B. CESARE de BUS (1544-1607)

È il primo fondatore di una congregazione religiosa, destinata all’insegnamento del catechismo, i cui membri si chiamano Preti della Dottrina Cristiana. Cesare nacque a Cavaillon (Vaucluse) il 3-2-1544, settimo dei tredici figli che Giovanni de Bus, ultimo capostipite di nobile famiglia originaria di Como, alla quale appartenne S. Francesca Romana (1440), ebbe da Anna de March di Castelnuovo in Provenza. In quei tristi tempi, in cui il calvinismo avvelenava tante coscienze, il beato ricevette dai genitori una buona educazione religiosa e civile. Essi, difatti, gli fecero apprendere i primi rudimenti della grammatica alla scuola di un precettore e, a quattordici anni, lo mandarono a proseguire gli studi nel vicino collegio di Avignone. Dopo due anni, a causa delle lotte fratricide, il loro figlio fu costretto a ritornare in famiglia e a proseguire gli studi da solo.

Anche tra i sedici e i diciott’anni Cesare crebbe onesto e pio. La mattina si recava in chiesa ad ascoltare la Messa e, in occasione di feste, non disdegnava di aiutare il sacrestano della cattedrale, Luigi Guyot, nell’addobbare altari e cappelle. I suoi concittadini ne concepirono tanta stima che, malgrado la giovane età, lo ammisero tra i membri dell’antica Confraternita dei Penitenti, di cui divenne anche rettore.


Dal 1562 al 1598 in Francia divampò un’accanita guerra tra ugonotti, capeggiati dalla famiglia dei Borboni, e cattolici, capeggiati dalla famiglia di Guisa, Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II, nell’intento di salvare la dinastia e l’egemonia del regno, si alleò ora con gli uni, ora con gli altri causando eccidi e stragi. Anche Cesare vi prese parte a difesa della patria e della fede. Si arruolò tra le truppe del conte di Tenda, dopo un buona confessione generale, e combatté da valoroso a Dreux in cui furono duramente sconfitti gli ugonotti.


Con la pace di Amboise (1563), il beato riprese gli studi interrotti, dedicandosi con passione alle belle lettere, alla composizione di poesie e di tragedie di cui curò la messa in scena con il contributo di alcuni amici, ma appena scoppiarono di nuovo le ostilità tra cattolici e ugonotti corse a Bourdeaux, dov’era il quartiere generale della controffensiva cattolica, per mettersi alle dipendenze del fratello Alessandro che comandava un vascello da guerra. Mentre stava per salpare contro La Rochelle, roccaforte dei protestanti, cadde gravemente malato. I medici gli consigliarono di ritornare in famiglia dopo che ebbero sperimentato inutilmente i mezzi terapeutici a loro disposizione.


Conclusasi con un insuccesso la spedizione navale contro La Rochelle. Alessandro de Bus ritornò alla corte di Parigi, dove godeva di potenti conoscenze in qualità di capo della guardia del principe e di colonnello di un reggimento. Pensò di chiamare a sé il fratello per condividere con lui fortuna e amici. Cesare accettò l’invito, ma alla corte di Caterina de’ Medici, amante dei piaceri e moralmente spregiudicata, egli, dimentico della propria dignità, non tardò a considerare la vita soltanto come un’ottima occasione per divertirsi.


Per oltre tre anni si diede alla pazza gioia, poi, disgustato della corruzione della corte e delle frustrate speranze nelle ambite promozioni. decise di fare ritorno a Cavaillon. Non lo abbandonò tuttavia la sete del gioco e dei piaceri. Per dare loro libero sfogo, andò ad abitare da solo ad Avignone. Fu ricondotto in famiglia dalla morte del padre e del fratello Luigi, canonico della collegiata di Salon. Fu in questo periodo che Cesare pensò seriamente a tagliare corto con la vita sregolata e a formarsi una famiglia, ma Dio aveva altri disegni su di lui,


