B. GERTRUDE COMENSOLI (1847-1903)

A dodici anni Caterina, con il permesso del confessore, fece il voto di ubbidienza, di non fissare in volto persone dell’altro sesso, di non andare a letto senza aver fatto prima la meditazione, di non commettere peccati veniali deliberati e di esercitarsi ogni giorno nella pratica dell’umiltà. Tuttavia le fu proibito di dormire per terra, di andare leggermente vestita d’inverno per sentire il freddo, di mangiare soltanto pane e acqua per portare la sua porzione di carne ai malati. Ogni giorno diventava sempre più seria, pensosa e raccolta con l’idea fissa nella mente di farsi santa. Scrisse nell’autobiografia: “Era una voce potente quella che mi chiamava. Mi dava grande pena tutto ciò che non tendeva a Dio e alla pratica della virtù; provavo come una specie d’agonia nelle conversazioni della sera… Mio babbo mi chiamava il piccolo leone, la fiera, la romita, e io provavo gran pena perché non comprendevano e non mi lasciavano libera da tante ciarle inutili”.

Confondatrice delle Suore del SS. Sacramento con il Servo di Dio Don Giuseppe Spinelli (1853-1913), la Comensoli nacque a Bienne (Brescia) il 18-1-1847 da Carlo, di professione fabbro-ferraio, e da Anna Maria Milesi, vero modello di donna cristiana. Al fonte battesimale le fu imposto il nome di Caterina. Nella breve autobiografia che scrisse per ordine del confessore, il P. Marino Rodolfi (+1904), preposito dei Padri Filippini di Brescia, la beata confessa che il Signore, benché ancora bambina di cinque anni, le “faceva sentire in cuore un grande desiderio di amarlo tanto” e l’ammaestrava “in ciò che doveva fare per piacergli ed essere tutta sua”.
A sette anni Caterina cominciò a confessarsi ogni sabato. Dopo che ebbe imparato a leggere e a scrivere si diede a pie letture. Attesta: “Era tanta la consolazione che io provavo nel leggere le vite dei santi che mi nascondevo per dare libero sfogo alle lacrime e avrei voluto imitarli specialmente nell’orazione e nelle penitenze. Era tanta poi la brama che avevo di morire che mi gettavo in terra davanti all’adorabile sacramento ogni giorno per ore, scongiurandolo che mi togliesse perché non mi piaceva stare nel mondo”. Benché non avesse ancora fatto la prima comunione, sentendone un’irresistibile desiderio, una mattina si portò alla chiesa poco lontana da casa sua, si pose ritta in piedi sulla balaustra e, senza essere notata ricevette l’ostia con sua indicibile consolazione.
Quando alla beata capitava di ricrearsi più del solito con le sue due sorelline o tralasciava parte delle letture o delle ore di adorazione che si era imposte, ne sentiva rimorso e ne piangeva dirottamente di notte inginocchiata sul letto. Il Signore le venne in aiuto. Difatti confessa: “Sentivo fortemente il bisogno di darmi alla mortificazione interna ed esterna, di fare la serva e lo straccio di casa, di santificarmi e di essere di buon esempio a tutti”.
        A dodici anni Caterina, con il permesso del confessore, fece il voto di ubbidienza, di non fissare in volto persone dell’altro sesso, di non andare a letto senza aver fatto prima la meditazione, di non commettere peccati veniali deliberati e di esercitarsi ogni giorno nella pratica dell’umiltà. Tuttavia le fu proibito di dormire per terra, di andare leggermente vestita d’inverno per sentire il freddo, di mangiare soltanto pane e acqua per portare la sua porzione di carne ai malati. Ogni giorno diventava sempre più seria, pensosa e raccolta con l’idea fissa nella mente di farsi santa. Scrisse nell’autobiografia: “Era una voce potente quella che mi chiamava. Mi dava grande pena tutto ciò che non tendeva a Dio e alla pratica della virtù; provavo come una specie d’agonia nelle conversazioni della sera… Mio babbo mi chiamava il piccolo leone, la fiera, la romita, e io provavo gran pena perché non comprendevano e non mi lasciavano libera da tante ciarle inutili”.
