B. FRANCESCO PACHECO e COMPAGNI (+1626)

Francesco Pacheco venne catturato, durante le feroci persecuzioni in Giappone, il 18 dicembre 1625, insieme ad altri che lo aiutavano e l\’ospitavano. Il 17 giugno 1626 fu trasferito a Nagasaki dove, il 20 giugno 1626, fu arso vivo, in odio alla fede, sulle colline della città, con altri otto religiosi della Compagnia di Gesù. Le loro ceneri furono poi disperse in mare. Il gruppo era così composto: Francesco Pacheco portoghese, Baldassarre De Torres spagnolo, Giambattista Zola italiano, Pietro Rinscei giapponese, Vincenzo Caun coreano, Giovanni Kinsaco giapponese, Paolo Xinsuki giapponese, Michele Tozò giapponese e Gaspare Sadamatzu fratello coadiutore giapponese. Vennero tutti beatificati nel 1867 da Pio IX.

Questo missionario gesuita, bruciato vivo a Nagasaki (Giappone) con altri otto confratelli, fa parte della gloriosa schiera dei 205 confessori della fede beatificati dal Ven. Pio IX il 7-5-1867. Nacque nel 1565 da nobile famiglia a Ponte di Lima, nella diocesi di Braga (Portogallo).
Quando raggiunse i dieci anni di età, alla lettura delle vite dei Martiri cominciò a sentirsi attratto dal desiderio di darsi all\’apostolato missionario. Era studente a Lisbona quando vide passare, di ritorno in patria, l\’ambasciata composta da quattro giovani principi giapponesi, i quali si erano recati a Roma per rendere omaggio al Papa Gregorio XIII (+1585).
Concepì allora l\’idea di farsi gesuita per andare a evangelizzare i popoli ancora avvolti nelle tenebre dell\’idolatria.
A vent\’anni Francesco entrò nella compagnia di Gesù. Dopo molte insistenze, al termine del liceo, ottenne di essere inviato in estremo Oriente (1592). Prima sua tappa fu l\’India, quindi Macao (Cina), dove svolse fino al 1604 la funzione di insegnante di teologia. Avendolo Dio prescelto per opere di maggiore impegno per la sua gloria, dispose che riuscisse finalmente a mettere piede in Giappone. Appena fu in grado di esprimersi nella lingua del paese, svolse con grande frutto il ministero sacerdotale ad Osaca, Meaco, Tacuco, dove fu eletto superiore della sua comunità.
Poco tempo dopo il beato fu richiamato a Macao per dirigere il collegio dei Gesuiti. Egli obbedì prontamente benché il suo cuore fosse sempre rivolto al Giappone. Vi poté fare ritorno, ma fu espulso con gli altri missionari dall\’imperatore Tokugawa Ieyasu (+1616), a istigazione dei protestanti e dei bonzi che gli fecero apparire i cattolici quali nemici dell\’impero. Dio concesse al Pacheco la grazia di farvi ritorno quasi subito, ispirando al P. Luigi Cerqueira (+1614), nominato vescovo del Giappone, di prenderlo come compagno delle sue fatiche apostoliche e farlo vicario generale. Egli assistette i fedeli, con pericolo della vita, perché la persecuzione ebbe inizio con la caccia ai missionari che erano rimasti nel paese o vi avevano fatto ritorno, e a coloro che li ospitavano.
Per il compimento del suo ministero furono indescrivibili le fatiche alle quali si sobbarcò il beato, costretto a fuggire di città in città, a passare di casa in casa, a cambiare continuamente nome e vestito per non essere riconosciuto. Nella visita che fece ai regni dei Carni, essendo stato proibito agli abitanti di alloggiare i cristiani, fu costretto a rifugiarsi nei boschi e a passare la notte in umide spelonche o in misere stamberghe.
A Sacai, avendo alle calcagna gli sgherri dell\’imperatore, stette rintanato in un nascondiglio per più di un anno; ne usciva soltanto al calare delle tenebre per amministrare i sacramenti e confermare i vacillanti nella fede. Negli ultimi quattro anni di vita fu nominato provinciale e amministratore del vescovado. Secondo il B. Girolamo de Angelis (14-12-1623), fu un religioso di rara prudenza, umile, mansueto, austero con sé medesimo, amorevole verso gli altri, fornito di tutte quelle virtù che rendono una persona di consumata perfezione.