Per richiamarlo sul retto sentiero, la Provvidenza si servì di due umili, ma sante persone: Antonietta Reveillade, impiegata in casa de Bus, e Luigi Guyot, chierico e sacrestano della cattedrale. Entrambi pregavano e digiunavano per ottenere che Cesare ritornasse alla pratica dei sacramenti. Antonietta soprattutto non perdeva occasione per rivolgere al traviato cavaliere esortazioni al bene, talvolta anche parole di fuoco, a costo di derisioni e umiliazioni. Un giorno lo affrontò senza timore mentre usciva; lo supplicò a non ostinarsi nel peccato e, offrendogli il Leggendario dei Santi, gli raccomandò di leggerne, ogni giorno, sette righe in onore dei sette dolori della Madonna. Una sera del carnevale 1575 Cesare era in procinto di uscire per recarsi a una festa da ballo, Antonietta lo affrontò e con franchezza gli disse: “Signore, con Dio non si scherza; vi chiama, e voi non l’ascoltate; va di continuo in cerca di voi, e voi di continuo lo fuggite state attento che, stanco al fine, non vi rigetti dalla sua presenza: forse lo ha già fatto! La vostra condotta almeno da argomento di temerlo”.


Cesare, atteggiandosi a uomo forte, uscì ugualmente in strada benché avesse la tempesta nell’anima. Passò davanti a un’edicola della Madonna fiocamente illuminata, la pregò, ripensò ai disordini della propria vita, e capì che era follia resistere agli stimoli della grazia. Ritornò a casa, raccontò piangendo ad Antonietta la decisione presa di mutare vita, e trascorse la notte in preghiera. Il giorno successivo si recò da Luigi Guyot che, per umiltà, non aveva voluto ascendere al sacerdozio, e lo ringraziò delle preghiere e delle penitenze che, con Antonietta, aveva fatto per il suo ravvedimento.


Da quel giorno Cesare, malgrado le beffe e i sarcasmi dei compagni di piacere, riprese a frequentare i sacramenti e a vivere casto. Consigliato dal canonico Francesco Ferrici di fare una buona confessione generale, si recò ad Avignone nel collegio dei Padri Gesuiti, cercò del P. Pietro Péquet che gli era stato indicato come uno dei più dotti e prudenti direttori di spirito, e a lui aprì il proprio cuore. Ritornò a Cavaillon deciso a riacquistare il tempo perduto pregando, studiando, riparando gli scandali dati con la sua vita e con le sue poesie non sempre edificanti. Un giorno di festa non si vergognò neppure di prendere la torcia che Luigi gli offrì, e di accompagnare il sacerdote che portava il viatico a un morente.


Deposta la spada e gli abiti di seta, il beato cominciò a interessarsi dei poveri, dei malati e dei contadini che la sera si recavano con lui a pregare nella cappella di periferia dedicata a Maria SS. della Pietà. Assetato di penitenza, prese a flagellarsi e a digiunare più volte la settimana, a non cibarsi il venerdì che di pane e acqua, e a mescolare gocce di assenzio nei cibi. Di notte non dormiva che poche ore a causa dell’insonnia che aveva contratto con i prolungati digiuni. Ne approfittava per pregare e studiare di più. È tradizione che una volta gli sia apparsa la Madonna sotto le sembianze di Nostra Signora della Pietà.


Dopo tre settimane di esercizi spirituali, trascorse nel collegio dei gesuiti di Avignone, Cesare decise di riprendere, a trentadue anni, gli studi, per poter accedere agli ordini sacri. Il P. Péquet, non volendo che si accomunasse con gli scolari delle prime classi, gli ottenne, dal superiore del collegio, il permesso di potervi dimorare sotto la sua guida come pensionato esterno. Il beato si dedicò allo studio del latino, della S. Scrittura e dei Padri della Chiesa, in modo speciale di S. Bernardo di Chiaravalle, con entusiasmo giovanile. Un giorno, mentre meditava disteso per terra in un angolo della cella, udì una voce che gli disse: “La soavità del divino amore non può gustarsi se prima ogni desiderio terreno e carnale non è del tutto cacciato dal cuore… Se tu desideri acquistare questo divino amore, abbandonati completamente: se tu desideri possedere i tesori che il tempo e la ruggine non consumano, disprezza quelli temporanei e fragili. Se vuoi godere il gaudio eterno rifiuta le delizie del mondo. Abbandona ogni cosa, e possederai l’universo”. In seguito a questa voce Cesare, pensando di essere chiamato alla vita claustrale, cominciò a frequentare la certosa di Villa Nuova in Avignone, ma il P. Péquet lo distolse assicurandogli che il Signore lo chiamava alle fatiche dell’apostolato. Il canonico Ferriol, suo amico, gli consigliò di recarsi a Parigi, per completare gli studi, ma egli gli rispose: “Voi mi consigliate bene, ma sono convinto che la scienza mi farebbe perdere mentre la carità mi conserverà. Voglio essere piuttosto caritativo ignorante, che dotto superbo”.


