B. GIUSEPPINA BAKHITA (c. 1865-1947)

A chi la conobbe, Suor Giuseppina diede l’impressione di essere “un angelo in terra”, una religiosa “straordinariamente virtuosa” benché non praticasse eccezionali penitenze. Essendo persuasa che doveva restare nel mondo tanto tempo quanto il Signore avrebbe voluto, senza mostrare preferenze e gusti, per lei tutto era buono, tutto era di troppo. In cima a tutte le sue aspirazioni c’era il desiderio di ubbidire sempre e con sollecitudine ai superiori. Non le mancarono difficoltà nella vita religiosa, sgarbatezze da parte di consorelle poco pazienti. Anziché confidare ad altre consorelle la sua angustia si limitava a dire: “Passa tutto: facciamo ogni cosa per il Signore”. A lui e di lui parlava sovente.

E’ la seconda santa africana, vero
“giglio tra le spine”, che il Signore, tramite Giovanni Paolo II, ha
voluto che fosse elevata agli onori degli altari, perché perfetto modello di
carità, di laboriosità e conformità al divino volere. Dove e quando sia nata e
chi fossero i suoi genitori è impossibile stabilire. Pare che abbia visto la
luce nel 1869 in un villaggio ai piedi del Jebel Agilerei, nel Darfur, vasta
provincia del Sudan, ai confini del Ciad. La sua famiglia era composta di tre
fratelli e quattro sorelle, compresa la Beata, che era gemella. Più avanti
negli anni confiderà alle Suore Canossiane, sue educatrici, che suo padre era un
vice capo e che sua madre sorvegliava i contadini al lavoro. Entrambi le
volevano bene ed erano onesti. Nella loro tribù non esisteva la poligamia.
 Bakhita crebbe con un animo puro e
semplice, molto rispettoso di tutte le leggi di natura. Quando si divertiva o
coglieva fiori nella prateria, guardando il sole, la luna e le stelle lodava
chi li aveva fatti. Sovente si domandava: “Chi sarà colui che accende
tutti quei lumi in cielo?”. E provava un sentimento di trasporto verso
l’Essere per lei ancora misterioso. Un giorno uscì a cogliere fiori sul prato
in compagnia di un’amica. A un certo momento si vide assalita da due predoni,
avvolti in un lenzuolo, i quali invitarono la sua compagna a fare ritorno nella
capanna, e chiesero a lei di andare a prendere, al limite estremo del campo, un
involto che dicevano di avere dimenticato. La Beata ubbidì, ma mentre cercava
l’involto, i due schiavisti, strisciando lungo la siepe, le furono addosso. Uno
di loro l’afferrò per le braccia e l’altro la minacciò con un coltello.
Bakhita, di forse nove anni, non poté gridare perché era rimasta esterrefatta.
Ogni tanto si dimenava e cercava di svincolarsi, ma i due a viva forza la
trascinarono con sé malmenandola e frustandola. Strada facendo le chiesero come
si chiamava. La schiava non seppe rispondere. Lo spavento, il dolore e la
stanchezza le avevano tolto il ricordo di ogni cosa. I due predoni, per ironia,
le imposero il nome di Bakhita che, nella loro lingua, significa
“Fortunata”.
 Due anni prima altri predoni avevano
rapito alla Beata la sorella maggiore, sposata con un figlio. Pensando al
villaggio natio, al dolore dei genitori, Bakhita, angosciata, ogni tanto
esplodeva in pianti e lamenti. Al termine del viaggio verso nord, che durò
quasi un giorno ininterrottamente, fu rinchiusa in una specie di porcile senza
finestre e con copertura bassa. Ne uscì soltanto quando un mercante di schiavi
la comperò, dopo attento esame, e la unì alla carovana che si ingrossava di
villaggio in villaggio. Durante la prigionia, nel momento in cui il padrone le
tolse le catene perché fosse più agile nello spannocchiare il mais, tentò di
fuggire con una compagna seguendo un figura che sembrava indicare loro la
strada. Per diverso tempo, affamate e assetate, vagolarono per la foresta tra i
ruggiti delle bestie feroci, ma furono riprese da un altro negriero e condotte
al mercato degli schiavi di Kordofun. Bakhita fu comperata da un altro negriero
e rivenduta diverse volte a parecchie famiglie. Andò naturalmente soggetta a
sofferenze e a umiliazioni di ogni genere, ma le sopportò con naturale
rassegnazione. Negli ultimi giorni di vita dirà nel delirio a chi l’assisteva:
“Mi allarghi le catene. Pesano!”.
