“Antimoderno” pedagogico (I)

“Se l’educazione cristiana, pur impartita in ottimi istituti e da eccellenti maestri, non appare così vigorosa ed effettuale qual si desidererebbe, ciò si deve al fatto che l’educazione e l’istruzione non sono concepite a fondo e coerentemente da un punto di vista filosofico e teologico cristiano moderno”.

di MARIO CASOTTI
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Forse nulla definisce tanto bene il carattere del quarto Convegno di Scholè, Centro di studi fra Docenti universitari cristiana e, insieme, una tipica fisionomia della pedagogia italiana, come il fatto che, avendo un tema apparentemente circoscritto e quasi “sperimentalista” come i rapporti fra metodologia e didattica, le trattazioni e la discussione siano finite in alta metafisica.
La cosa a me ha fatto molto piacere, non solo per una mia vecchia e radicale persuasione, più volte da me sostenuta: chi cioè, non vi siano mai questioni così “pratiche” attuali ed “operanti “, specie nel campo dell’educazione, come le questioni teoretiche: ma anche perché la discussione medesima ha riconfermato che l’efficienza od inefficienza dell’educazione in genere, e dell’educazione cristiana in specie, anche sul terreno metodologico e didattico, è relativa all’esattezza colla quale si definiscono e si tengono presenti gli universali principi dell’educazione stessa.
Se, per addurre un esempio che qua e là affiorò, pur in sordina, nel corso del convegno, l’educazione cristiana, pur impartita in ottimi istituti e da eccellenti maestri, non appare così vigorosa ed effettuale qual si desidererebbe, ciò non si deve già (come taluno ingenuamente crede) al fatto che si ignorino le ultime “novità” della metodologia attivistica moderna, o della psicologia sperimentale (benché, certo, anche queste un educatore debba preoccuparsi di conoscere), bensì all’altro fatto, assai più grave, che l’educazione e l’istruzione non sono concepite a fondo e coerentemente da un punto di vista filosofico e teologico cristiano. Che se davvero lo fossero, anche tutta la metodologia e la didattica ne risentirebbero, e si avrebbe un “attivismo” pedagogico il quale, pur non sdegnando certo di prendere quanto c’è di buono nell’attivismo pedagogico “laico” e nelle scienze ausiliari dell’educazione, se lo assimilerebbe da un punto di vista superiore e secondo proprie direttive (1).