Mons. Escot, vescovo di Cavaillon, quando seppe dei progressi compiuti dal de Bus nella virtù e negli studi, lo esortò ad accedere agli ordini. Egli stesso gli conferì la tonsura, lo beneficio con un canonicato in cattedrale e, nell’agosto del 1582, lo consacrò sacerdote. Il canonico Ferriol, che lo assistette nella celebrazione della prima messa, attestò che il beato “fu talmente sopraffatto da allegrezza e contento che, in gran copia, senza accorgersene, gli uscivano a guisa di due ruscelli dagli occhi le lacrime”.


Da quel giorno P. Cesare seguitò a celebrare il divino sacrificio con grande devozione, a predicare e a confessare dovunque era richiesto. Pensò persino alla costituzione di una pia confraternita tra ecclesiastici, da porre sotto il patrocinio di S. Bernardo con l’approvazione non soltanto del vescovo, ma anche di Gregorio XIII, che lo nominò primo rettore. Spinto dall’amore per la penitenza e la solitudine, P. Cesare per tre anni fisso la sua dimora nel chiostro della cattedrale. Ai soliti digiuni volle aggiungere l’astinenza dalle carni e dal pesce, e al cilicio che indossava sostituì per sei mesi una maglia di ferro che portava giorno e notte sulla carne nuda. In quel periodo mise mano ad alcune opere letterarie che danno un vivido quadro della sua spiritualità, ma, una acuta infiammazione agli occhi, dovuta alla sua vita di stenti, non gli permise di portarle subito a termine.


Al pensiero dei peccati commessi si levava di buon mattino dal pagliericcio, e, senza nemmeno accendere la lucerna, si distendeva per terra e pregava e meditava a lungo ponendo talvolta delle pietruzze sotto le ginocchia. Di giorno non tralasciava di vistare gli ammalati, di combattere il vizio dal pulpito, nelle pubbliche piazze, nelle stesse case dei nobili, senza temere di farsi dei nemici. Verso il 1584 pensò seriamente a riformare il rilassato convento delle Benedettine di clausura eretto a Cavaillon, a costo di essere considerato uno spirito inquieto, un amatore di novità, un ambizioso. Per distogliere le folle dai divertimenti sfrenati del carnevale allestì all’aperto spettacoli teatrali a soggetto sacro e il dramma della Passione.


Considerando quanto fosse trascurato dal clero l’insegnamento della dottrina cristiana a quei tempi, il P. Cesare si mise a percorrere le vie di Cavaillon per raccogliere attorno a sé i bambini al suono di un campanello, condurli in cattedrale e fare loro il catechismo. Al termine delle lezioni li dirigeva nei giuochi in piazza e insegnava loro a cantare le allegre canzoni che lui stesso aveva composto. In quest’opera di evangelizzazione si unirono a lui alcuni sacerdoti della diocesi tra i quali figurava Giovanni Battista di Romillon, canonico della collegiata di Isle e suo lontano parente. I frutti che il beato ricavava dalle fatiche apostoliche mossero il nuovo vescovo di Cavaillon, Mons. Pompeo Roch, ad invitarlo a predicare in cattedrale nel prossimo avvento e nella quaresima del 1586. P. Cesare vi si dedicò con tanto zelo che ne riportò un grave esaurimento. Costretto al più assoluto riposo, occupò il suo tempo nella casa paterna a intrecciare corone del rosario e a costruire piccole croci di legno da regalare ai bambini del catechismo.


