B. GIUSEPPE TIMOTEO GIACCARDO (1896-1948)

La formazione all’umiltà era uno dei temi su cui Don Giaccardo si fermava di più nel dettare le meditazioni. Diceva: “Per me il Vangelo è il libro dell’umiltà”. Ne deduceva la necessità quindi, di “farsi piccoli, sentirsi piccoli, restare piccoli”. Esortava; “All’umiltà non dite mai di no perché più entrate nell’umiltà, più assomiglierete a Gesù Cristo… Umiliamoci anche quando dovessimo inchiodare con Gesù la nostra volontà alla croce”. Perché “l’amore alle comodità non fa mai i santi”, mentre “chi uccide l’io, trova Dio”. Stimolava i suoi uditori a praticare qualsiasi virtù in maniera pronta, facile e dilettevole. Sottolineava sempre e specialmente l’ultimo avverbio perché era convinto che “un uomo scontento è un uomo a metà”.

È il primo sacerdote religioso della Società San Paolo fondata ad Alba (Cuneo) il 20-8-1914 dal servo di Dio Don Giacomo Alberione (1884-1971) per l’evangelizzazione dei popoli mediante l’apostolato con gli strumenti della comunicazione sociale. Il Giaccardo nacque il 13-6-1896 a San Giovanni Sarmassa, borgata di Narzole d’Alba (Cuneo), primogenito dei cinque figli che Stefano, modesto mezzadro, ebbe da Maria Cagna, donna di casa molto attiva e molto devota della Madonna del Rosario. Al fonte battesimale gli furono imposti i nomi di Giuseppe, Domenico e Vincenzo.
L’infanzia di Giuseppe (Pinot) si svolse sotto lo sguardo dei pii ed onesti genitori, lavoratori prima nella fattoria “Battaglione” in cui era nato, e poco dopo in una casa di Narzole, poco lontano dalla chiesa parrocchiale, dedicata a San Bernardo, in cui il padre, per un dissesto finanziario, era stato costretto a trasferirsi adattandosi a fare da mediatore, da norcino e anche un po’ da sacrestano. A quattro anni il Beato imparò tutte le preghiere del buon cristiano frequentando l’asilo, diretto dalle Suore di S. Anna, e a sette anni cominciò ad apprendere i primi rudimenti del sapere frequentando le scuole comunali, dirette da ottimi maestri. Non sappiamo in che anno abbia fatto la prima comunione. Produsse in lui senza dubbio salutari frutti se l’anziano padre, nel processo, poté affermare: “Non ho mai sorpreso mio figlio a dire bugie… In famiglia non ho mai dovuto riprenderlo e castigarlo per mancanze commesse”. A dodici anni fu cresimato in San Bernardo dal vescovo d’Alba, Mons. G. Francesci Re (1848-1933); Don Alberione, il quale era stato mandato in quella parrocchia nella primavera di quell’anno perché assistesse il parroco, ormai al termine della vita, ne aveva ricevuto la prima confessione generale.
Quando lo vide giungere in parrocchia al mattino presto con Francesco Grosso, in seguito missionario della Consolata, per servigli la Messa, Don Alberione ne fu subito ottimamente impressionato per la docilità, lo spirito di preghiera e la quotidiana frequenza ai sacramenti. Poiché manifestava il desiderio di farsi sacerdote, nell’ottobre del 1908 se lo portò con sé in seminario essendo stato nominato direttore spirituale degli alunni. Di lui attestò Pasquale Gianoglio, seminarista, in seguito vicario generale della diocesi: “Era un ragazzo mingherlino, fisicamente insignificante, aveva due occhi neri vivissimi che rispecchiavano un’anima serena, tranquilla; sempre sorridente, composto, raccolto, specialmente in cappella nella preghiera, senza singolarità alcuna; e tale contegno conservò durante tutta la vita.. .Nonostante primeggiasse negli studi non ostentava mai questa superiorità anzi cercava di passare inosservato”, ben sapendo quanto fosse invidiato dai compagni.
Secondo Don Alberione “non mancò in lui qualche difficoltà che potrei chiamare “crisi dei giovani”, ma egli superò tutto con fortezza di animo tanto da poter asserire di non avere offeso mai volontariamente il Signore”. Due anni dopo l’ingresso in seminario, emise il voto annuale di castità. La forza di osservarlo sempre gli derivò da una tenera e filiale devozione a Maria SS. di cui si considerava schiavo, secondo lo spirito di S. Luigi M. Grignion de Montfort (+1716). Secondo Francesco Grosso suo compagno di scuola, “sul banco di studio teneva l’immagine della Consolata e la baciava sovente dicendo qualche giaculatoria… Di frequente mi diceva: Franceschino facciamoci santi perché questo è il nostro mestiere… Sovente si rammaricava con me di non poter cantare la Messa a motivo della sua voce stonata”. Per tutta la vita gli rimase purtroppo anche immatura, poco simile a quella di un adulto. Nei cinque anni di ginnasio fu continuo l’impegno del Beato per adempiere con fedeltà e amore tutti i suoi doveri.
Il Diario o esame di coscienza che cominciò a fare per iscritto dopo la vestizione dell’abito clericale (8-12-1912), e che protrasse fino alla morte, ce lo descrive difatti impegnato e proteso in uno sforzo che non subisce rallentamenti o flessioni, verso la santità, mediante un lavoro interiore incessante di purificazione della propria coscienza, la fuga del peccato anche veniale, l’esercizio dell’umiltà, il compimento del dovere quotidiano, nell’aspirazione a un ideale che egli riassume in una formula sempre ricorrente sotto la penna: assimilare lo spirito di Gesù per vivere soltanto di Lui, in Lui, con Lui, per Lui.
Il 22-1-1915 il Giaccardo fu chiamato alle armi e assegnato alla 2a Compagnia di Sanità di Alessandria, ma il 7-1-1916 fu riformato perché affetto di oligoemia (anemia). Ritornò in seminario a fare da assistente agli studenti, ma ne fu presto dispensato perché nell’esigere la disciplina era pedante e minuzioso. Il Beato in preda a umiliazioni non accettate, a invidie e a principi di scoraggiamento levò ardente il grido: “Gesù, tu mi sostieni, ed io confido in Te. Voglio farmi santo. Trasformami in Te” (nov. 1916).
Nella solennità dell’Immacolata emise il voto perpetuo di castità, riconoscente alla Vergine perché lo aveva aiutato a superare le dure lotte che, da più di un anno, aveva dovuto sostenere riguardo alla castità.