MEDITARE SUI PRINCIPI
D’accordo che ciò non si può interpretare in alcun modo come un biasimo rivolto ai suddetti istituti e maestri, i quali sono costretti ad agire in condizioni difficilissime, certo non da loro poste, né volute: cioè in mezzo a programmi, orari, prescrizioni, che lasciano loro scarsissima libertà. Ma adesso non è questa la questione, che, del resto, noi non avremmo davvero l’autorità necessaria per trattare, bensì una questione molto più generale e comune. Come in ascetica si sa che il cristiano il quale non medita quotidianamente sui “principi” della religione, rischia d’intiepidirsi, indebolirsi e, col tempo, diventare solo una buccia esterna di cristiano, entro la quale vive un’anima puramente laicista e pagana; cosi dovrebbe esser noto in pedagogia che l’educatore cristiano il quale non medita assiduamente sui “principi” dell’educazione, e dell’educazione cristiana in specie, rischia di trasformarsi in un semplice “distributore” di lezioni, e di lezioni che nessuno saprebbe più distinguere da quelle di un insegnante razionalista o laicista.
Qui a nessuno è lecito prendere un atteggiamento negativo. Come dire: “oh, io, intorno all’educazione cristiana ne so già abbastanza!”. Ciò parrebbe tanto inconcepibile come il buon fedele che dicesse: “oh, io sono già perfetto e santo abbastanza! non statemi, dunque, più a parlare di meditazione, d’esami, ecc. Questa roba non fa più per me!”. L’atteggiamento normale e sano, sia filosoficamente che teologicamente, è, invece, e ognuno lo sa, l’opposto. E’ il dire a se stesso: “oh, io queste cose non le so e non le ho mai sapute abbastanza! ho bisogno di approfondirle ogni giorno”. E’ l’atteggiamento del buon cristiano e del santo che, come Francesco d’Assisi, al termine della sua vita incitava sé e i suoi a “cominciare” e fare finalmente qualche cosa, perché usque nunc parum profecimus.
Ed è anche, sul terreno della pura ragion naturale, l’atteggiamento umile del vero scienziato e sapiente, il quale, dopo una vita spesa negli studi, geme sulla sua ignoranza, scoprendo quanto più vasta sia la sfera di ciò che gli resta da conoscere, rispetto a quella del poco che ha conosciuto.
Con questo discorso non si vuol già ricondurre la pedagogia ad un “filosofismo” da noi altre volte criticato, o alla posizione di Giovanni Gentile, d’una identificazione, sia pur dialettica, fra filosofia e pedagogia. Ma, se mai, richiamare solo l’aspetto vivo e fecondo d’una tal posizione. Aspetto che il Gentile medesimo soleva mettere in luce allorché, difendendosi dalle accuse rivoltogli di “panlogismo” o “panfilosofismo”, diceva che il suo proposito nell’affermare quella identità era stato non già di voler sopprimere la pedagogia, bensì di sottrarre l’educazione e la teoria della educazione dalle mani di naturalisti, medici, psicologi sperimentalisti ed altri “specialisti” che le avevano afflitte e sconciate durante il periodo del vecchio positivismo. Di fronte a costoro il filosofo, come colui che conosce e vive i valori universali dello spirito e si ancora ai principi supremi della realtà, gli pareva l’unico competente, cui ci si potesse rivolgere per salvare l’educazione dal frammentarismo atomistico ed enciclopedico che la minacciava, e darne un vero concetto che la ristabilisse nella sua unità ed umanità.