Costatando sempre più quanto fosse difficile santificarsi restando nel mondo, nel 1862 la Comensoli ottenne dai genitori il permesso di entrare a Lovere, nel noviziato delle Suore di Carità fondate da S. Bartolomea Capitanio (+1833) e da S. Vincenza Gerosa (+1847), ma dopo sei mesi si ammalò e fu costretta a ritornare in famiglia. Un sacerdote le disse: “Tu hai bisogno di essere guidata da un direttore dai capelli bianchi, che conosca bene le vie di Dio”. Dopo oltre un anno guarì, ma sia i genitori che il confessore non le permisero di ritornare a Lovere.
A diciassette anni Caterina chiese al parroco di fare parte della Compagnia di S. Angela Merici. I genitori ne furono contenti perché speravano che così non si sarebbe più allontanata da casa. La lasciarono libera perciò di darsi alle orazioni e alle opere di bene che voleva. La beata si tracciò allora un regolamento di vita: “Al suono dell’Ave Maria mi alzerò da letto, bacerò le piaghe di Gesù crocifisso e reciterò le mie orazioni. Potendo, andrò subito in chiesa e mi ci fermerò almeno un’ora… Ogni giorno farò almeno mezz’ora di meditazione; dopo pranzo farò la lettura spirituale e la visita al SS. Sacramento in chiesa o in camera. Reciterò pure la terza parte del rosario. Al battere dell’ora saluterò Maria SS., S. Giuseppe, S. Luigi Gonzaga, il mio angelo custode e farò pure una comunione spirituale… Tutti i giorni farò qualche preghiera e tutte le domeniche, se mi sarà possibile, farò un’ora di adorazione per la conversione dei peccatori… Di me non parlerò né bene, né male. Non alzerò mai la voce. Non mi giustificherò né a ragione, né a torto, eccetto il caso di doverlo fare per il bene altrui… Ogni volta che offenderò il mio prossimo con pensieri o parole farò tre croci per terra e dirò per essi tre Ave Maria con le mani sotto i ginocchi… Non mangerò, né berrò fuori dei pasti. Non mangerò mai frutta. Il venerdì mi asterrò dal vino e porterò la catenella. A pranzo lascerò sempre qualche bocconcino per darlo ai poveri. Prenderò la disciplina nelle vigilie e nelle feste della Madonna, nella settimana santa e nelle novene del S. Natale, del S. Cuore di Gesù e dell’Immacolata. Ogni mese farò il ritiro spirituale in preparazione alla morte”.
A diciott’anni Caterina s’intiepidì alquanto nel servizio di Dio a causa dei cugini che ogni giorno andavano a trovarla e d’inverno le portavano romanzi da leggere. Tra di essi ce n’era uno che l’avrebbe sposata volentieri, ma alla sua proposta la beata divenne di marmo. Cominciò tuttavia a vestirsi meglio, a specchiarsi più sovente, a compiacersi nel vedersi amata e lodata per la sua laboriosità, pur continuando ad accostarsi con frequenza ai sacramenti e a ubbidire ai genitori. Un giorno, mentre stava vendemmiando con loro, si sentì chiamare internamente. Ella restò come fulminata perché vide come in uno specchio la propria infedeltà. Corse a casa, si mise a letto e i genitori le prodigarono ogni cura credendo che si trattasse di uno svenimento. In preda al terrore Caterina di notte si prostrò a lungo per terra senza neppure riuscire a dire una parola. Provò difatti un dolore così vivo delle sue ingratitudini che credette di morirne. All’alba si alzò e andò a fare la confessione degli ultimi due anni della sua vita. Dopo la comunione, che fece quasi fuori di sé, si sentì dire: “Figlia, è mio il tuo cuore, e lo deve essere tutto, non in parte; se non sarai fedele al mio amore, io non mi curerò più di te”.