Di mano in mano che il Giaccardo cresceva nella scienza e nella virtù, i legami con Don Alberione e la sua opera divennero sempre più stretti. Anche il can. Francesco Chiesa (1874-1946), suo professore di filosofia, lo confermò in quella amicizia. Chiese il permesso al vescovo di unirglisi “con umiltà, fermezza e semplicità”, ma questi per metterlo alla prova gli notificò che, se intendeva restare chierico doveva rimanere in seminario.
Il Giaccardo non venne meno alla sua decisione benché in seminario non mancasse chi gli dicesse che Don Alberione lo avrebbe trattenuto con la sua dozzina di ragazzi che costituivano la Scuola Tipografica “Piccolo Operaio” tanto che gli fosse stato utile, e poi lo avrebbe abbandonato; o chi insinuasse che lui desiderava raggiungere Don Alberione per sdebitarsi di tutti gli aiuti che fin dalla fanciullezza aveva da lui ricevuti. Nel Diario annotò pure: “Mi si dice oltre il resto, che sono ipnotizzato da lui e che manco delle capacità proprie del giornalista”. In realtà nel corso degli studi, se il Beato era sempre riuscito bene nelle scienze esatte, nella elaborazione dei temi aveva lasciato alquanto a desiderare. Don Alberione gli infuse coraggio dicendogli: “Sta certissimo della tua vocazione. Per crederti ingannato, dovresti strappare il Vangelo”.
Il Beato il 4-7-1917 entrò nell’Opera di Don Alberione con il beneplacito del Vescovo. Essendo chierico di quarta teologia ebbe il compito di assistere i giovanetti della Scuola tipografica, fare loro scuola, correggere le bozze dei bollettini parrocchiali e dei libri che si stampavano in tipografia, e continuare a studiare in preparazione al sacerdozio. Il fondatore lo aveva presentato alla sua comunità come “Maestro”, ed egli nel suo zelo di neofita, a poco a poco cominciò a oltrepassare i confini che gli erano stati assegnati introducendo nella vita di comunità un formalismo amante di rigidi schemi con disorientamento degli aspiranti più grandicelli tanto che, qualcuno di loro, propose che il “signor Maestro” fosse rimandato in seminario. Don Alberione, che aveva bisogno del suo aiuto si limitò a dirgli: “Tu sei ancora imbevuto dello spirito di disciplina del seminario e non dello spirito dell’Istituto. Esso deve essere tutto coraggio, allegria, unità. Il tuo posto è quello di umile discepolo. Devi essere superiore solo per il sapere, per la virtù e particolarmente per l’umiltà. Tutti qui sono alle mie dipendenze: questo si richiede perché la volontà di Dio non sia intralciata. Così andrà meglio per te, per la casa e per me”.
Il Beato Giaccardo capì la lezione a volo e, da quel momento fino alla morte, a costo di versare lacrime di sangue, rinunziò completamente tanto alla sua maniera di vedere l’Opera, quanto alla pretesa di imprimerle un indirizzo nuovo, di agire conforme al formalismo più consono al proprio temperamento. Imboccò così la via giusta per giungere quanto prima alla santità. Don Stefano Lamera, postulatore della sua causa, scrisse in Lo Spirito di D. Timoteo Giaccardo, edito ad Alba nel 1954: “Nonostante la buona volontà, egli non arrivò, anche per il suo carattere, a possedere pienamente quella semplicità sobrietà e scioltezza che è propria della pietà paolina” (p. 91). E ancora: “Perché impegnato in altri doveri, non riuscì ad acquistare una vera competenza nel lavoro tecnico e di propaganda” (p. 95) parte integrante nell’educazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa paolina.
Il vescovo, che seguiva vigile lo sviluppo dell’Opera di Don Alberione, contro le previsioni di alcuni sacerdoti della diocesi, il 19-10-1919 consacrò sacerdote Don Giaccardo e lo incardinò alla diocesi perché l’Istituto di Don Alberione non era ancora canonicamente cretto in congregazione. Ciò nonostante il 30-6-1920 il fondatore fece emettere al suo primo figlio spirituale i voti privati nell’Istituto con il nome di Timoteo, il diletto discepolo di S. Paolo, e lo incaricò di predicare ritiri spirituali, di confessare e di recarsi tutte le domeniche a piedi a Benevello, distante 13 chilometri da Alba, per aiutare nella cura delle anime il parroco, don Luigi Brovia (+1926), il quale gli era stato largo di aiuti.
Nonostante gli accresciuti impegni Don Giaccardo continuò anche gli studi. Difatti il 12-11-1920 conseguì a Genova la laurea in teologia presso la facoltà di S. Tommaso a pieni voti, benché non possedesse speciali doti. In seguito continuò ad aggiornarsi, ma lo sviluppo sempre più rapido della famiglia paolina e le occupazioni sempre più impellenti alle quali dovette far fronte, gli impedirono di approfondire le materie specifiche del sacerdote. Dalla lettura dei suoi poco scorrevoli scritti, di carattere parenetico e devozionale, si ricava l’impressione che la sua formazione teologica sia rimasta piuttosto sommaria.
In quel tempo Don Alberione, per non costringere i suoi ragazzi a continui traslochi, decise di fare costruire in proprio la Casa Madre dell’Istituto benché diversi sacerdoti diocesani ne temessero il fallimento. Il primo tronco fu benedetto personalmente dal vescovo il 5-10-1921. Da quel giorno l’Opera di Don Alberione si chiamò Pia Società S. Paolo. Don Giaccardo ne fu nominato vicesuperiore ed economo. Come se ciò non bastasse, fu pure incaricato di dirigere la Cassetta d’Alba, settimanale diocesano, di cui Don Alberione era diventato proprietario. Era il tempo in cui Benito Mussolini (1883-1945) si preparava, a marciare su Roma per impadronirsi del governo e imbavagliare la stampa contraria al fascismo. Nel redigere il settimanale Don Giaccardo s’impegnò a riportare sempre con fedeltà il pensiero del papa come già faceva nella predicazione, nella scuola e nelle private conversazioni.
Secondo Don Pietro Occelli, confessore del Beato negli ultimi sedici mesi di vita, “non era egli un uomo fatto per amministrare denaro”. Don Giovanni Basso, die condivise con lui i tempi eroici degli inizi, depose nel processo: “Mi colpiva e impressionava come sapesse comportarsi con pace e serenità in un lavoro irto di enormi difficoltà, soprattutto a contatto dei fornitori della casa e dei creditori in genere. Era proverbiale il modo con cui li trattava. Riusciva ad ammansire anche i più ricalcitranti. Si diceva: “Andavano a chiedergli denaro e molto spesso venivano persuasi a portargliene dell’altro”. Questa calma gli proveniva da una profonda vita inferiore, dalla fede viva nella Provvidenza e dalla sua convinzione circa la bontà dell’Opera di Don Alberione. Sulle cambiali, sulle tratte e sulle richieste di denaro in genere era solito tenere una statuetta di S. Giuseppe come per dirgli: “Pensaci tu”.