 A Khartoum il padrone di una
moltitudine di schiavi trattenne Bakhita in casa sua perché prestasse servizio
alle sue due figlie più giovani. Un giorno, suo figlio, per un futile motivo,
percosse la Beata con tale violenza da lasciarla per un mese senza forze.
Appena le recuperò fu comperata da un generale turco. Anche nella famiglia di
costui Bakhita ebbe molto da soffrire specialmente da parte delle sue figlie e
del figlio i quali la seviziarono, le cagionarono numerose ferite sulle spalle
e sul petto nelle quali conficcarono grani di sale perché non si
rimarginassero. Dopo due anni, per ordine della padrona, fu costretta a subire
l’orrendo supplizio del tatuaggio. La fattucchiera, incaricata dell’operazione,
con un rasoio fece sei incisioni sul petto di Bakhita, 60 sul ventre e 48 sul
corpo, profonde circa un centimetro. In esse anche la megera confisse grani di
sale affinchè le cicatrici rimanessero sempre visibili. Per il bruciore la
schiava delirò diversi giorni tra la vita e la morte. Essendo dotata di un
fisico robusto dopo due mesi poté riprendere le sue normali occupazioni.
 Il calvario della Beata non era
tuttavia ancora finito. Un giorno il generale disse alla moglie: “Bakhita
si sviluppa bene, ma non mi piace che i suoi seni assumano forme
spiccate”. Nel pomeriggio la chiamò. Ella, come al solito, corse a inginocchiarglisi
ai piedi, ed egli ne approfittò per afferrarle le mammelle e torcerle con forza
come fossero degli stracci lavati. Per lo spasimo la schiava svenne. Il padrone
ripeté l’operazione altre tre volte in giorni diversi dando a Bakhita l’ordine
di rimanere ferma, di non lamentarsi, diversamente l’avrebbe fatta frustare. Il
petto della sventurata africana, con sua grande confusione, fu così reso simile
a “una tavola liscia”. In mezzo a tante ingiuste sofferenze la Beata
né si ribellò, né si lamentò di chicchessia. Più avanti negli anni, a chi le
dirà che i negri africani erano cattivi perché la avevano maltrattata tanto,
risponderà mettendo un dito sulla bocca: “Silenzio! Non erano cattivi;
soltanto non conoscevano il buon Dio”.
 Dentro di sé la Beata si sentiva
istintivamente portata al bene e di essere soprattutto sostenuta da una forza
misteriosa. Un giorno confesserà a una Canossiana: “Madre! Io sono stata
in mezzo al fango, ma non mi sono mai imbrattata!”. A un’altra dirà: “Io
non sono mai stata violentata. La Madonna mi ha protetta benché io non la
conoscessi!”.
 La schiavitù di Bakhita ebbe
termine quando fu comperata sul pubblico mercato di Khartoum (1884) dal console
italiano. Portava al naso un grosso anello d’oro e aveva i capelli molto lunghi
e ricciuti. Il console la considerò non come una schiava, ma come una
domestica. Le procurò i primi vestiti, e l’aiutò a ricercare i suoi familiari,
benché inutilmente. Bakhita rimase in casa del console per due anni, cioè fino
a quando fu richiamato d’urgenza in Italia. La Beata lo seguì. Desiderava tanto
conoscere la patria del suo padrone. A Genova, appena mise piede a terra,
istintivamente si inginocchiò e la baciò. Dovendo il console proseguire il
viaggio per Padova, a malincuore dovette fare dono di Bakhita alla signora
Micheli, greco-scismatica, sposata ad Augusto, cattolico italiano non
praticante e residente a Mirano (Venezia), perché gliene aveva fatto con
insistenza richiesta. I due coniugi avevano una bambina di circa tre anni, di
nome Mimmina, la quale si affezionò grandemente alla schiava con la quale, al
mattino e alla sera, recitava le più comuni preghiere del cristiano benché
Bakhita non fosse in grado di comprenderle.
 Dopo tre anni la famiglia Micheli
decise di stabilirsi in Africa, a Suakin, porto del Sudan. Bakhita provò un
grande dispiacere a lasciare l’Italia. Dio però dispose che vi ritornasse con
la padrona e la sua amichetta quando Augusto, deciso di stabilirsi
definitivamente a Suakin, incaricò la consorte di ritornare in Italia perché
vendesse le terre che vi possedevano. Dopo due anni la signora, che non era
riuscita a ultimare le sue vendite, ripartì momentaneamente per l’Africa.
