B. GEREMIA STOICA DA VALACCHIA (1556-1625)

E’ il primo romeno, fratello laico cappuccino, ad essere elevato all’onore degli altari… Un giorno, sulla piazza del mercato dove si era recato per vendere il frutto del suo lavoro, Ion s’imbatté in un vecchio mendicante che gli disse: “Tu andrai al di là dei monti, in una terra che si chiama Italia. Percorrerai una strada lunghissima e avrai molto da soffrire, ma non avere paura perché non ti succederà alcun male. Giunto al termine del tuo viaggio ti metterai con amore e con gioia al servizio di un grandissimo signore e ne sarai magnificamente ricompensato”.

E’ il primo romeno, fratello laico cappuccino, ad essere
elevato all’onore degli altari. Nacque il 29-6-1556, primogenito di quattro
fratelli e due sorelle, da Costis Stoica e Margherita Barbat, benestanti
agricoltori, cattolici ferventi e benefattori dei poveri, a Tzazo, minuscolo
villaggio della Piccola Valacchia, corrispondente all’attuale Moldavia
(Romania), in quel tempo sotto la dominazione dei turchi e dei greco-ortodossi.
A pochi giorni dalla nascita, secondo il costume dei romeni, gli furono
amministrati i sacramenti del battesimo e della cresima, e gli fu imposto il
nome di Ion (Giovanni).
 Il beato crebbe analfabeta perché nel suo paese non c’era
la scuola. Dai genitori, in modo speciale dalla mamma, apprese soltanto le
principali verità della fede e la maniera di metterle in pratica.

 Di mano in mano che cresceva in età, Ion sentiva crescere
in sé anche il desiderio di farsi monaco per volarsene, come gli uccelli, verso
il cielo, ma la mamma, che non stimava i conventi romeni a causa della loro
rilassatezza, gli suggerì di recarsi in Italia, dove risiedeva il Vicario di
Cristo e dove i religiosi potevano aspirare alla santità senza oppressioni. Un
giorno, sulla piazza del mercato dove si era recato per vendere il frutto del
suo lavoro, Ion s’imbatté in un vecchio mendicante che gli disse: “Tu
andrai al di là dei monti, in una terra che si chiama Italia. Percorrerai una
strada lunghissima e avrai molto da soffrire, ma non avere paura perché non ti
succederà alcun male. Giunto al termine del tuo viaggio ti metterai con amore e
con gioia al servizio di un grandissimo signore e ne sarai magnificamente
ricompensato”.
 A diciotto anni Ion, prima che spuntasse l’alba, abbandonò
per sempre la famiglia e la patria, per seguire la voce di Dio che
misteriosamente lo chiamava. Nell’interminabile viaggio corse seri pericoli da
parte dei banditi e dei turchi e, per sopravvivere, dovette sobbarcarsi ogni
genere di fatiche. Valicati i Carpazi, il beato sostò quasi due anni ad Alba
Iulia, capitale della Transilvania, in attesa di una occasione propizia per
rimettersi in cammino. Il principe Stefano Bathory aveva fatto venire in città
da Bari un celebre medico perché lo guarisse da una grave infermità. Costui,
portato a buon termine il suo compito, accettò volentieri di essere
accompagnato nel viaggio di ritorno da Ion Stoica. Impiegarono tre mesi a
percorrere a piedi e a cavallo i circa 2000 km. che separavano Alba Reale da
Ragusa, in Dalmazia, dove s’imbarcarono sopra una nave mercantile diretta alle
Puglie.
 A Bari il beato trovò lavoro come garzone in una farmacia,
ma rimase tanto amareggiato per la cattiveria degli abitanti che decise di
ritornarsene in patria. Mentre attendeva, nel porto, di imbarcarsi, fu
avvicinato da un vecchio misterioso il quale, venuto a conoscenza dello stato
d’animo di lui, gli disse: “Ma Bari non è poi tutta Italia. Va a Napoli, a
Roma, a Loreto e constaterai che in Italia non mancano i buoni cristiani”.
Ion, nella quaresima del 1578, si trasferì nel regno di Napoli, allora sotto il
dominio della Spagna. La tradizionale religiosità dei napoletani gli riuscì
gradevole. Decise perciò di stabilire definitivamente la propria residenza tra
loro. La formazione del clero impartita in S. Paolo Maggiore dai Chierici
Regolari Teatini, secondo le direttive del Concilio di Trento, in modo speciale
da S. Andrea Avellino (+1608) e dal B. Paolo Burali (+1578), arcivescovo della
città, stava dando i suoi frutti salutari.
