B. FRANCESCO CLET (1748-1820)

II suolo cinese fu bagnato dal sangue di due eroici figli di S. Vincenzo de’ Paoli: il B. Gabriele Perboyre (+11-11-1889) e il B. Francesco Clet.

Quest’ultimo nacque a Grenoble il 19-8-1748, decimo di un famiglia di quindici figli, due dei quali si fecero religiosi. Compiuti gli studi letterari nel seminario minore di S. Martino de Miséré e quelli teologici nel seminario maggiore di Grenoble, il 16-3-1769 il beato entrò nella Congregazione della Missione a Lione, dove fu ordinato sacerdote nel 1773.
Nello stesso anno il P. Clet fu incaricato d’insegnare teologia morale nel seminario maggiore di Annecy, Agli occhi degli scolari apparve così preparato e profondo nel suo insegnamento da esser soprannominato “biblioteca vivente”. Nel 1788, alla vigilia della Rivoluzione Francese, venne mandato, quale deputato della provincia religiosa della Congregazione della Missione di Lione, a Parigi per l’elezione del superiore generale. Risultò essere il più giovane membro del capitolo. Tra tanti venerandi padri spiccò per la sua prudenza e la santità della vita. I superiori lo vollero per questo trattenere a Parigi quale direttore del noviziato della casa madre.

Alla Francia e in modo speciale alla sua capitale sovrastavano giorni di sangue. Ben se ne avvidero i Lazzaristi il giorno in cui una folla inferocita e affamata invase il loro seminario mettendo tutto a sacco. Il beato, prevedendo per la patria giorni ancora più tristi, aveva maturato nel proprio cuore il proposito di portare il Vangelo agli idolatri, ma invano ne aveva chiesto il permesso ai superiori i quali ritenevano che la sua presenza a Parigi fosse ancora necessaria. Nel 1791 tre missionari dovevano partire per la Cina. Essendo ad uno di essi sopravvenuto un impedimento, il P. Clet fece istanza ai superiori di poterlo sostituire. Questa volta, attesa la tristezza dei tempi, il suo desiderio fu soddisfatto.

Il beato il 10-3-1791 ne diede notizia ad una sorella in questi termini: “Finalmente ecco appagati i miei voti; sono felicissimo. La Provvidenza mi destina a lavorare per la salvezza degl’infedeli. Parto subito per la Cina con due confratelli, lieti, al pari di me, della fausta sorte. Addio mia cara sorella; se non ci rivedremo quaggiù, sarà tanto maggiore la nostra gioia nel rivederci in paradiso”. La sua lettera portò la desolazione in famiglia. Nessuno se la sentiva di rassegnarsi alla separazione da colui che l’ubbidienza destinava ai duri cimenti della vita apostolica. Furono studiate tutte le vie per fargli cambiare proposito, ma il P. Clet tenne duro. Scrisse alla sorella: “Approfitto della notte che precede la mia partenza per rispondere alla tua tenera lettera. Non posso pentirmi della mia determinazione, perché credo di assecondare i disegni della Provvidenza sopra di me. È vero che la natura reclama i suoi diritti, e io non posso allontanarmi da voi senza provare il dolore del distacco. Ma Dio lo vuole; ecco la mia parola; tu stessa non ne avesti mai altre. Non è forse una bella soddisfazione per te il pensare che un tuo fratello è destinato al ministero apostolico? Quanto a me, questo è un motivo di maggior certezza della mia predestinazione”.

Il suo viaggio da Lorient a Macao durò circa cinque mesi. Per vie segrete poté penetrare in Cina e raggiungere Kui-King, il distretto che gli era stato assegnato, nella provincia del Kiang-Si. A lui, già adulto, non fu lieve fatica lo studio del cinese, Vi si applicò lo stesso con ferrea volontà e riuscì ad impararlo tanto quanto richiedeva il compimento del ministero sacerdotale. Il clima, ben diverso da quello della sua patria, ne affievolì le forze e lo espose a continui incomodi di salute, ma il desiderio di guadagnare anime lo rese tetragono a tutte le difficoltà.

Dal Kiang-Si il P. Clet passò successivamente ad evangelizzare le province dell’Hou-Kouang. dell’Hu-pé e dell’Hu-nan. Ovunque la messe era molta, ma pochi gli operai, Benché debole di forze, il missionario percorreva talvolta anche cinquanta leghe per portare il viatico ai morenti, nonostante l’imperversare dell’uragano o della canicola. Due sacerdoti europei, che lo coadiuvavano, soccombettero, in meno di un anno, al peso di tante fatiche ed egli, per un lustro, dovette restare solo ad assistere 10.000 cristiani sparsi sopra una superficie di oltre duecento leghe.

Ad accrescere le sue pene si aggiunsero gli orrori della guerra civile scoppiata tra l’imperatore Kia-King, della dinastia tartara, e la società segreta che aveva assunto come simbolo il nenùfaro bianco. Un gran mandarino si costituì capo dei ribelli col fastoso titolo d’imperatore del cielo, della terra e degli uomini. Le comunità cristiane, confuse allora con i ribelli, benché estranee alla sommossa, subirono i più iniqui trattamenti e molti fedeli furono imprigionati. Per le devastazioni operate dalle orde ribelli, più volte il P. Clet, privo dei mezzi di sussistenza, dovette sottostare alle più dure privazioni.