Nessuna iniziativa Don Giaccardo prendeva senza il beneplacito del fondatore da tutti chiamato il Primo Maestro. Avendo ormai legato a lui tutta la vita, ebbe una parte preponderante nell’accogliere e nel formare i primi aspiranti, i primi chierici e sacerdoti, e nel condividere gioie e dolori dei primi sviluppi dell’Istituto. Tra i due non mancarono gli attriti perché erano di temperamento diametralmente opposto, “senza che mai né da una parte, né dall’altra diminuisse la stima e la fiducia e l’affetto vicendevole”. Il Beato nel suo Diario annotò: “Signore, grazie di tutto.. .anche della mano forte del Primo Maestro. Io non vedo, io credo! Detesto quel che vedo, credo e mi sottometto e unisco il mio cuore a quello che non vedo”. Quando sentiva in sé più vivi gli stimoli della ribellione proponeva: “Io avrò verso il Primo Maestro filiale comprensione fino all’eroismo, filiale docilità fino all’eroismo, filiale fiducia fino all’eroismo”.
Sapendo di avere in Don Giaccardo un discepolo obbedientissimo, il 6-1-1926 Don Alberione gli affidò l’arduo compito di andare a fondare la prima casa dell’Istituto niente meno che a Roma, benché esso non fosse stato ancora eretto in congregazione religiosa. Nel suo Diario il Beato, allora trentenne, scrisse: “Sono qui per fare anche ora la tua volontà, semplicemente, umilmente! Signore, tu governi la mia vita; tu sei infinito nel tuo amore; io confido in Te “. Nel saluto di commiato, tra l’altro, Don Alberione gli disse: “Ti mando a Roma per il tuo amore e la tua fedeltà al papa”. Difatti, Luigi Rolfo (+1986), che fece parte della spedizione, attestò: “Ricordo che quando vide per la prima volta il papa Pio XI in San Pietro prese a saltellare dalla gioia in modo da suscitare meraviglia e ilarità in chi stava attorno”.
Il Beato Giaccardo il 15-1-1926 impiantò a Roma una piccola tipografia in via Ostiense n. 75, con l’aiuto di 14 studenti ginnasiali che aveva condotto con sé da Alba. Potè così iniziare alcune settimane dopo la stampa del settimanale La Voce di Roma, al quale fecero ben presto seguito altri undici settimanali diocesani. All’inizio il Beato visse in estrema povertà in una casa d’affitto costruita come magazzino e quindi priva di mobili, di sufficienti servizi igienici e di cappella . Per la messa e la visita al SS. Sacramento, doveva recarsi con i suoi ragazzi alla basilica di San Paolo, officiata dai Padri Benedettini sotto la guida dell’abate Ildefonso Schuster (1880-1935), oppure alla più vicina chiesa di S. Benedetto, officiata dai sacerdoti dell’Opera del Card. Ferrari presso la quale stava studiando Giacomo Violardo, più tardi cardinale, anche lui proveniente dal seminario di Alba. I fedeli che vi prendevano parte, ne rimasero subito edificati. Difatti si chiedevano: “Chi è quel pretino che celebra cosi bene? Sembra un santo!”. Verso la metà dell’anno Don Giaccardo riuscì ad allestire una cappellina con un altare portatile avuto in prestito e i paramenti avuti in dono dai Padri Benedettini.
Quando giunse a Roma il Beato disponeva soltanto di 3000 lire. La somma doveva bastare per provvedere anche alle prime necessità delle 14 giovanette, dirette dalla maestra Suor Amalia Peyrolo, delle Figlie di San Paolo, stabilitesi nei pressi dei paolini per affiancarli nel lavoro tipografico con appropriati orari. La Peyrolo depose nel processo; “Non ho mai colto sulle labbra del Giaccardo alcuna espressione di rammarico, tanto per questa obbedienza che certamente gli è costata, quanto per i disagi che questa prima fondazione portò con sé”, non avendo altri sacerdoti con cui condividere le fatiche dell’apostolato, Don Giaccardo si trovò nella necessità di fare da superiore, da direttore spirituale di entrambe le piccole comunità, da maestro di scuola, da economo, da proto nel lavoro tipografico. Non faceva un passo di ordine economico senza la previa autorizzazione del fondatore. A volte non riusciva a pagare in tempo i creditori. Sapeva scusarsene con tanta grazia e umiltà che sovente il creditore rimaneva confuso. Il Beato diceva: “Non sono mai cosi tranquillo come nelle difficoltà. Dio fa lui”.
L’abate Schuster, fin dal primo giorno in cui s’incontrò con Don Giaccardo, concepì di lui grande stima per la sua umiltà e semplicità. Gli chiese chi era e che cosa era venuto a fare nella Città Eterna. Saputo che Don Alberione lo aveva mandato a Roma senza preoccuparsi di chiedere prima la dovuta licenza al Vicariato, il santo abate gli promise che ne avrebbe parlato al Card. Vicario Basilio Pompili (+1931). Gli evitò cosi l’umiliazione di fare ritorno alla città da cui era partito. Dopo pochi mesi dall’apertura della casa paolina, l’abate Schuster andò a visitarla. Rimase molto colpito dalla povertà e serenità che vi regnava. Passando da un locale all’altro ogni tanto sospirava: “Betlemme! Betlemme'” Nell’accomiatarsi, però, disse: “La casa è nata nella povertà: se continuerà nella povertà, voi andrete certamente avanti bene”.
Il P. Anselmo Tappi-Cesarini, segretario dell’abate, dichiarò di Don Giaccardo, immerso in mille difficoltà: “Io non lo vidi mai scoraggiato. Era solito dire che i giovani sono i parafulmini della casa e che la Provvidenza non sarebbe venuta loro meno”. Secondo il Violardo, che lo frequentava per la confessione e la direzione spirituale, “egli trattava i suoi ragazzi in modo veramente paterno, ispirandosi agli insegnamenti educativi di Don Bosco. Li seguiva motto da vicino e ne studiava le tendenze. Parlandone diceva: “Se ne verranno altri mille, io non mi spaventerò; e il Signore che li manda e lui stesso provvederà a mantenerli”. Con tutti era affabilissimo, ma si asteneva dal dare segni di affetto. Ricavava l’occorrente per vivere e incrementare l’Istituto dai lavori eseguiti in tipografia. Sapeva di non poter sperare aiuti dal fondatore il quale, ad Alba, stava progettando la costruzione di un grande tempio a San Paolo, ed esigeva che i suoi figli imparassero a bastare a se stessi ovunque fossero mandati.