Bakhita, per suggerimento del fattore della famiglia Micheli, fu collocata nel
Catecumenato di Venezia, diretto dalle Figlio della Carità Canossiane. Le fece
compagnia anche Mimmina perché non aveva voluto assolutamente separarsi
dall’amica. L’idea non dispiacque alla signora. Salutando Bakhita, senza sapere
di fare una profezia, le disse: “Ecco, questa è la tua casa: resta”
(1889).
 Con pazienza ammirabile le Figlie
della Carità istruirono la moretta nelle verità della fede in cui, nonostante
le difficoltà del linguaggio, fece tali progressi da desiderare molto presto il
battesimo. Stava per giungere l’alba radiosa del gran giorno quando dall’Africa
giunse la signora Micheli con la pretesa di riprendersi Bakhita e di ricondurla
in Africa insieme alla figlia. La Beata si rese immediatamente conto del
pericoli in cui si sarebbe venuta a trovare di perdere la fede. Guardò il
crocifisso che pendeva dalle pareti del parlatorio ed esclamò: “No, non la
seguirò. Io resto”. Era la prima volta in vita sua che aveva trovato la
forza di dire di no. La suora presente alla scena le consigliò di non mostrarsi
ingrata verso la padrona e di non fare soffrire Mimmina, ma ella, dopo un
momento di smarrimento, reagì e rispose con forza: “No, non lascerò la
casa del Signore: sarebbe la mia rovina spirituale”. Il caso suscitò scalpore,
ma tanto le autorità religiose quanto quelle civili dichiararono che era libera
di disporre come voleva di se stessa anche perché non era stata acquistata, ma
ricevuta soltanto in dono dal console italiano.
 Il 9-1-1890 la virtuosa moretta
poté essere battezzata con i nomi di Giuseppina, Margherita e Fortunata,
ricevere la cresima e fare la prima comunione nella chiesa dei Catecumeni per
le mani del patriarca di Venezia, il card. Domenico Agostini. I catecumeni di
solito rimanevano ancora un anno nell’Istituto dopo il battesimo. Bakhita vi
rimase due anni durante i quali maturò la sua vocazione alla vita religiosa. Se
ne sentiva indegna perché di razza nera. Il confessore interpose i suoi buoni
uffici. Tanto la superiora generale delle Canossiane, Madre Anna Previtali,
residente a Verona, quanto l’ordinario del luogo, il Card. Luigi Canossa
(+1900), l’accolsero tra le Figlie della Carità a braccia aperte. Quando ne
venne a conoscenza, la Beata cadde in ginocchio e ne diede grazie a Dio e
all’Istituto che S. Maddalena di Canossa (+1835) aveva fondato per l’istruzione
e l’educazione della gioventù meno abbiente.
 Il 7-12-1893 la Beata iniziò il
noviziato nella stessa Casa dei Catecumeni. L’8-12-1896 fu ammessa a Verona
alla prima professione dopo che, a Venezia, il Patriarca Giuseppe Sarto, poi
Papa Pio X (+1914), nell’esaminarne la vocazione le aveva detto:
“Pronuncia i sacri voti senza timore: Gesù ti vuole bene. Gesù ti ama.
Anche tu amalo e servilo sempre così”. Pronunciati i voti la Beata ritornò
a Venezia. Emetterà i voti solenni soltanto il 10-8-1927 nella cappella della
casa filiale di Mirano Veneto.
 A Venezia Suor Giuseppina trascorse
le sue giornate in lavori femminili nel laboratorio delle ragazze. Per non
essere di peso a nessuno era incapace di stare in ozio. Quando non ricamava o
non lavorava all’uncinetto o ai ferri, dipanava matasse, fabbricava cestini e
quadretti, confezionava con perle graziosi oggetti che servivano per premiare
le alunne dell’Istituto, per le pesche di beneficenza ed eventuali regali.
L’arciprete di Schio, Don Elia Della Costa, dal 1931 arcivescovo di Venezia e
poi cardinale (+1958), ne ammirò la laboriosità. Eppure Bakhita aveva un
bassissimo concetto di sé. Si riteneva infatti un essere inutile, un povero
“gnocco”, una povera “grama”, una “zucca”
incapace di aiutare la superiora. La sua conoscenza era limitata al dialetto
veneto. Imparò a leggere con fatica l’italiano, ma non a scriverlo.
 All’inizio del secolo la Beata era
stata trasferita a Schio (Vicenza) con l’incarico prima della cucina, poi della
sacrestia e quindi della portineria, uffici che esercitò sempre con prontezza,
semplicità e affabilità. Nei cambiamenti di casa o di ufficio fu pronta e lieta
di animo nell’ubbidire. Diceva infatti: “Non c’è Dio anche in quella casa?