Dal 1799 al 1804 ebbe come coadiutori due sacerdoti indigeni, ma essendo già avanzati negli anni e pieni di acciacchi, gli furono più di peso che di aiuto. Soltanto nel 1810 gli fu dato di abbracciare un confratello nella persona del P. Duzamel, ma la sua collaborazione, per quanto preziosa, non era ancora sufficiente per sopperire alle svariate necessità della missione. Le fatiche del beato durarono oltre trent’anni tra viaggi estenuanti, fatti quasi sempre a piedi, e pericoli senza numero. Pur lavorando tanto indefessantemente per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, si considerava un servo inutile, responsabile degli ostacoli che il cristianesimo incontrava nella propagazione nel suo distretto. Soleva dire: “Come la mia pietà è del tutto comune, così il mio ministero non offre nulla di straordinario”,

Non erano della stessa idea i suoi superiori. Poiché ne apprezzavano l’opera e le capacità organizzative, l’elessero procuratore della missione e gli conferirono ampie facoltà per il retto svolgimento del compito. Il beato lo accettò per ubbidienza. Sotto la sua guida abile e paterna, il clero indigeno ed europeo trasse maggiori frutti dalle proprie fatiche apostoliche.

Le sue tribolazioni si accrebbero, II P. Duzamel morì dopo che, per otto anni, gli era stato di valido aiuto. Alla sua privazione si aggiunse una piaga alla gamba che lo costrinse a rimanere a letto tra acuti dolori.

Si era appena ristabilito in salute quando scoppiò una terza persecuzione contro i cristiani. L’imperatore Kia-King (+1820) disprezzava gli europei perché li riteneva barbari ed era ostile ai cristiani. Fin dal 1811 aveva fatto decretare la pena di morte per strangolamento agli europei che predicassero la religione cristiana, ne stampassero segretamente i libri, ne educassero i futuri candidati. Per i propagatori della religione era decretata la decapitazione o l’ergastolo; per i fedeli cinesi l’esilio o la schiavitù; per i fedeli tartari la privazione del soldo militare e la degradazione.

Sul capo del B. Clet fu posta una grossa taglia. Già vecchio e malandato di salute, fu costretto a nascondersi tra i boschi e nelle caverne, Riuscì a sfuggire agli sgherri che lo inseguivano rifugiandosi nella provincia dell’Hu-nan, ma la perfidia e l’ingordigia d’un apostata non gli permisero di rimanere a lungo nascosto. Il 16-6-1819 aveva appena celebrato i divini misteri nel villaggio di King-Kia-Kau quando la casa in cui albergava venne assalita dai soldati. Il missionario fu incatenato con i cristiani che gli avevano dato asilo, e trasferito alla città di Nam-Yung-fu. Al delatore come ricompensa fu corrisposta la somma di 20.000 denari.

In prigione al P. Clet non mancarono ingiurie e maltrattamenti. Sovente durante la notte era lasciato con una gamba imprigionata m una specie di canga. Più volte alla presenza del mandarino ricevette fino a trenta sferzate sul viso con una strisciata di cuoio che glielo faceva sanguinare e gonfiare. Talora veniva lasciato per tre e quattro ore con le ginocchia sopra delle catene di ferro, ma niente ne poteva scuotere la fortezza. Guardando fisso il mandarino, un giorno ebbe l’ardire di dirgli: “Fratello mio, tu ora mi giudichi, ma tra poco sarai tu stesso giudicato da Dio”. Fu profeta perché poco tempo dopo morì.

Dopo cinque settimane, il vegliardo fu trasferito alle carceri di Ou-Tchang-fu, capoluogo della provincia di Hou-Pé, chiuso in una gabbia, stretto da ferri ai piedi, da manette ai polsi e da catene al collo. Durante il percorso, il prigioniero veniva custodito nelle carceri delle città in cui la scorta pernottava. In esse rimaneva esposto alle sevizie dei carcerieri senza che un lamento uscisse dalla sua bocca.

Giunse alla metropoli esausto di forze, ma ebbe la consolazione di trovare in prigione il sacerdote indigeno Chen, con altri cristiani. Da un sacerdote cinese, nascosto nei dintorni, poté ricevere la comunione.

Davanti al giudice diede prova di una carità eroica. Difatti, ogni volta che il grande mandarino ordinava che il sacerdote Chen fosse percosso, egli accorreva e supplicava i secondini di somministrare a lui i colpi destinati al compagno di prigionia.

Il 18-2-1820 fu condannato ad essere appeso ad una croce e morire strangolato perché, insegnando il Vangelo, aveva ingannato e corrotto molte persone. Sopra un palco i carnefici aveva innalzato alcune travi a forma di croce. Il beato le s’inginocchiò davanti, pregò e poi, rialzandosi, disse sereno ai carnefici: “Legatemi”. Le funi, partendo dal collo, gli stringevano le mani dietro la schiena ed i piedi l’uno contro l’altro. Per tre volte i manigoldi tirarono la corda fatale causando al martire dolori indicibili con sbocchi di sangue. Al terzo strattone la sua anima volò al cielo.

Il corpo del giustiziato fu sepolto alle falde della montagna Rossa, dove, vent’anni più tardi, saranno deposte le spoglie mortali del B. Gabriele Perboyre. I resti del P. Clet furono esumati nel 1858 e trasportati a Parigi nella cappella della Congregazione della Missione.

Leone XIII lo beatifico il 7-5-1900.



Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 243-247.

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