Il Beato facendo secondo la costituzione tutti i giorni un’ora di adorazione davanti al SS. Sacramento, recitando “bei rosari” in onore della Regina degli Apostoli, lavorando sodo come l’apostolo S. Paolo, riuscì con l’aiuto del P. Enrico Rosa (+1938), direttore della Civiltà Cattolica, a fare da mediatore tra Don Alberione e i dicasteri della Santa Sede riguardo all’approvazione della congregazione. È certo che il P. Rosa, che stimava tanto Don Giaccardo quanto l’apostolato al quale si dedicava, ne parlò personalmente con Pio XI e che il papa, ricevendo il 13-7-1926 in udienza il Card. Camillo Laurenti, prefetto della Congregazione dei Religiosi, gli disse: “Noi vogliamo una congregazione religiosa per la buona stampa”. Il vescovo d’Alba, Mons. G. Francesco Rè, il 12-3-1927 riconobbe la Pia Società San Paolo come congregazione di diritto diocesano e Don Alberione come suo Primo Maestro. In quell’occasione il B. Giaccardo si recò ad Alba per felicitarsi dell’avvenimento con il padre della sua vocazione, ed emettere anche lui la professione perpetua. L’avvenire della famiglia, paolina era così assicurato.
Nella casa romana, Don Giaccardo non sapeva dove ospitare le vocazioni che aumentavano. I benedettini, poco lontano dalla basilica di San Paolo, possedevano un terreno di cinque ettari chiamato “vigna di S. Paolo”, dotato di un modesto casale. Don Giaccardo andò un giorno a vederlo, gli piacque e ne scrisse a Don Alberione. La risposta nel luglio 1927 fu : “Credo chiarissima la volontà del Signore, che ci fissiamo su un terreno stabile a Roma. La vigna di San Paolo è bene acquistarla”. L’Abate Schuster nello stesso mese firmò l’atto di vendita, e Don Alberione giunse puntualmente da Alba a pagare la prima rata di L.20.000, Nell’ottobre dello stesso anno la piccola comunità paolina cominciò a prenderne possesso. Don Giaccardo trasformò la stalla del casale in cappella e la cantina in tipografia.
Dopo la professione perpetua, Don Giaccardo scrisse nel suo Diario: “Signore, ti offro la dura fatica di essere superiore. Benedici la famiglia che mi hai dato”. La sua preghiera fu esaudita. Ottenne difatti dal Vicariato (1928) di fare edificare subito sul terreno acquistato, un primo tronco di casa per la Pia Società San Paolo e, in seguito, un altro tronco di casa per le Figlie di San Paolo sopra una collina di loro proprietà, indispensabili per la formazione delle vocazioni che andavano moltiplicandosi.
Nell’ottobre del 1930 Don Alberiore richiamò ad Alba Don Giaccardo con i giovani che avevano preso parte alla fondazione della casa romana per un periodo di più tranquilli studi e di più intensa formazione spirituale. Tuttavia, nel 1932 lo rimandò a Roma come superiore cosicché, nell’anno santo della Redenzione 1933-1934, fu in grado di accogliere tutti i professi e novizi paolini che desideravano recarvisi per l’acquisto del giubileo.
Il 10-6-1936, il fondatore trasformò la casa romana in sede del Superiore Generale e destinò Don Giaccardo ad Alba affinchè dirigesse la Casa Madre con l’impegno di insegnare a tutti: ragazzi, chierici e sacerdoti, a praticare la vita di preghiera, di studio, di apostolato e di povertà, costituenti le quattro ruote del carro paolino come avevano imparato fin dalle origini della congregazione. In spirito di umiltà, il Beato accettò con animo lieto e sincero questo secondo ministero: di conservare, interpretare, far penetrare, far passare e scorrere lo spirito e le direttive del fondatore” nell’animo dei paolini, proponendo di comportarsi da superiore “pio e sapiente, nel vedere; forte e paziente, nel tollerare; dolce e fidente nel correggere”.
Il decennio che il Beato trascorse ad Alba con tale compito (1936-1946) rappresentò il periodo più attivo di tutta la sua vita. Secondo Don Rolfo, stretto collaboratore del Giaccardo, quel periodo “fu il migliore nella storia di Casa Madre per l’osservanza religiosa, per la concordia degli animi e per il buon nome della comunità. Al suo bene egli provvedeva in modo particolare con la preghiera, il buon esempio, la predicazione e la grande carità di cuore… Era di temperamento molto mite, esente da squilibri psichici e, quindi, molto gradito a quelli che convivevano con lui”. Mons. Gianoglio attestò: “Da vicario generale, mi formai di lui questo concetto: era un religioso paolino non comune, edificante per la pietà, lo zelo e il modo con cui trattava i confratelli e gli inferiori tanto da essere considerato “la mamma della congregazione”. Posso testimoniare che fu uomo straordinario nella vita ordinaria”.
Il Beato soleva dire a Madre Lucia Ricci, superiora delle Pie Discepole del Divino Maestro, fondate da Don Alberione ad Alba il 20-2-1924 per il servizio di cucina e di guardaroba alla famiglia paolina, l’adorazione eucaristica e l’apostolato liturgico: “Se veniamo rivestiti di autorità, ricordiamo che lo siamo per volontà di Dio, e che il nostro compito è quello di servire gli altri. in suo nome, e non di essere serviti”. Dimostrava questa verità con i fatti poiché era sempre a disposizione di tutti. Al dire di Madre Lucia “ascoltava ininterrottamente tutti coloro che a lui si rivolgevano, senza mai dare a vedere di essere annoiato o seccato. Nel limite del possibile cercava di accontentare tutti, perché era convinto che “l’autorità è al servizio della carità” e perché, personalmente, “amava di più la misericordia che la giustizia”.