Rimessosi alquanto in salute, il beato fece restaurare, a proprie spese, una cappella campestre dedicata ai SS. Giacomo e Filippo, con annesso romitorio, che sorgeva sul monte prospicente Cavaillon, quindi vi si ritirò a pregare e a meditare. Per facilitarne ai pellegrini l’accesso, fece costruire nella viva roccia una lunga scalinata interrotta ogni tanto da una stazione raffigurante i dolori di Nostro Signore. Durante la quaresima, tutti i pomeriggi, alle ore sedici, il vescovo, seguito dalle autorità cittadine, saliva al romitorio in processione per lucrare le indulgenze che Sisto V, a tale scopo, aveva concesso. Il beato per circa quattro anni non scese dal romitorio che per andare a predicare in qualche villaggio. Soltanto durante le lotte che ripresero furibonde tra cattolici e ugonotti per la successione al trono di Francia dopo la morte di Enrico III (+1589), egli scese tutte le sere dal romitorio per guidare a piedi nudi la processione di penitenza che si snodava al canto delle Litanie dei Santi per le vie di Cavaillon. Il pio esercizio durò per ben tre mesi, fino a tanto cioè che la Francia ebbe un nuovo re nella persona di Enrico IV. A causa della guerra civile che ancora desolava la Provenza, nel 1591 il beato fu costretto a trasferirsi per sei mesi ad Avignone, in qualità di cappellano delle monache di S. Chiara, poi ritornò ad abitare nel chiostro della cattedrale. Godendo fama di buon predicatore per l’elevatezza di pensiero e la vivacità della parola, fu invitato a predicare anche fuori diocesi. Sono rimaste famose la quaresima che predicò a Grange, roccaforte degli ugonotti, e le missioni che tenne con il canonico G. B. Romillon nel Vivarese per le conversioni che operò.


Da anni il P. Cesare de Bus pensava di raccogliere attorno a sé zelanti sacerdoti disposti a faticare nella spiegazione della dottrina cristiana ad ogni ceto di persone. Nel 1585, dopo la lettura della vita di S. Carlo Borromeo, inviatagli dall’amico Mons. Canigiani, vescovo di Aix, gli scrisse: “Vi assicuro che leggendola sono restato talmente fuori di me che, acceso da un sì grande desiderio di fare qualche cosa a sua imitazione, ho stabilito non concedere sonno agli occhi miei, ne risposo ai miei giorni finché non abbia soddisfatto in qualche modo questa mia risoluzione”. Mons. Bordini, vescovo di Cavaillon, non esitò ad approvare i progetti del P. de Bus il quale, il 29-9-1592, radunò a Isle alcuni sacerdoti disposti a seguirlo per esporre loro il programma di azione. La prima casa dei Dottrinari sorse ad Avignone nel monastero di S. Prassede (1593) con il permesso dell’arcivescovo Mons. Francesco Tarugi, discepolo di S. Filippo Neri (fl595), e l’approvazione di Clemente VIII (1597). Il fondatore ebbe così modo di praticare il metodo didattico che aveva escogitato, di insegnare cioè la dottrina piccola, la mezzana e la grande secondo l’età e la preparazione dell’uditorio. Nel 1592, con l’aiuto della nipote, Cassandra de Bus, gettò a Isle anche le basi delle figlie della Dottrina Cristiana per l’istruzione e l’educazione delle bambine.


Ogni giorno P. Cesare chiedeva a Dio generose vocazioni. Più volte fu inteso dire: “Sarei disposto vedere le mie membra tagliate in minuti pezzi se da questi nascessero tanti Dottrinari”. A quanti lo seguirono egli fu padre, maestro e amico, benché, a causa del persistente arrossamento degli occhi, fosse oramai diventato cieco. Spiacente soltanto di non poter più celebrare la Messa, anziché affliggersene, consolava coloro che lo commiseravano, A un amico confidò; “Quanto sono obbligato a Dio! Mi priva interamente della vista perché non possa più vedere la vanità! Il mondo ne è tutto pieno, io lo vedevo e non lo conoscevo, ora che più non lo vedo, comincio a conoscerlo”.