Non c’è la santa regola?”. La sua vita fu definita una storia
meravigliosa. Giunse tardi alla conoscenza di Dio, ma quando se ne fece un’idea
esatta riguadagnò il tempo perduto. Quando qualche superiora le chiedeva: “Suor
Bakhita, come va?”, rispondeva invariabilmente: “Sto qui, come
“il Paron” vuole. L’importante è fare la sua volontà”. Temeva
però di comparire un giorno davanti al Signore a mani vuote, nonostante le
sofferenze patite da bambina, perché “allora, commentava, non conoscevo il
Signore e non sapevo soffrire per lui. Nessuno mi aveva parlato di Dio. Io ero
schiava e credevo che i padroni potessero fare di me ciò che volevano”. In
tutti gli uffici fu di edificazione alle consorelle. In un primo tempo alcune
di esse non si curarono molto di lei perché era di razza nera, ma in seguito
cominciarono a stimarla sempre più e ad ammirarla per le sue virtù.
 A chi la conobbe, Suor Giuseppina
diede l’impressione di essere “un angelo in terra”, una religiosa
“straordinariamente virtuosa” benché non praticasse eccezionali
penitenze. Essendo persuasa che doveva restare nel mondo tanto tempo quanto il
Signore avrebbe voluto, senza mostrare preferenze e gusti, per lei tutto era
buono, tutto era di troppo. In cima a tutte le sue aspirazioni c’era il
desiderio di ubbidire sempre e con sollecitudine ai superiori. Non le mancarono
difficoltà nella vita religiosa, sgarbatezze da parte di consorelle poco
pazienti. Anziché confidare ad altre consorelle la sua angustia si limitava a
dire: “Passa tutto: facciamo ogni cosa per il Signore”. A lui e di
lui parlava sovente. Sfruttava tutte le occasioni per elevare a Dio la sua
mente e quella delle orfanelle, delle scolare, degli operai che coltivavano
l’orto dell’Istituto e dei soldati ricoverati durante la guerra 1914-1918 in
un’ala della casa delle Canossiane. Per volontà dei superiori ogni tanto si
intratteneva con chi voleva vederla. Parlava allora delle verità della fede con
tale precisione da dare l’impressione di avere studiato, e invitava tutti alla
riconoscenza dicendo: “Siete fortunati voialtri perché avete cominciato
subito: io invece ho cominciato tardi”. Più volte fu udita esclamare:
“Oh, se i miei sapessero dove io sono!”. Quando aveva occasione di
rivedere la chiesa dei Catecumeni a Venezia, andava a inginocchiarsi davanti al
fonte battesimale, baciava la terra e diceva: “Qui, qui sono diventata
figlia di Dio!”.
 Desiderava conoscere e amare sempre
di più il Signore perché era persuasa di non poterlo amare mai a sufficienza.
Suor Bakhita coltivava una particolare devozione verso l’Eucarestia, di cui era
innamorata. Per riceverla era capace di restare digiuna fino a mezzogiorno.
Quando andava in chiesa portava con sé il libro delle preghiere, della dottrina
cristiana e delle regole. Siccome leggeva con fatica, sovente si metteva in un
angolo del coro, contemplava i misteri di Dio senza bisogno di sussidi esterni
e restava assorta in preghiera come una statua. Non si stancava di stare in
chiesa. Diceva di trovarsi bene davanti al Signore che supplicava per coloro
che si raccomandavano alle sue preghiere, per la conversione degli africani e
dei peccatori per cui faceva pregare specialmente i bambini dell’asilo. E
ripeteva: “Che non vadano all’inferno!”. Per non perdere la pazienza
recitava il rosario in portineria nei ritagli di tempo. A suffragio delle anime
del Purgatorio ogni giorno faceva il pio esercizio della Via Crucis, anche
quando non era prescritto.
 La Beata era la semplicità in
persona. Incapace di fingere e di dire bugie, a tutti, ma specialmente ai
piccoli, inculcava l’amore alla verità e alla virtù. Ci fu chi la tacciò di
infantilismo perché, sovente si rendeva ridicola agli occhi delle consorelle
con le sue sgrammaticature o si prestava a fare giuochi o esercizi ginnici
molto curiosi. Ella si proponeva soltanto di tenere allegre le Figlie della
Carità sempre tanto occupate con l’asilo e con la scuola. Non si lasciava
dominare da sentimentalismi. Parlava poco e con prudenza. Invece di mettere in
risalto i difetti del prossimo, li correggeva senza urtarne la suscettibilità.