Quando, nel 1936, giunse ad Alba, il Beato trovò circa 500 giovanotti da educare e un centinaio di chierici e di sacerdoti da guidare alla santità. Non sempre gli era facile prendere rapide decisioni per una così folta schiera di persone, e qualche confratello ogni tanto se ne lagnava. Eppure nessuno lo aveva mai visto in preda ad ansietà, a turbamenti o a nervosismi neppure allorché, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale (1940-1945), arrivavano in curia lamentele di creditori non pagati, o il bollettino dei protesti in ogni numero recava un lungo elenco di cambiali scadute e non pagate per debiti contratti da Don Alberione. Il motivo è che, prima di decidersi, amava riflettere, pregare, consigliarsi e soprattutto attendere da Roma, meno per le questioni più importanti, la definitiva approvazione del fondatore dal quale dipendeva sempre in tutto.
A Don Giaccardo ripugnava fare correzioni specialmente a sacerdoti e confratelli professi. Timido per natura, dovette sempre lottare per vincersi. Non sempre, però, le sue osservazioni venivano accolte con la dovuta sottomissione. Non gli mancarono sgarbi, ingratitudini, grossolanità, ma egli li sopportò sempre senza un lamento e senza conservare rancori verso nessuno.
Afferma Don Alberione, che, durante la sua permanenza ad Alba, Don Giaccardo tenne ogni anno non meno di 400 prediche sui più svariati argomenti religiosi ai componenti la Società San Paolo, alle Pie Discepole del Divino Maestro e alle Figlie di San Paolo che avevano stabilito la Casa Madre a borgo Piave, a un chilometro e mezzo dal centro cittadino, che egli raggiungeva a piedi tutti i venerdì per la celebrazione della Messa, la meditazione e le confessioni. Asserì Don Gianoglio che “Giaccardo sia per la voce e sia per il periodare era poco attraente. Secondo Don Basso però “predicava con calore e unzione”. Non tutti lo gustavano. La sua parola era per lo più elevata e sovente circonvoluta. Non per questo se ne dispensava.
Il Beato traeva gli argomenti per le sue riflessioni dal Vangelo che voleva esposto in chiesa, negli studi, in tipografia, nelle camerate e che baciava a mani giunte ogni volta che vi passava davanti, ma in modo speciale dalle Lettere di San Paolo, che leggeva in greco e conosceva quasi a memoria. Ne portava in tasca una piccola edizione e sovente la consultava. Nella predicazione il riferimento al pensiero dell’apostolo era per lui una necessità.
Quando il Beato parlava del peccato si sentiva che trattava di un argomento che lo imbarazzava, che gli ripugnava. Lo si deduceva dalla contrazione del volto. Non riusciva a concepirlo. Quando gli venivano riferite colpe di qualche confratello, ne rimaneva affranto. Poiché aveva in odio i sotterfugi e le bugie, correggeva gli erranti, ma non sempre, con la dovuta sollecitudine per il grande timore di rattristare persone care. Come penitenza raccomandava la carità, l’esame di coscienza e la vita comune. Non sopportava che nelle ore di ricreazione si formassero dei crocchi. Diceva: “Bandirò la mormorazione e la critica in me e nella casa e nei miei confratelli come la peste”. Dispose perciò che in chiesa, prima della celebrazione della Messa, per un anno si cantasse in latino: “Dove c’è carità e amore, qui c’è Dio”. Sapeva bene che “la terra non è paradiso e le persone non sono angeli”.
L’amore della castità costituiva la caratteristica principale della sua vita. Alcuni confratelli lo ritenevano “esagerato” perché dimostrava il suo sincero disgusto ogni volta che udiva facezie sconvenienti o scurrilità. Diceva: “Religioso tiepido è un controsenso. O si è religiosi, e allora si è fervorosi, o si è freddi, tiepidi, e allora di religioso non c’è che un abito, un nome, una larva”. Nelle esortazioni ricordava: “Chi obbedisce solo perché capisce il motivo, egli è un razionalista, un naturalista, non è un religioso”. “Con i superiori si coopera, non si resiste”. “Nell’autorità vedere, seguire, ascoltare il Divino Maestro. Ostie piccole e ostie grandi: è sempre Lui”. “Bisogna arrivare all’obbedienza attiva, amorosa”. “Oh l’obbedienza! Io l’amo tanto”. Nello spiegare le costituzioni, che considerava “la scala d’oro che porta al paradiso”, sovente ripeteva: “Non facciamo nulla che non sia in regola”.
La formazione all’umiltà era uno dei temi su cui Don Giaccardo si fermava di più nel dettare le meditazioni. Diceva: “Per me il Vangelo è il libro dell’umiltà”. Ne deduceva la necessità quindi, di “farsi piccoli, sentirsi piccoli, restare piccoli”. Esortava; “All’umiltà non dite mai di no perché più entrate nell’umiltà, più assomiglierete a Gesù Cristo… Umiliamoci anche quando dovessimo inchiodare con Gesù la nostra volontà alla croce”. Perché “l’amore alle comodità non fa mai i santi”, mentre “chi uccide l’io, trova Dio”. Stimolava i suoi uditori a praticare qualsiasi virtù in maniera pronta, facile e dilettevole. Sottolineava sempre e specialmente l’ultimo avverbio perché era convinto che “un uomo scontento è un uomo a metà”. Talvolta concludeva la meditazione con la frase: “Il nostro posto è fra le stelle” oppure “un buon paradiso paga tutto!”.
Nella direzione della comunità Don Giaccardo ebbe sempre la preoccupazione di fare mettere in pratica le raccomandazioni circa le peculiarità della vita paolina che il fondatore ogni tanto faceva pervenire alle varie case sparse nel mondo tramite le sue lettere circolari. Egli di lui fu sempre “il fedelissimo” tra tutti i figli, il più sollecito a difenderne e sostenerne intuizioni. “Devo essere un sacerdote di preghiera” aveva proposto e, finché visse, fu esemplare nel compiere le pratiche di pietà. Si alzava alle quattro e mezzo del mattino anche quando andava a riposare molto tardi la sera dovendo prima sbrigare la corrispondenza e preparare gli appunti per la meditazione del mattino, o passava la notte in bianco per qualche dissidio o mancanza di carità che si era verificata tra i confratelli. Pregava tenendo le mani giunte e, sia che celebrasse la Messa o che compisse altre funzioni liturgiche, appariva sempre molto raccolto.