 Pochi giorni dopo il suo arrivo a Napoli, Ion Stoica andò a
bussare alla porta del convento di S. Eframo Vecchio che, alle falde di
Capodimonte, la Ven. Maria Lorenza Longo (+1542), fondatrice dell’ospedale
degli Incurabili e del monastero di S. Maria in Gerusalemme, sede delle
clarisse cappuccine, aveva fatto costruire per i Padri Cappuccini. Il
provinciale P. Urbano da Giffoni, prima di accettarlo, per ben due volte lo
esortò a riflettere sull’importanza del passo che stava per compiere. Quando fu
certo che era risoluto di lasciare il mondo per servire Dio, lo affidò a Fra
Pacifico da Salerno, perché lo accompagnasse al noviziato di Sessa Aurunca
(Caserta).
 Dopo un ritiro spirituale, Ion Stoica, pensando “ai
monaci santi” di cui gli aveva parlato tante volte la mamma, l’8-5-1578
vestì il saio cappuccino e assunse il nome di Fra Geremia da Valacchia.
Nell’anno di noviziato non gli mancarono prove dovute anche al suo temperamento
oltremodo focoso, ma le superò con l’aiuto del suo confidente, Fra Pacifico da
Salerno, che gli sopravvisse. Dopo la professione religiosa fu trasferito nel
convento di S. Eframo Vecchio, perché coltivasse l’orto. In quel tempo, secondo
la testimonianza di Fra Placido piemontese, suo aiutante, fece scomparire da
esso una grande quantità di bruchi, che minacciavano il raccolto, con un
semplice segno di croce e un po’ di acqua santa. In seguito pare che sia stato
assegnato ad altri conventi. Nel 1583 si trovava di certo in quello di Pozzuoli
con il compito di cuoco e, nel 1585, in quello di S. Eframo Nuovo, detto della
Concezione, con il compito di infermiere e di questuante. Qui rimase per tutta
la vita. Il convento era stato costruito dal P. Urbano da Giffoni per i
confratelli malati dell’Italia meridionale, sulla collina detta
“Infrascata”, ed era diventato sede anche della curia provincializia.
 Fra Geremia comprese subito che la vita religiosa si
identificava con le virtù dell’obbedienza, dell’umiltà e della carità, quindi
cercò di praticarle con grande generosità. Alle estasi diceva che preferiva
l’esercizio delle opere di misericordia. Per quarant’anni prestò a tutti i
malati i più umili e ripugnanti servizi, dicendo loro parole amorevoli come
avrebbe fatto una madre con il proprio figlio. Assisteva giorno e notte gli
infermi più gravi senza dare segno di noia o di stanchezza, imboccava i
paralitici, preparava bagni con erbe odorifere ai piagati nel corpo, lavava i
loro panni e sopportava pazientemente le ingiurie dei nevrastenici e le
insolenze dei privi di senno.
 Nell’esercizio del suo compito non tutti i confratelli lo
ritenevano un buon samaritano, sincero e spirituale. A uno dei diffidenti, un
giorno, Fra Geremia rispose: “Hai ragione, fratello, di non credere.
Prega, per carità, affinchè io non inganni gli altri”. Non gli mancarono
neppure derisioni e pubbliche riprensioni, per colpe che non aveva commesso ma,
per dominare i bollenti suoi spiriti diceva allora a se stesso: “Crepa
bestia, muori, asino, non rispondere e non risentirti”. In convento sapeva
di costituire un grande impiccio per i sagrestani e per i portinai tant’era la
gente che vi giungeva a chiedere di lui, ma egli si vergognava di essere tanto
stimato e si umiliava fino a prostrarsi per terra. Era analfabeta, parlava un
italiano misto al romeno e al napoletano, eppure tutti lo ascoltavano con
piacere non esclusi i dotti e gli ecclesiastici, che gli esponevano i loro
dubbi ai quali rispondeva con sorprendente lucidità.
 Nei processi canonici abbondano le testimonianze di coloro
che beneficiarono dei suoi servizi, prestati sempre con tanto amore. Dopo la
sua morte alcuni confratelli giunsero a dire: “Noi l’abbiamo pianto molte
volte come se fosse stato nostra madre!” Eppure anche lui provò talora
stanchezza nell’esercizio di un compito tanto ingrato. Lo si constatò nel caso
di un certo Fra Martino Spagnuolo, ex-ufficiale del re di Spagna, ricoperto da
capo a piedi di piaghe tanto purulente che bisognava lavarlo e medicarlo fino a
dodici volte al giorno. In cella nessuno riusciva a stargli vicino a lungo. Fra
Geremia ne ebbe cura per alcuni mesi poi, vinto da quel “terribile
quotidiano”, chiese di essere allontanato dall’infermeria.