Per stare più facilmente a contatto con le varie cristianità, aveva stabilito la residenza a Cocinotzu d\’Arima, ospite di due fratelli, Mencio e Mattia, della nobile famiglia Araki. Il B. Gaspare Sadamadzu, suo fratello coadiutore, aveva trovato ospitalità in una casa vicina, appartenente a parenti degli Araki. Per quanto draconiani fossero i decreti emanati nel 1616 dall\’imperatore Xongun Sama, qua e là si trovava qualche principe disposto a chiudere un occhio sulle attività che nel territorio svolgevano i missionari. Così avvenne nel regno di Tacacuo o di Arima, dove stavano prodigandosi i Gesuiti. Il suo signore, Madzucura Bungo, nel 1625 si era recato per affari alla corte. Vi rimase un anno intero. Furono tante le cose udite e viste contro i cristiani, che si spaventò della tolleranza accordata fino allora ai missionari. Per non cadere in disgrazia dell\’imperatore, inviò tosto a Scimabara un messo con l\’ordine ai suoi tre governatori di fare una diligente perquisizione onde scoprire tutti i cristiani. Il più crudele di essi, Tanga Mondo, mandò nei vari centri dei commissari perché esigessero dagli abitanti l\’esplicita dichiarazione a quale religione appartenevano. Il gesto, interpretato come prodromo di persecuzione, cagionò diversa impressione nell\’animo dei cristiani. Uno di essi, Cumata, nativo di Cocinotzu, prima ancora di essere interrogato, rinnegò la propria fede e per un vile guadagno che se ne riprometteva, corse a Scimabara, dove si trovavano i governatori, e si offrì a consegnare a Tanga Mondo i gesuiti con le famiglie che li ospitavano. Le autorità fecero subito armare tre navi, e le mandarono a Cocinotzu. La mattina del 18-12-1625 trecento soldati circondarono le case loro indicate dall\’apostata ed il P. Pacheco, dopo essere stato ingiuriato e bastonato senza pietà, fu arrestato con il Fratel Gaspare e i mèmbri delle famiglie che li albergavano.
Quattro giorni dopo in Scimabara fu arrestato il B. Giovambattista Zola, bresciano, che aveva raggiunto il Giappone nel 1606 e ne diede notizia in questi termini al visitatore della provincia: "Preso in Cocinotzu il P. Provinciale e tornati i governatori con la preda a Scimabara, la notte seguente il 18 dicembre i cristiani impauriti dall\’attesa di una ricerca generale per le case della città di Scimabara, dov\’io stavo, mi fecero passare, infermo com\’ero, a una capanna dei sobborghi, e intanto uno di loro venne a offrirmi una barca per andare altrove; ma io, poiché stavo troppo male, non l\’accettai. Allora, alcuni di loro, incaricati dagli altri, tennero consiglio e risolvettero che me ne andassi in casa di un certo Giovanni Naisen, presso il quale non ero solito alloggiare… Diedi loro ascolto. Il giorno dopo venne a trovarmi uno dei principali cristiani della città, il quale, dopo un lungo ragionamento sulla persecuzione in corso e sul martirio, mi disse che, data la pericolosa situazione, i responsabili della cristianità ritenevano che non potessi rimanere più oltre in città.
Due giorni dopo, mentre stavo indossando i paramenti per celebrare la mia ultima Messa, mi offersi a Dio con sentimenti fuori dell\’ordinario. Al termine della Messa e durante l\’orazione del giorno seguente, meditando sull\’eccessivo amore che il Signore aveva avuto per me, e considerando l\’obbligo che avevo di corrispondervi, chiesi la grazia di potergli rendere qualche servizio di suo gradimento…
"Il giorno dopo fui avvertito sul mezzogiorno di andare, a una determinata ora della notte, in un posto dove si trovava una barca pronta a portarmi altrove a seconda del tempo e del mare. Non era ancora trascorsa un\’ora quando, d\’improvviso, entrò nella casa di Giovanni, dove mi trovavo, un manipolo di uomini con tanto impeto che non ebbi neppure il tempo di chiudere il breviario che stavo recitando. Il primo a venirmi incontro fu Tobioie, uno dei tre governatori, e contemporaneamente molti altri. Erano talmente furiosi che pareva mi volessero ingoiare vivo. Per grazia di Dio non persi la tranquillità e la pace dell\’animo. Chiesi loro con calma che mi legassero, ma non mi diedero ascolto. Arrestarono invece subito il mio catechista, Vincenzo Caun, un altro servo, e Giovanni con tutta la sua famiglia".