Un’altra volta udì queste espressioni: “Cosa resta all’anima quando vuole rendersi somigliante a me? La croce nuda. Tu devi essere crocifissa con me… Il tuo cibo sarà la mia volontà… Una vita di continue tentazioni e di sacrifici soddisferà la divina giustizia. Figlia, a forza di combattere raggiungerai la mia somiglianza “. Per dodici anni Dio permise che fosse tormentata da tentazioni contrarie alla fede e alla castità, da aridità e oscurità terribili da cui non riuscì a liberarla neppure Mons. Speranza, vescovo di Bergamo, al quale ricorreva ogni volta che aveva occasione di recarsi in detta città.
Dopo la morte del padre, per aiutare la famiglia caduta in miseria, Caterina andò a fare la cameriera ( 1867-1882) per un anno presso Don G. B. Rota, prevosto di Chiari, e poi presso la signora Ippolita Fé-Vitali ora a San Gervasio d’Adda e ora a Bergamo. Ovunque s’impose per le sue eccezionali doti spirituali. Poiché le era concessa ampia libertà d’azione, ne approfittò per raccogliere attorno a sé le fanciulle del paese tra le quali istituì la Guardia d’Onore a Gesù Sacramentato. In quel tempo, il cognato della padrona, s’invaghì di lei. la chiese insistentemente in sposa, ma ella, essendo più che mai decisa a farsi religiosa, gli rispose: “Ho già scelto di meglio”. Si tracciò quindi un regolamento di vita e cercò di restarvi fedele. Propose: “Cercherò con l’aiuto di Dio di stare sempre alla sua presenza… Mi manterrò ferma nella risoluzione di non commettere avvertitamente colpa ancorché lieve… Durante il giorno prenderò l’abitudine di dire almeno cinque volte all’ora: “Gesù mio, misericordia!”…. Voglio battere sul duro della mia superbia, e rinnegare la mia volontà anche nelle cose di mio gusto, benché piccole… Voglio imparare a vivere senza consolazioni e senza conforti, per cui rinnovo il proposito già fatto di volere soffrire tutto in silenzio”.
          Poiché nutriva un grande desiderio di dare vita a un Istituto per l’adorazione e per l’educazione della gioventù, pregava il Signore perché le facesse incontrare persone capaci di aiutarla in quell’opera. Un giorno capitò a San Gervasio in occasione delle Quarantore Don Francesco Spinelli, il quale ardeva dello stesso desiderio. La Comensoli andò a udirlo predicare, ne rimase bene impressionata, s’incontrò ripetutamente con lui e, di comune accordo, il 15-12-1882, diedero inizio a Bergamo, con il permesso del vescovo, Mons. Gaetano Guindani, alle Adoratrici del SS. Sacramento con lo scopo di pregare per la conversione dei peccati e di adoperarsi per l’istruzione e l’educazione della gioventù pericolante.