 Fu mandato a fare l’ortolano a S. Eframo Vecchio ma, per
mezzo di un sogno, il Signore gli fece capire che il suo posto era
nell’infermeria di S. Eframo Nuovo. Quattro anni e mezzo durò il calvario di
Fra Martino e Fra Geremia. Quando il malato cessò di vivere, l’infermiere fu
udito esclamare piangendo: “E’ morto Fra Martino poverello: era lo spasso
mio e la ricreazione mia!”
 Tanta carità verso il prossimo nel beato era alimentata da
un grande spirito di orazione. Nonostante le fatiche del giorno, egli passava
molte ore della notte in preghiera nella cappella dell’infermeria. Tra tutte le
preghiere prediligeva il Pater Noster. Lo raccomandava ai suoi estimatori e lo
recitava adagio, scandendo e assaporando le parole. Meditava sovente la
Passione del Signore. Nella settimana santa fu persino visto versare lacrime di
sangue durante la celebrazione dei divini misteri. Per instillare nei
confratelli la devozione a Gesù crocifisso introdusse tra loro la Coroncina
della Passione che consisteva nella recita di 33 Pater Noster e di una lunga
preghiera. Altro oggetto della sua meditazione era l’Eucaristia. All’interno
della comunità formò una specie di associazione, aperta a chiunque fosse deciso
a progredire nel servizio di Dio e dei fratelli e a riunirsi ogni sera sotto la
sua guida. Tra loro organizzò turni di adorazione eucaristica diurna e
notturna, per la necessità della Chiesa, la conversione dei peccatori e il
suffragio dei defunti. Dio permise che molti di essi gli apparissero dopo la
morte per indicargli lo stato in cui si trovavano e raccomandarsi alle sue
preghiere. Un giorno gli apparve anche la mamma la quale, raggiante di gioia,
gli disse: “Me ne vado al cielo, figlio mio. Arrivederci in
paradiso!”. Per abbreviare le loro pene durante l’anno praticava
rigorosamente le sette quaresime di S. Francesco e faceva molte penitenze. Suo
cibo preferito erano le fave che chiamava “i miei fagianotti”. Ai
panni nuovi preferiva quelli vecchi e rappezzati. Si affliggeva del superfluo.
Per trentacinque anni portò sempre lo stesso mantello. Non tollerava mancanze
alla povertà. Vedendo che nel convento di S. Eframo Nuovo le costruzioni non
terminavano mai, diceva che si fabbricava per il purgatorio. Oggi il complesso
edificio è adibito a Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Quando nell’infermeria
non c’erano celle a sufficienza per i malati, Fra Geremia era felice di mettere
la propria a loro disposizione e di dormire in un sottoscala o in un
ripostiglio qualunque.
 Non sempre l’infermeria del convento rigurgitava di malati
e allora il beato era lieto di mettersi a disposizione dei confratelli
bisognosi di aiuto o di uscire a questuare per le vie di Napoli. Trattava
tutti, uomini e donne, con grande semplicità, franchezza e amabilità. Le mamme
si auguravano che le loro figlie potessero “sorridere del sorriso luminoso
di Fra Geremia”. Dal suo volto sprizzava infatti tanta gioia che i
napoletani esclamavano meravigliati al vederlo: “Oh, che faccia allegra
che ti consola! Faccia proprio di santo!”. Quando i bambini che egli, per
la loro purezza, chiamava “angelilli”, lo vedevano arrivare, gli
correvano incontro, vociando, per toccargli la veste, baciargli il cordone,
chiedergli una medaglietta, pregare o cantare con lui devote laudi alla
Madonna. Davanti a ogni immagine che vedeva esposta nelle vie della città, il
beato si inginocchiava per terra e, con la gente che gli si stringeva attorno,
recitava l’Ave Maria e cantava la Salve Regina.
 Il beato è ordinariamente raffigurato in colloquio filiale
con la Madonna. Nel 1608 gli apparve mentre pregava in chiesa. Nel contemplarla
le fece notare che, pur essendo regina, non portava la corona sul capo. Gli
rispose Maria SS., stringendosi al seno il Bambino Gesù: “La corona mia è
questo figlio mio”. La fama del prodigio, tramite Fra Pacifico da Salerno,
si diffuse in un baleno tra i benefattori di Fra Geremia. Donna Isabella Della
Rovere, principessa di Bisignano, incaricò un pittore di ritrarre la visione e
di diffonderla nel regno di Napoli in centinaia di copie. Un anno dopo Fra
Geremia fu mandato nel convento di Pozzuoli per l’assistenza agli infermi
bisognosi di cure sulfuree, ma rimase mortalmente intossicato dalle esalazioni
solfidriche, alle quali rimaneva esposto per ore ed ore. Tra i rantoli
dell’agonia il beato espresse il desiderio di vedere l’immagine della sua
Madonna. Appena gli fu posta innanzi, la fissò e così pregò: “Mammarella
cara, eccomi qua. Vuoi portarmi via? Ne sono felice. Vuoi lasciarmi ancora in
vita? Ti amerò e ti servirò più di quanto non abbia fatto finora”. Pochi
giorni dopo il morente riprese il suo servizio nell’infermeria. Riconoscente
alla Madonna della grazia ricevuta, continuò a venerare la dimora, per nove
mesi, del Verbo di Dio, nel seno di lei, con la recita di nove volte al giorno
della Salve Regina: tre al mattino per la conversione dei peccatori e
l’acquisto dell’umiltà; tre a mezzogiorno per gli agonizzanti e l’acquisto
della purezza; tre alla sera per le anime del purgatorio e l’acquisto della
carità.