Il Beato non tralasciava di fare la prescritta ora di adorazione al SS. Sacramento, magari dopo cena, se durante la giornata gliene era mancato il tempo. In chiesa non amava essere disturbato: “Sono a rapporto con Dio – diceva – non c’è nessuno più importante di Lui, ora!”. Durante la preghiera, la recita dell’Ufficio Divino o del rosario, non fu mai visto seduto o appoggiato al banco. Durante il giorno gli fiorivano spontanee sul labbro le giaculatorie che chiamava “le nostre telefonate al paradiso”, specialmente l’invocazione “Deo gratias”, ogni volta che riceveva un beneficio e “mio Dio e mio tutto”, che inculcava anche agli altri. A un confratello che gli chiese un giorno come facesse a starsene tranquillo e sereno tra tante preoccupazioni egli rispose: “Vedi, dopo un quarto d’ora di preghiera, qualsiasi fastidio per me si scioglie come un pezzo di cera al sole”. Don Rolfo nel processo ebbe a dire: “Attesto che dal 1937 al 1945 quando andavo per parlargli dopo cena, lo trovavo abitualmente in preghiera con la corona del rosario in mano al suo inginocchiatoio o in piedi”.
Don Giaccardo si sentiva spinto a trasfondere in tutti lo spirito di preghiera da cui era animato. Nutriva un vivissimo amore alla liturgia. In anticipo sui tempi volle che la Messa comunitaria ogni domenica “fosse dialogata” e che la “Messa grande” fosse celebrata in bei canto gregoriano. Amava le belle funzioni religiose, il suono dell’organo, le lunghe processioni che presiedeva attorniato da chierici in cotta, da sacerdoti rivestiti di paramenti molto belli nonché da diversi paggetti in costume. Per la casa di Dio non badava a spese come per i malati che, una volta alla settimana, andava a visitare nella loro residenza di Sanfrc. Esigeva il massimo splendore per rendere più solenne e più devota l’adorazione eucaristica nella prima domenica del mese in cui si rendeva un culto speciale a Gesù Maestro. Via, Verità e Vita. Dopo avere indetto tra i cooperatori una raccolta di oggetti preziosi fece fondere 10 Kg. di argento e 3 Kg. di oro e trasformare in artistico e monumentale Ostensorio, D’accordo col fondatore fece dotare la chiesa di Casa Madre, dedicata a San Paolo, di un organo di circa 3.000 canne su progetto dell’Ing. Bartolomeo Gallo (+1970), che fu inaugurato il 23-10-1938 alla presenza del principe Umberto di Savoia, e di uno splendido altare interamente costruito in masse di marmo di grande pregio che fu consacrato il 20-8-1941 da Mons. Luigi Grassi, vescovo di Alba (1887-1948). Nel presbiterio due belle lampade pensili, con la loro fiammella intermittente, stanno a indicare che questo altare è privilegiato per l’adorazione perpetua, stabilita in Casa Madre dal fondatore e assicurata dalle Pie Discepole del Divino Maestro. Nel 1942 il Beato affidò allo studio e alla esecuzione dello scultore Virgilio Audagna la “Gloria di San Paolo”: un grande altorilievo marmoreo, il più grande del mondo, dedicato all’Apostolo, di 450 quintali, che costituisce la pala dell’altare maggiore a ridosso della parete di fondo del presbiterio. Prima che fosse sistemata provvide che fosse pavimentata la chiesa con pregiati marmi e intarsi di modo che la celebrazione eucaristica non potesse avere una sede più splendida.
Con il Beato Giaccardo in Casa Madre acquistarono un tono di particolare serietà anche gli studi. Giuseppe Zilli (1921-1980), allora studente e, in seguito, direttore di “Famiglia Cristiana”, dichiarò a chi ne era prefetto: “In quegli anni ci sentivamo crescere di continuo”. Esigeva che le aule di scuola fossero in ordine, che gli esami fossero dati con la dovuta serietà, e non aveva timori a rimandare gli alunni impreparati e a far ripetere l’anno anche se si trattava di studenti di liceo. Ogni anno faceva celebrare la festa dei “Maestri” con accademie, conferenze e dispute scolastiche specialmente quando coincideva con quella di S. Tommaso d’Aquino. Il Can. Natale Bussi (+1988), professore di dogmatica nel seminario diocesano, quando avvicinava il Beato per la direzione spirituale, rimaneva colpito dall’avvedutezza con cui sapeva scegliere i suoi libri. Nei processi affermò: “Le sue doti non erano eccezionali, tuttavia, con profonda applicazione, aveva acquistato una cultura ecclesiastica non comune e sempre aggiornata. Mi colpiva soprattutto la sua visione cristocentrica della storia della rivelazione e la sua intelligenza spirituale della Bibbia”.
Don Alberione in tutte le opere che intraprese ottenne ottimi risultati perché seppe renderle auto sufficienti, memore di quanto scrisse San Paolo ai Tessalonicesi; “Se uno non vuole lavorare, neppure mangi” (2 Ts 3,10). Ai paolini e alle paoline affidò il compito di evangelizzare il mondo facendo uso dei mezzi più celeri ed efficaci della comunicazione sociale. Don Giaccardo alla sua scuola ne comprese tutta l’importanza. Nel tempo che gli rimaneva libero da altre occupazioni scriveva articoli per le riviste che si stampavano in Casa Madre come Vita Pastorale e L’Unione Cooperatori buona stampa. Volle che fosse costituito l’Ufficio Edizioni per una migliore scelta e revisione dei libri da stampare; con la collaborazione di confratelli molto competenti, acquistò oltre 25 nuove macchine da stampa per moltiplicare le copie delle Bibbie, i catechismi, i bollettini parrocchiali, le vite di santi e le letture amene per le biblioteche.
Benché non fosse capace di grandi iniziative, organizzò meglio la propaganda con metodi ciclici di diffusione a domicilio, visite alle canoniche e ai seminari, alle scuole e agli Istituti. Casa Madre considera come fiore all’occhiello il vertice dei 2.000.000 di copie di Messalini Festivi e delle 580.000 copie di Messalini Quotidiani diffusi fino al 1946, nonostante gli anni di piombo della seconda guerra mondiale, e le accanite lotte tra partigiani e truppe della Repubblica di Salò per il possesso di Alba dopo la firma dell’armistizio (8-9-1943) Ira l’Italia e la Germania.