Il B.Vincenzo Caun, d\’illustre famiglia coreana, era molto abile nell\’insegnamento della dottrina cristiana, e tanto valente nella lingua giapponese che il governatore di Arima lo avrebbe assunto come segretario qualora avesse rinnegato la propria fede. Il beato gli aveva opposto un energico rifiuto, motivo per cui lo aveva fatto distendere sul pavimento, e aveva comandato che gli fossero contorte le dita dei piedi e delle mani con grosse tenaglie, e strappate a brani le carni dalle braccia e dalle narici. Poiché non si era piegato alla sua volontà, gli aveva fatto ingoiare, a viva forza, una grande quantità di acqua, e poi gliela aveva fatta rimettere, mista a sangue, calpestandolo brutalmente. Quando si accorse che si affaticava invano a tormentarlo, comandò che fosse rinchiuso per un certo tempo in prigione.
Quali fossero le disposizioni d\’animo di coloro che, per oltre sei mesi, attesero il martirio chiusi in due anguste carceri, ce lo dice nella medesima lettera il P. Zola: "Intanto noi ce ne stiamo, grazie a Dio, molto contenti e allegri aspettando la nostra ora. Quello che ci da grande pena è il non poter ottenere gli arredi sacri per celebrare; neanche il breviario ci hanno lasciato, ne alcun libro spirituale e ci hanno tolto perfino le corone e i rosari. Ma in loro vece digiuniamo e facciamo orazione mentale e vocale: e Dio non lascia di consolarci e farci animo… Mi rincresce per il P. Provinciale, vecchio e infermo, e da quando è in questa prigione, assai malandato".
Il 15-3-1626 caddero nelle mani della polizia imperiale per mezzo di spie il B. Baldassarre de Torres, nato a Granada nel 1563 e sbarcato in Giappone nel 1600 dopo che aveva insegnato teologia per otto anni a Macao. Con lui fu arrestato il suo catechista, il B. Michele Tozò. Essi si trovavano nei dintorni di Nagasaki, in un villaggio di tré o quattro case, ospiti di due poveri agricoltori. Dopo essere stati condotti in ludibrio a Nagasaki, furono rinchiusi nelle carceri di Omura dove, per circa tre mesi, furono nutriti invariabilmente con un scodella di riso nero e una sardella salata.
I nove gesuiti chiusi nelle prigioni di Scimabara e di Omura furono condannati ad essere arsi vivi da Cavaci, nuovo governatore. Essi erano: i PP. Pacheco, Zola, Torres, i fratelli coadiutori Sadamatzu e Tozò ed i catechisti Pietro Rinscei, Vincenzo Caun, Paolo Scinsuche, Giovanni Chinsaco. Questi quattro ultimi erano stati ammessi a far parte della Compagnia di Gesù dal P. Pacheco durante la prigionia per concessione speciale. Le vittime furono adunate a Nagasaki. Nella città da un anno e mezzo non avvenivano esecuzioni capitali a causa delle fede. Tutti gli abitanti la mattina del 20-6-1626 si riversarono sulla collina prospiciente il mare dove erano stati conficcati per terra i pali e preparate attorno ad essi le cataste di legna che, accese, dovevano consumare le vittime. Davanti allo steccato che chiudeva, come si disse "l\’altare per la messa solenne dei gesuiti"\’, accorsero anche numerosi cristiani dai paesi d\’intorno.
Quantunque la scena non fosse nuova, esercitava tuttavia una straordinaria attrattiva sugli animi di tutti, compresi i pagani, che rimanevano meravigliati al vedere degli uomini andare alla morte come se andassero ad un festino di nozze.
Il piccolo drappello di condannati entrò nel recinto loro destinato preceduto dal P. Pacheco. Ciascuno di loro s\’inginocchiò davanti al palo che gli era stato assegnato e lo baciò a conferma dell\’offerta a Dio della propria vita. Non appena furono legati ai pali, i carnefici diedero fuoco alle cataste di legna che, in un quarto d\’ora, compirono l\’opera loro. Al crepitio delle fiamme furono visti i martiri innalzare il loro volto sereno al cielo, uditi cantare salmi e invocare i dolcissimi nomi di Gesù e Maria.
Quando i loro corpi furono completamente distrutti, i soldati ne raccolsero le ceneri e le buttarono in mare. Coloro che avevano ospitato i gesuiti furono bruciati vivi un mese dopo. Anch\’essi, nove in tutto, sono stati annoverati tra i 205 martiri giapponesi beatificati il 7-5-1867 dal Ven. Pio IX.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 219-223
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