 Dal 1933 al 1935 Bakhita fu
incaricata di visitare con una consorella, piuttosto esigente, le case
dell’Istituto sparse per l’Italia allo scopo di raccogliere elemosine per le
missioni. Ubbidì senza lamentarsi benché le dolesse una gamba per un calcio
ricevuto dal figlio di un suo padrone, le ripugnasse assai parlare in pubblico
perché era incapace di esprimersi in italiano e, sovente, fosse oggetto di
rimprovero da parte della suora conferenziera la quale avrebbe desiderato che
parlasse più a lungo. Invece parlava poco e in dialetto veneto. Faceva il segno
della croce e si limitava a dire: “Siate buoni. Vogliate bene al Signore.
Vedete quale grazia egli mi ha fatto”. Oppure: “Eccomi qua. Il
“Padrone” è stato buono con me. Egli vuole bene a tutti. Vogliamoci
bene e non offendiamolo con il peccato”. Chi l’avvicinava capiva che in
lei c’era qualcosa che attirava.
 Con il passare degli anni suor
Giuseppina cominciò a risentire delle sofferenze patite da schiava. Fu colpita
prima da elefantiasi, poi da artrite e asma bronchiale, infine da una
broncopolmonite. Nelle sue malattie, non conobbe sconforti anche se fu privata
dei suoi incarichi e costretta a trascorrere la giornata sopra a una
carrozzella a causa di una infermità alla gamba. Ne approfittava per rimanere
in cappella o nel coretto della chiesa a pregare per le necessità della sua
famiglia, della Chiesa e del mondo intero. Se l’infermiera si scusava con lei
quando non riusciva ad andarla a prendere a tempo debito le diceva: ‘”Mi
ha fatto un gran regalo perché mi ha permesso di tenere compagnia a Gesù”.
Quando non riusciva a fare la comunione perché il cappellano era troppo
occupato, anziché lagnarsene esclamava: “II Signore l’ho sempre in me. Lo
adoro ugualmente!”. Nel corso della malattia soffrì senza un lamento
pensando alla Passione di Gesù e ai dolori della sua SS. Madre.
 In mezzo a tante sofferenze Bakhita
mise in risalto la sua celestiale serenità di spirito, la sua intima e profonda
unione con Dio, la sincera e mai celata felicità di essere al più presto
accanto al “Padrone”. Ogni tanto ripeteva: “Spero che il Signore
venga a prendermi presto: però faccia quello che vuole: né un’ora prima, né
un’ora dopo!”. Aspettava con pazienza l’aiuto dell’infermiera per sedersi
sul letto o sulla poltrona perché aveva dolori in tutto il corpo, a ogni colpo
di tosse le si rompevano le costole, le mancava il respiro e non poteva
muoversi. E sospirava: “Mi dispiace soltanto perché non posso pregare e
parlo al Signore alla buona”. Come già in vita, anche allora si mostrò
gelosissima della sua castità cercando di essere toccata il meno possibile
dall’infermiera anche quando le cure mediche lo esigevano.
 Tra gli ultimi ragionamenti della morente
fu registrato anche questo: “Io me ne vado, ma adagio adagio… passo
passo. Ho due valigie da portare con me, la mia, piena di debiti, quella di
Gesù, molto più pesante, colma di meriti. Io sono il suo attendente: egli è il
mio capitano. Che farò prima di giungere al tribunale di Dio? Coprirò i miei
debiti con i meriti di Maria, aprirò l’altra valigia e dirò: “Eterno
Padre, ora giudicate quello che volete”.
 Nell’ultimo giorno di vita la Beata
ricevette la comunione alle undici del mattino. A chi le chiedeva perché così
tardi, rispose: “Sì, perché questa e poi basta!”. Difatti nel
pomeriggio ricevette il viatico e la sera morì. Prima disse: “Da lassù
pregherò tanto per il papa, la santa Chiesa, i peccatori, i miei negri, i
superiori, l’Istituto”. Quando, chi l’assisteva, le fece notare che era
sabato, giorno dedicato alla Madonna, la morente con gioia esclamò:
“Quanto sono contenta… la Madonna, la Madonna”. Furono queste le
sue ultime parole.
 Dopo la morte la salma della moretta si
conservò flessibile e non incusse paura a nessuno, come aveva predetto. Difatti
le mamme andarono a gara a prenderle le mani e a farle posare sulla testa dei
loro figli a protezione. Giovanni Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù
il 1-12-1978 e ne ha approvato il miracolo in data 6-7-1991. Le sue reliquie
sono venerate a Schio nella chiesa dell’Istituto che ella aveva santificato con
le sue ardenti preghiere.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 2, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 138-146.

http://www.edizionisegno.it/