La quarta ruota del “carro paolino” è costituita dalla povertà nella accettazione più vasta della parola: distacco dai beni terreni per amore del regno di Dio; volontario e ascetico sacrificio di sé per il bene dell’Istituto; ma soprattutto prontezza nel mettere le proprie capacità manageriali al servizio dell’apostolato della comunicazione sociale, per un più competitivo e fruttuoso rendimento alla maggior gloria di Dio e al bene delle anime. Don Giaccardo voleva tenere lontano dalla famiglia paolina “tanto l’abbondanza, quanto la miseria”. Diceva: “Quando la povertà manca, lo spirito cede. Quanto più si ama la povertà, tanto più si sviluppa la gioia”. In vita ebbe di certo bisogno di molto denaro, ciò nonostante confessò Don Rolfo; “Ammirai in lui un eccezionale distacco dal denaro, da tutti i beni materiali, dagli onori, dalle cariche, tant’era innamorato dei beni superiori”. Era sua la massima; “Non è il denaro che importa, ma fare la volontà di Dio”. Diceva ai confratelli: “Dobbiamo vivere una povertà dignitosa”. Don Giovanni Costa (+1989), primo alunno della congregazione, attestò di lui: “Giaccardo era un uomo molto frugale. Si accontentava di quello che procurava l’economo. Non si lamentava mai. Tra un pasto e l’altro non prendeva nulla. Non fumava e non entrava nei bar per prendere qualche ristoro”. Maestra Ignazia Balla, superiora generale delle Figlie di S. Paolo, affermò nel processo: “Don Giaccardo era alieno dagli svaghi e dai divertimenti. Ritengo che non sia mai andato in vacanza e che non abbia mai fatto una gita di piacere”. Viaggiava di notte e sempre in terza classe.
Quando Don Alberione destinò Don Giaccardo a dirigere la comunità di Alba, il compito di lui fu quello di contribuire alla particolare formazione spirituale, morale, culturale delle Pie Discepole onde prepararle alla autonomia giuridica, per la loro specifica missione. Ad esse cominciò a dettare la meditazione, a insegnare a fare l’esame di coscienza, a confessarle, a farle istruire con scuole di italiano e di latino, di liturgia e persino di teologia. Per sette anni egli stesso ogni settimana fece scuola di ascetica alle novizie. Ad alcuni confratelli, punti dall’invidia, parve che dedicasse alle suore troppo tempo a scapito della sua comunità.
Il Beato, certo di compiere la volontà di Dio, continuò imperterrito a svolgere con grande impegno quanto gli era stato ordinato. Quando il fondatore lo avvertì delle critiche che certi sacerdoti gli muovevano, gli scrisse con estrema sincerità: “Credo che da quando ebbi a occuparmi delle Pie Discepole nessuno.. .possa seriamente provare che mi sono fermato con le suore un momento di più del necessario; che abbia fatto un qualunque gesto non perfettamente pudico e decoroso”.
Don Alberione intendeva fare delle Pie Discepole una congregazione autonoma per la peculiarità del loro apostolato. Il 9-7-1945 fece chiedere alla Congregazione dei Religiosi che fossero separate dalle Figlie di San Paolo già approvate dalla S. Sede il 13-11-1943. Il 24-8-1946, Mons. Pasetto, segretario della Congregazione, comunicò di “non credere conveniente, né utile accondiscendere alla domanda”, e dispose che fosse chiuso il noviziato che le Pie Discepole avevano aperto ad Alba. Quando il P. Angelico da Alessandria, cappuccino, in qualità di Visitatore delle Suore in questione con il mandato di scioglierle dai voti, comunicò a Don Giaccardo la decisione presa dalla Congregazione dei Religiosi, questi si fece bianco in volto, stette qualche istante soprappensiero, e poi gli disse: “Padre, io offro la mia vita al Signore per ottenere questa grazia e sono sicuro che Dio mi esaudirà”. Alle Suore in preda a travagli e perplessità raccomandò di non “lasciarsi schiacciare, opprimere dalla prova”, ma anche di “obbedire in silenzio, fiducia e docilità”‘. Egli stesso ne diede l’esempio, tanto che P. Angelico dopo la morte di lui, nel processo depose: “Non ho mai conosciuto un religioso così ossequiente, così prudente, così delicato nei suoi giudizi verso un qualsiasi superiore, specialmente nei riguardi della S. Sede”.
Nel 1947 alcune Pie Discepole e alcune Figlie di San Paolo, accusarono Don Giaccardo di essere esagerato nella direzione spirituale, e di avere creato tra di loro una grande confusione, specialmente per lo svolgimento del loro apostolato. Fra Angelico, nel processo, attestò: “Visitando le varie case del le Suore e interrogandole, mi accorsi che era stata escogitata tutta una montatura contro Don Giaccardo. Il subbuglio c’era, ma nel cervello di alcune suore malate di nervi e in alcune altre affette di gelosia.. Non era vero che la sua direzione spirituale fosse esagerata. Ho trovato che, nella formazione spirituale, le Pie Discepole erano superiori alle Figlie di San Paolo”.
La Santa Sede rimase molto soddisfatta della relazione fatta dal P. Angelico circa l’Istituto tanto bersagliato, di modo che il vescovo di Alba, Mons. Luigi Grassi, il 3-4-1947 potè erigerlo in congregazione religiosa. Prima che il decreto fosse reso pubblico, le suore che avevano scritto o deposto contro il Beato, andarono confuse a chiedergliene perdono. Anziché riprenderle, disse loro con estrema semplicità: “La colpa non è vostra, ma mia, perché non sono stato capace di farmi capire”. All’inizio del 1948 P. Angelico si recò ad Alba per la consegna del decreto. In quella circostanza il Beato, radiante di gioia, disse: “Ormai la mia opera è compiuta. Sono pronto a mantenere l’offerta fatta a Dio”.
Al dire di Don Robaldo, economo di Casa Madre, la vita del Giaccardo “è stata una continua sottomissione eroica al fondatore. Ne seguiva, con la massima scrupolosità e fedeltà, tutte le direttive; ed io penso che sia stata questa fedeltà a costargli la vita, perché vi perseverò anche quando non ne condivideva i metodi ed il pensiero”. All’inizio del mese di ottobre 1946 Don Giaccardo ricevette dal fondatore l’ordine di trasferirsi a Roma in qualità di Vicario generale. Egli obbedì con grande sacrificio. Ebbe l’incarico di scrivere il Direttorio della Società San Paolo, che terminò a un mese di distanza dalla morte. Don Occelli, che ricevette l’incarico di confessarlo, testimoniò che il Beato “obbediva al fondatore tanquam Deo praecipienti. Qualche volta l’ho incoraggiato a contestare in qualche punto Don Alberione, ma egli, pur riconoscendo le ragioni del suggerimento, mi diceva che non era capace dinanzi al superiore di fare opposizione”. Anzi, un giorno scrisse alla sua guida spirituale, alla quale faceva ricorso anche due o tre volte la settimana: “Viviamo tutti nelle viscere del Primo Maestro… Io personalmente credo di aderire fedelmente a lui, di non contraddirlo e contristarlo; sono disposto a camminare sotto le suole delle sue scarpe e muovermi in ogni sua direzione”.