Come se nulla fosse accaduto, fino alla morte, per circa quattordici anni, il beato continuò a spiegare il catechismo secondo il suo metodo, a confessare e a predicare dovunque lo chiamavano, a dirigere la sua piccola comunità di cui fu eletto superiore generale il 2-7-1598. Non gli mancarono contrarietà, critiche al suo metodo catechistico, ritenuto troppo simile a quello già usato dai calvinisti per la propagazione dei loro errori nelle campagne, ma egli non si scoraggiò. A due suoi Padri, ai quali era stato interdetto l’accesso a un ospedale, disse: “Coraggio, noi non siamo ancora conosciuti; attendiamo il tempo segnato da Dio, tempo felice; allora molti soggetti verranno da vicino e da lontano, la congregazione si moltiplicherà, e scenderà su di essa la benedizione di Dio. E’ necessario aspettare con umiltà e con pazienza; non stiamo in pena, ho già veduto il bel giorno della nostra gloria, ma questo non sorgerà durante la mia vita”. Il fondatore fu persino costretto a scendere nelle aule dei tribunali per gl’intrighi di alcune persone che gli volevano togliere il monastero di San Giovanni il Vecchio in cui aveva trasferito la sua comunità, ma la S. Sede il 30-8-1600 ne difese i diritti. In mezzo a tante sofferenze il beato non faceva altro che pregare e ripetere ad alta voce: “Siano pure senza luce gli occhi, piena di dolori la vita: la croce sarà la mia gioia, la croce sarà la mia luce”.


P. Cesare non ha formulato un corpo di regole per la sua congregazione. Da tutti i membri esigeva spirito di abnegazione, di umiltà e di carità. Non essendo legati da alcun voto, il fondatore, per la stabilità dell’Istituto, volle introdurre tra i Dottrinari quello di obbedienza. Alcuni di loro, capeggiati dal P. G. B. Romillon, non ne vollero sapere. Si separarono e in seguito si unirono agli Oratoriani di Francia. Il beato disse ai rimasti con la sua solita franchezza: “Non vi fate tenere per forza, se così a voi piace, ritiratevi anche voi. Non in voi, ma in Dio solo confido che, avendomi spinto a fondare questa congregazione, m’invierà degli opportuni operai quando sarà tempo. Se Egli vuole che io rimanga solo, anche solo sarò felice, perché non voglio se non quello che vuole il Signore”.


I Dottrinari ripresero a fiorire quando, nel 1606, il fondatore fu colpito oltre che dalla podagra, anche da una grave forma di idropisia acquosa che gli cagionava un’arsura inestinguibile. Non potendo più scendere in chiesa confidò a chi l’assisteva: “Sono contentissimo e non cambierei il presente mio stato con quello di alcuna creatura del mondo; che, se Dio mi offrisse la scelta di continuare a sostenere questo presente fardello o di esserne liberato, rinunzierei a questa libertà, perché non voglio null’altro che la sua volontà , anzi se egli vuole tenermi in questa sofferenza fino al giorno del giudizio, io sarò ugualmente molto felice”. Dio permise che anche il demonio sfogasse la sua rabbia contro il beato. Più volte, difatti, fu trovato privo di sensi, sbalzato da letto e selvaggiamente pesto in tutto il corpo.


Il 1-4-1607, dopo aver ricevuto la comunione, l’infermo disse che sarebbe morto il giorno di Pasqua. Dispose quindi che al suo posto fosse eletto un nuovo superiore generale perché voleva esalare il suo ultimo respiro sotto l’ubbidienza. Come aveva predetto morì il 15-4-1607 e fu sepolto in San Giovanni il Vecchio. Nel 1836 i suoi resti mortali furono traslati a Roma e posti in Santa Maria in Monticelli, sede della casa generalizzata della congregazione. Paolo VI lo beatificò il 27-4-1975.


 





Sac. Guido Pettinati SSP,


I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 197-205.


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