          L’Istituto non tardò a propagarsi con l’aiuto di benefattori e delle prime sette compagne della confondatrice, la quale, nella vestizione religiosa, assunse il nome di Suor Gertrude del SS. Sacramento (1884). Don Spinelli le fu dato come superiore ecclesiastico dal vescovo ed ella lo accettò e gli ubbidì sempre in tutto. Costui però al suo compito volle aggiungere pure l’esclusiva amministrazione economica dell’Istituto, e fu una rovina perché molto inesperto di affari temporali e, per giunta, focoso e tenace nelle proprie idee. Vedendo che suore e ricoverate crescevano di numero, comperò alcuni locali in via Gavette, fece costruire la chiesa e un’ala di fabbricato superando nelle spese il doppio del preventivo. Per farvi fronte contrasse un mutuo di L. 120.000 gravato di ipoteca presso la Cassa di Risparmio di Milano. Contemporaneamente introdusse suore e orfanelle in una filanda a Borgo Santa Caterina (8-6-1885), alla quale aggiunse anche la tessitura della seta e la lavorazione di arredi sacri. Dovette quindi contrarre altri debiti per provvedere telai e locali nuovi. A causa poi dell’ingarbugliata situazione che era venuta a formarsi nei riguardi della proprietaria, il 19-3-1887 Don Spinelli ritenne opportuno acquistare la fabbrica contraendo un altro mutuo di L. 150.000 al 4,50% con due signori di Milano. L’affare si risolse in un disastro perché la rendita non bastava a pagare gl’interessi del mutuo. La curia di Bergamo gli venne in aiuto ripetutamente con prestiti e altre agevolazioni, ma non furono sufficienti a salvarlo dal fallimento (1889).
Madre Gertrude più volte aveva avvertito il suo superiore ecclesiastico del pericolo incombente, ma egli, che sognava di emulare l’opera di S. Giuseppe B. Cottolengo (+1842), non solo non le diede ascolto, ma la tenne costantemente all’oscuro di tutto e le impedì di comunicare con le numerose orfanelle e con le suore impiegate in un lavoro che non permetteva loro né di attendere all’adorazione, né di dedicarsi alla propria formazione. La Comensoli, umile com’era, si limitò allora a pregare, a soffrire in silenzio e a piangere davanti a Dio. Mentre sentiva avvicinarsi la catastrofe, l’8-12-1888 scrisse nelle sue note intime: “Come il mio cuore è infelice! Che sproposito ho fatto ad appoggiarmi alle creature!… Che ho fatto di bello appoggiandomi all’esperienza degli uomini? Ho guastato l’opera vostra, o Dio, ho rovinato tutto”. E il 16 dicembre annotò ancora: “Prometto seriamente, oggi e per sempre, di non confidare le mie pene a nessuno riguardo a quella persona… di parlarne bene se posso, diversamente tacerò, di soffrire tutto in silenzio con amore… È un bene che io sia calunniata e presa in mala parte”.
        Don Spinelli ricevette l’ordine dal vescovo “di non entrare più nelle case dell’Istituto, di non ricevere suore, e di non conferire in qualsiasi modo con esse”. Si trasferì allora a Rivolta d’Adda (Cremona), sotto la giurisdizione di Mons. Geremia Bonomelli (+1914), nella casa filiale che aveva comperato nel 1885 e intestata civilmente a suo fratello Don Costanzo. Con una ventina di suore che gli erano rimaste fedeli e con il consenso dell’ordinario del luogo diede origine a un’altra congregazione con lo scopo dell’adorazione perpetua, dell’istruzione e dell’educazione della gioventù e la cura dei vecchi e dei malati anche a domicilio.
Con Madre Gertrude rimasero circa trenta suore, le quali furono costrette a vivere in un piccolo appartamento preso in affitto dopo il sequestro dei beni. Mons. Guindani manifestò alla superiora le sue preoccupazioni per la congregazione, ma questa gli rispose: “Ho fiducia in Dio, Eccellenza; mi lasci andare avanti ancora per un po’ di tempo. Se vedrò di non farcela, verrò a dirglielo io stessa”. Il vescovo la esortò a trasferire momentaneamente la casa madre fuori della diocesi, ed ella acconsentì. Fu ricevuta sotto la protezione di Mons. G. B. Rota, da poco eletto vescovo di Lodi, il quale comperò per lei e le sue suore la casa di Lavagna nella quale emisero la professione religiosa dopo che furono da lui canonicamente erette in congregazione religiosa (8-11-1891) con il nome di Sacramentine. L’anno successivo Madre Gertrude poté fare ritorno alla primitiva casa madre di Bergamo perché era stata riscattata da pie persone. La beata si propose di fare ogni sacrificio e di attuare ogni pia industria per essere in grado di coprire tutte le passività “in modo che nessuno soffrisse danno nemmeno di un centesimo”. Per rimettere in assetto la congregazione e diffonderla in altre diocesi le furono sufficienti otto anni. Leone XIII l’11-4-1900 le concesse il decreto di lode.
