padre diventasse un più fervente cristiano. Durante la sua infanzia, per fallimento doloso, egli aveva dovuto fare tre anni di prigione.


Principale preoccupazione della Beata fu sempre quella di praticare la carità verso tutte le consorelle con prontezza e disinteresse. Ne preveniva i bisogni senza badare a disagi e le assisteva inalate senza badare a fatiche. Di loro non parlava mai male. Quando riceveva piccoli servigi se ne mostrava riconoscentissima. Certe consorelle esigenti e iraconde talora non le risparmiavano osservazioni e rimproveri perché la ritenevano troppo ignorante e lenta nell’agire, ma ella pur soffrendo internamente, non si alterava. A volte era trattata da scema, a volte le veniva detto in faccia che era una santa ipocrita ma. anziché contristarsene, Suor Assunta se ne rallegrava perché era persuasa che le dicessero la verità. Il confessore ne prendeva le difese dicendo alla superiora: “Voi vi fate beffa di Suor Assunta considerandola una pazza, io invece riconosco in lei una suora di grande perfezione”. La religiosa da cui dipendeva nell’ufficio, essendo una po’ scossa di nervi, ogni tanto la maltrattava tirandole gli zoccoli in viso, o schiaffeggiandola o versandole addosso la brodaglia destinata ai maiali. Benché ricevesse simili affronti alla presenza di altre consorelle, la Beata non mostrava il minimo risentimento.


Quando Madre Maria della passione aprì a Firenze una casa dell’Istituto, Suor Assunta vi fu destinata nel 1902 perché attendesse un po’ a tutte le varie esigenze degli inizi. Vi si ambientò presto perché abituata a conformarsi in tutto alla volontà di Dio e sempre disposta a soffrire qualche cosa per suo amore. Un giorno, lavorando al bucato, un pezzo d’ago che si trovava nella liscivia le penetrò in una mano. In principio non diede importanza all’incidente, ma in seguito la mano le gonfiò tanto che il medico fu costretto a intervenire con una incisione. Al dolore provato la Beata non riuscì a trattenere le lacrime, ma invece di lamentarsene disse al dottore: “Non è nulla: il Signore ha sofferto ben più di me nella sua passione”.


Il 13-2-1904 Suor M. Assunta fu ammessa alla professione perpetua. Il giorno dopo ne diede notizia ai genitori in questi termini: “Non posso esprimervi quanto sono contenta… Ringrazio il nostro parroco di quanto ha fatto per me: oggi raccolgo il frutto di ciò che egli ha seminato. Dategli questa buona notizia; io spero che pregherà per me; e voi pure, carissimi genitori, pregate per la vostra figlia affinché sia fedele fino alla morte. Ieri mi sono offerta vittima per la Chiesa, e ho pregato Iddio che mi faccia morire subito piuttosto di cadere nella minima offesa volontaria. E vero che sono molto debole, ma tutto spero dall’aiuto di Dio e dall’intercessione della Vergine SS.”.


Il 1-1-1904 la beata espresse alla Madre generale il desiderio che aveva sempre nutrito fin dal suo ingresso nell’Istituto: recarsi in Cina per l’assistenza ai lebbrosi.. Il 19-3-1904, dopo aver ricevuto la benedizione di Pio X, partì da Napoli con dieci consorelle alla volta dello Scian-si, spiacente soltanto di non aver potuto rivedere i genitori. Il viaggio fu lungo e pericoloso. Durante una furiosa tempesta una consorella le chiese se provava paura, ma ella le rispose con tutta tranquillità: “Essere in fondo al mare o in missione, per me è la stessa cosa, se il buon Dio vuole così”.


In Cina, Suor Assunta fu destinata alla cucina dell’Istituto aperto a Toung-eul-Keu in cui erano ricoverate 400 orfanelle. Per poter pregare con le cinesi che l’aiutavano nelle faccende domestiche volle apprendere subito il Pater noster e l’Ave Maria nella loro lingua. Anche in Cina non le mancarono contraddizioni e umiliazioni come quella impostale dalla superiora di portare appesa al petto un pezzo di carta con sopra scritti i propri difetti; non le mancarono neppure scrupoli e dubbi sulla grazia della vocazione, ma le servirono ad accrescere lo splendore della corona che doveva ricevere presto dal Signore.


La sera del 19-3-1905, a un anno dall’arrivo in Cina la beata fu costretta a coricarsi innanzi tempo a causa della febbre. Il medico diagnosticò una blanda forma di tifo, l’inferma invece manifestò alla superiora il desiderio che aveva di fare subito la confessione generale perché sentiva che sarebbe morta presto. Alcuni giorni dopo chiese gli ultimi sacramenti benché la sua superiora continuasse a confidare nella guarigione. Di lì a poco la beata si aggravò. Una notte alla consorella che l’assisteva disse con lo sguardo fisso in un punto della stanza: “Quanto bisogna essere fedeli al Signore, perché il purgatorio è terribile per una religiosa!”. Morì il 7-4-1905 dopo alcuni giorni di delirio durante il quale non fece altro che recitare preghiere sconnesse. Venti minuti prima che morisse fu percepito, da tutti coloro che l’assistevano, un delizioso profumo. Esso continuò a diffondersi per tre giorni successivi nelle tre diverse stanze in cui l’inferma era stata curata. Il P. Benvenuto Maretta, confessore della comunità, attestò che il Signore aveva voluto glorificare con quel prodigio l’umiltà della sua serva che, per tutta la vita, si era sempre considerata una povera peccatrice. Le ricchezze che la beata lasciò alle consorelle sono costituite dalla disciplina, dal ditale, dal libro delle costituzioni e da un libriccino in cui aveva annotato le sue risoluzioni. Nel 1913 le spoglie mortali della santa religiosa furono esumate e traslate nel cimitero di Tai-yuan-fu. Pio XII la beatificò il 7-11-1954.


 



Sac. Guido Pettinati SSP,


I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 113-119.


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