 Aggirandosi per le vie e le piazze di Napoli, Fra Geremia
non tardò a rendersi conto di quanto grande fosse la miseria del popolo. Ne
provò tanta compassione da esclamare: “Darei gli occhi per i poveri!”
Ad essi donava quanto gli era concesso di prendere nel convento o nell’orto e
per essi non si vergognava di andare a questuare carne dai macellai, vesti dai
rigattieri, denari dalle principesse. Per moltiplicare gli aiuti ai bisognosi,
non disdegnò di contrarre amicizia anche con le famiglie aristocratiche di
Napoli e di frequentare uomini privi di scrupoli, come il famigerato Pietro
Girón, duca di Ossuna e viceré di Napoli, per ricondurli sul retto cammino con
l’esercizio della elemosina. A costui segnalò più volte casi pietosi di poveri
e ne ricevette aiuti per risolverli. Non essendo riuscito a fargli modificare
il metodo di governo, i maggiorenti di Napoli convennero a S. Eframo Nuovo e pregarono
S. Lorenzo da Brindisi (+1619) di farsi portavoce del popolo angariato dal
viceré, presso Filippo III (+1621), re di Spagna. L’indegno ministro fu
deposto, ma Fra Geremia continuò a pregare e a sperare nella di lui
conversione.
 Il beato era conteso da tutti, ricchi e poveri, dotti e
ignoranti, sani e malati. Soprattutto questi ultimi bramavano averlo accanto al
proprio capezzale perché godeva fama di taumaturgo e di profeta. Dai processi
risulta che molti infermi furono guariti da lui con un semplice segno di croce
sulla fronte e la preghiera: “La potenza di Dio Padre, la sapienza di Dio
Figlio e la forza dello Spirito Santo ti liberi da ogni male. Gesù, Maria,
Francesco”. Fra Arcangelo Arcella da Napoli attendeva nell’infermeria che
il chirurgo gli amputasse la mano destra perché colpita da un tumore maligno.
Mosso a compassione Fra Geremia le tracciò sopra un segno di croce dicendo:
“Io ti segno e Dio ti sani”. Il giorno dopo, quando il chirurgo
gliela sfasciò, la trovò perfettamente sana. Secondo Fra Modesto da Napoli, che
accompagnava sovente il beato quando usciva di convento, diversi malati guarì
con il tocco della mano o strofinando il suo mantello sulla parte malata del
loro corpo. A una nobildonna della famiglia Caracciolo guarì il figlio, a
distanza, prostrandosi in preghiera nella chiesa del convento per lo spazio di
un Credo.
 Nel mese di febbraio 1625 Fra Geremia fu chiamato al
capezzale di don Giovanni d’Avalos, gran camerlengo del regno, ammalatesi
gravemente a Torre del Greco. Per obbedienza vi si recò a piedi, con Fra
Pacifico da Salerno, ma fu tanta la pioggia e il freddo che prese nell’andata e
nel ritorno che fu assalito da una pleuro-polmonite. Si preparò alla morte
confidando nella sua “mammarella”. Morì il 5-3-1625 dopo aver
sollevato il capo e le braccia verso il crocifisso e sussurrato: “Sì,
vengo, o Gesù”.
 Appena per Napoli si sparse la voce che era morto “il
santo”, una folla enorme accorse al convento per dargli l’estremo saluto.
Gli alabardieri e le guardie civiche, poste a protezione della sua salma,
servirono a poco. Difatti furono tanti coloro che desiderarono avere di lui una
reliquia che lo si dovette rivestire per ben sei volte.

 Giovanni XXXIII ne riconobbe l’eroicità delle virtù il
18-12-1959 e Giovanni Paolo II lo beatificò il 30-10-1983.1 suoi resti mortali
sono venerati a Napoli nella chiesa dell’Immacolata Concezione.
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Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 70-76.

http://www.edizionisegno.it/