Nel governo dell’Istituto Madre Gertrude si lasciò guidare esclusivamente da principi soprannaturali. Ebbe perciò una cura speciale nel dare alle suore e alle orfanelle una formazione religiosa completa. Per elevarle, infervorarle nella pietà e fortificarle contro le tentazioni raccomandava loro soprattutto di vivere alla presenza di Dio e di non trascurare l’ora di adorazione prescritta. Per riparare i peccati degli uomini era capace di rimanere talora di notte sette ore in adorazione. Alle suore ripeteva sovente: “Anime, anime… sorelle, portiamo a Gesù delle anime!”. In ricreazione faceva estrarre loro a sorte dei foglietti sui quali erano indicate le varie terre di missione per le quali ognuna di loro doveva pregare.
Secondo il suo confessore Madre Gertrude per tutta la vita non commise un peccato deliberato. Non fu mai vista operare con impulsività o precipitazione, usare preferenze o esigere distinzioni benché sofferente di stomaco. Voleva quindi che anche le suore fossero giuste con le ragazze; che si abituassero a dire “bianco al bianco, nero al nero”; che evitassero di fare carezze o di baciare i bambini dell’asilo; che non fossero troppo tirate nel contrattare il prezzo delle merci acquistate perché anche gli esercenti avevano diritto all’onesto guadagno. Nelle conferenze spirituali diceva loro: “Mancanze volontarie, anche piccole, e amor di Dio non stanno insieme”.
Per spingerle a maggior perfezione la venerabile esortava le suore a meditare sovente la Passione del Signore. Convinta che senza croce non c’è redenzione, ripeteva sovente: “Mio Dio, vi ringrazio che mi fate patire. Non sono degna di tale favore”. Benché fosse di salute cagionevole sospirava: “Signore, se vi piace datemi pure tutte le malattie che volete. Fatemi morire, annientatemi perché io possa amarvi e farvi amare”. Per soggiogare il proprio orgoglio baciava sovente i piedi alle suore, oppure si distendeva ogni tanto sulla soglia del refettorio dicendo loro: “Calpestatemi”.
          Il 10-2-1903 Madre Gertrude fu colpita da polmonite doppia. Si preparò alla morte pregando e interessandosi ancora dell’Istituto e delle singole religiose. Un sacerdote le disse: “Se il Signore la volesse ancora qui, non sarebbe contenta?” Rispose: “Farò la volontà di Dio, non ricuso il lavoro”. La morente volle vedere per l’ultima volta le sue figlie. Disse alle professe: “Vi raccomando l’osservanza della regola, il silenzio, il sacrificio, la povertà, l’ubbidienza”, e alle novizie: “Siate religiose di criterio per essere di aiuto e non di peso ai superiori. Vi raccomando osservanza, osservanza, osservanza!”. Avvertita che era mercoledì, giorno dedicato a S. Giuseppe, esclamò: “Oh, come mi fa bene il nome di S. Giuseppe! Quando la mia barca stava per affondare, fu lui che la salvò e la condusse in porto!”
Morì il 18 febbraio. Dopo gl’imponenti funerali, Mons. Guindani disse alle Sacramentine: “La vostra fondatrice era una grande donna e un vera santa. Se sapeste quanto ha sofferto, capireste che solo una santa può superare sì terribili prove”. Le sue reliquie sono venerate a Bergamo nella cappella di casa madre. Giovanni XXIII ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 26-4-1961 e Giovanni Paolo II la beatificò il 1-10-1989.

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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 216-223.
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