Anche Don Gianolio affermò; “Sono a conoscenza personale che questo suo modo di condursi gli procurò sacrificio e rinunzia che il Giaccardo sopportava serenamente, persuaso che questa era la giusta via”. Don Robaldo confermò: “Nell’ultimo periodo che egli trascorse a Roma, si trovò molto a disagio. Talvolta mi fece capire che ciò che lo faceva tanto soffrire era la sua nuova posizione nella quale poteva fare poco o nulla. Nel dirmi ciò, egli non faceva critiche e non accusava alcuna persona”. Al riguardo, più esplicito fu Don Luigi Rolfo. Dichiarò nel processo: “Quando Don Giaccardo fu richiamato a Roma come vicario generale mi trovavo in Spagna. So tuttavia che il governo gelosamente accentratore del fondatore lo condannò praticamente all’inazione impedendogli qualsiasi iniziativa. Questa fu senza dubbio la più grave sofferenza morale del Giaccardo, il quale diede prova di una virtù veramente eccezionale, non aprendo bocca su queste sofferenze interiori”.
Nel corso degli ultimi suoi esercizi spirituali fatti nel luglio del 1947, il Beato scrisse nel Diario: “Grazie, Signore, che mi hai fatto soffrire un poco; grazie, che mi hai dato da sopportare qualcosa con te!”. Ogni mattina rinnovo il mio “abrenuntio” e il mio “diligo”; il mio “offero”, “dono”, “trado”. E propose di “accogliere, portare e offrire a Gesù Cristo le indisposizioni, le infermità, le tristezze, le oscurità, le desolazioni; ciò che contrista, contrasta e contraddice; non soltanto come purificazione dell’anima, ma come vero apostolato che potrà durare anche molti anni, magari tutta la vita”.
Don Giaccardo dagli ultimi mesi del 1947 cominciò a sperimentare una spossatezza che andava sempre più accentuandosi. Egli stesso non si fidava più di viaggiare da solo a causa di frequenti svenimenti e di particolari difficoltà nell’articolare le gambe. Due mesi prima della morte, visitò, per incarico di Don Alberione, diverse case d’Italia come “fratello maggiore”, ma figlio del fondatore. Da Alba volle recarsi al paese natio per rivedere la chiesa dei suoi ardori infantili, salutare i parenti e i conoscenti, specialmente il vecchio parroco al quale chiese la benedizione in ginocchio, e diede appuntamento per il Paradiso. Il 12-1-1948 celebrò con estrema fatica la sua ultima Messa. In mattinata Pio XII concesse il Decreto di Lode alle Pie Discepole del Divino Maestro. Giubilante, la mattina dopo il Beato ne volle personalmente dare loro la consolante notizia con un telegramma in cui diceva: “Eugenio placuit, Pius probavit“.
Il Dott. Tommaso Teodoli curò il malato come fosse affetto da artrite e lombaggine. Dal consulto di tré medici risultò, invece, che era colpito da una anemia leucemica acuta, che annunziava una fine prossima. Il 18-1-1948 Don Alberione si credette in dovere di notificare al suo più stretto collaboratore la gravita della malattia e di proporgli gli ultimi sacramenti. Il morente, che non si aspettava una fine così rapida, ebbe un momento di sorpresa, poi esclamò: “Padre, non come voglio io, ma come vuoi tu”. Nella famiglia paolina furono subito fatte speciali preghiere per la sua guarigione. Dal suo letto di morte il Beato raccomandava: “Sì, chiedete pure il miracolo, ma nella volontà di Dio”.
Durante la malattia Don Giaccardo accettò obbediente tutte le cure, anche le più dolorose. “Soltanto – sospirava – risparmiatemi le punture che non si possono fare alle braccia”. Don Occelli confermò che “aveva un grande senso di vergogna nel farsi curare e permetteva solo a me che lo toccassi”. Attese la morte ripetendo di continuo il Credo e pregando nel proprio cuore anche quando, chi andava a fargli visita, lo riteneva assopito. Il 22 gennaio Don Alberione celebrò la Messa del viatico nella stanza adiacente a quella del morente. AI termine della funzione, il Beato chiese a chi l’assisteva: “Recitami l’inno “Gesù, corona virginum”. Poi, ad un tratto, per tre volte pronunciò lentamente in latino: “Vieni, servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt. 25,23). Morì secondo Don Alberione ancora rivestito dell’innocenza battesimale, il 24-1-1948, sabato, vigilia della conversione di S. Paolo e memoria del suo discepolo S. Timoteo, dopo che tutta la comunità, la sera precedente, gli era sfilata dinanzi per baciargli la mano, e il fondatore gli aveva impartito ancora una volta l’assoluzione, lo aveva abbracciato e baciato sospirando: “Tu sei stato sempre un figliuolo buono e fedele!”.
Quando ad Alba i paolini ne diedero notizia a Mons. Grassi, vescovo, degente a letto per un cancro, questi dal dispiacere pianse. Aveva sempre considerato il Giaccardo come “l’ottimo tra i buoni sacerdoti della Società San Paolo”. Anche il P. Francesco Grasso, appena ne apprese la notizia l’Osservatore Romano, del suo antico compagno di seminario scrisse: “Era un santo di quella santità che non pesa e non posa”. Il Card. Schuster il 25-1-1948 scrisse da Milano: “La dipartita del Teol. Don Giaccardo è per me un lutto familiare, in quanto gli sono stato fraternamente dappresso nei primi stentati anni della fondazione in Roma, Oh! anni preziosi di ricca povertà e di eroico abbandono in Dio. Giorno per giorno il corvo recava il pane quotidiano”.
I funerali di Don Giaccardo si svolsero il 26-1-1948 nell’abside della basilica di San Paolo come se fosse un monaco dell’abbazia. Nell’omelia Don Alberione ne mise in risalto la pietà, la docilità e l’umiltà. Dal 1966 le sue reliquie sono venerate nella cripta del santuario di Maria SS. Regina degli Apostoli, di cui il 19-8-1947 il Card. Carlo Salotti aveva posto la prima pietra con l’assistenza e di Don Giacomo Alberione e di Don Timoteo Giaccardo. L’ultima preghiera che, prima di morire, quest’ultimo scrisse fu: “Signore, ti prego, fa che il mio sepolcro sia semente di vergini!”.
Giovanni Paolo II riconobbe le virtù eroiche di Don Giaccardo il 9-4-1985 e lo beatificò il 22-10-1989.

Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 292-310.
http://www.edizionisegno.it/