LA PEDAGOGIA COME SCIENZA FILOSOFICA
La difesa valeva quel che valeva nella logica del sistema gentiliano: ma senza dubbio segnalava una condizione e dell’educazione e della pedagogia la quale appare molto interessante, poiché non è propria solo del vecchio positivismo: ma oggi si riproduce, sotto l’influsso dei vari pragmatismi, scientismi, naturalismi, materialismi contemporanei. E si riproduce proprio nella forma dal Gentile denunciata. Gli “specialisti” si annettono l’educazione.
Sarà l’igienista, o il famoso medico americano, o il celebre scienziato. o lo psicologo di turno sulle pagine dei rotocalchi, o il direttore del rotocalco medesimo, o l’illustre sociologo: nella estimazione d’un pubblico sempre più vasto, i veri “competenti” in educazione sono costoro. Né ciò rimane senza effetto anche presso gli studiosi e cultori qualificati di pedagogia. I quali di fronte a tale atteggiamento, finiscono, quasi subcoscientemente, coll’identificare questa serie di specialisti, coll’anima della pedagogia “moderna”, e col credersi, in conseguenza, “antiquati” o superati se non si mettono anche loro al corrente, improvvisandosi un po’ psicologi, igienisti, ecc. e non introducono nella loro disciplina un pizzico di tutte quelle scienze. E siccome in esse non sono, né possono essere preparati, accade loro non solo di far talvolta, una… cattiva figura; ma, quel ch’è peggio, di assorbirne i concetti pseudofilosofici che quegli scienziati spesso sogliono usare. Onde la più inattesa comparsa, anche in sistemi pedagogici che dovrebbero avere, come quelli dei pedagogisti cristiani, tutt’altra e ben più “classica” configurazione, di concetti “decadenti”, ossia arieggianti il pragmatismo, il positivismo, il naturalismo, ecc., ecc.
Di qui la necessità di riportare il “filosofo” al posto indicato dal Gentile, cioè non già nel senso in cui la pedagogia debba sparire nella filosofia, ma piuttosto nel senso in cui la pedagogia filosofica (e teologica) deve dirigere l’educazione: o, per dir meglio, nel senso in cui la pedagogia deve costituirsi come scienza filosofica (e teologica) essa medesima. Pur senza cessare d’essere scienza pratica, anzi poietica: che, come sappiamo fin da Aristotele, anche una scienza pratica o poietica può essere filosofica, se considera il suo oggetto alla luce dell’universale sommo o trascendentale, cioè alla luce dell'”ente in quanto ente”. E tale appunto è il caso della scienza poietica educativa, in cui il processo dell’educazione consiste proprio nel mettere il soggetto educando, per opera del soggetto educatore, in una determinata relazione coll’Essere.
Perciò non fummo, crediamo, male ispirati, quando, riprendendo questa Rivista le sue pubblicazioni nel dopoguerra, ne aprimmo la nuova serie con una discussione sul “carattere della pedagogia” (2). La cosa ci veniva in mente nell’osservare che, durante il recente convegno di Scholè, riaffioravano le medesime questioni allora da noi trattate, e, spesso, per bocca di quegli stessi egregi studiosi che già avevano preso parte a quella discussione: il Catalfamo, il Baroni, gli amici del Pontificio Ateneo Salesiano. Prova che, dunque, quella non era stata una diatriba a carattere bizantino intrapresa per il gusto di spaccare il capello in quattro, se ora, a distanza di qualche anno mostrava d’aver dato i suoi frutti nell’impostazione più vigorosa e costruttiva che il problema aveva preso nella mente dei partecipanti. E, soprattutto, appariva conseguito l’obiettivo fondamentale: sottrarre la pedagogia all’atomismo delle varie “scienze ausiliarie” e riportarla alla sua unità, in modo che non più il medico o il sociologo o lo psicologo o il naturalista, ma il filosofo, ossia il pedagogista e l’educatore ne tornassero al centro. Il fatto che la discussione, nel convegno, mossa dalla didattica, approdasse spontaneamente alla filosofia, ne era la prova più convincente.
Ma i convegni, anche se ben riusciti come il nostro, sono simili alle meteore che risplendono un momento, e passano. Perciò ho pensato che non sarebbe male, adesso, fissare qualche punto sulla carta.
Perché, ad esempio, non riprendere quella via che ci si rivelò già così utile allorché iniziammo la nuova serie della nostra Rivista, e continuare la discussione sulle sue pagine? Con questo intento io, ora, metto giù alcune riflessioni, ben lieto se saranno raccolte e, magari, energicamente contraddette da alcuno dei nostri egregi amici. Non mi credo punto infallibile: anzi, come… Socrate, conosco la mia ignoranza e discuto, non per dogmatizzare, ma per imparare.
Sia chiaro, dunque, che io non faccio adesso una cronaca del Convegno tenuto da Scholè lo scorso settembre, ma solo espongo dei problemi ch’esso mi ha fatto nascere, e dei dubbi che vorrei chiarire. In parte, è questo un “supplemento” di discussione: soprattutto provocato da alcune obiezioni rivolte alla mia comunicazione e al mio successivo intervento: obiezioni alle quali, data la ristrettezza del tempo, non ebbi modo di rispondere. Non è mio intento, perciò, esporre il contenuto delle varie relazioni, comunicazioni e successivi interventi, ne’ dar per ordine i nomi dei loro autori; e anche quando mi riferisco al loro pensiero lo faccio con massima libertà, cioè, guardando a posizioni e indirizzi generali ivi implicati, e non a individui. In sostanza, io cercherò di segnalare solo i punti fondamentali su cui, mi sembra, il convegno ha aperto la discussione.

IL “MODERNISMO” PEDAGOGICO
Anzitutto il modernismo. Si badi bene: non quello religioso, del quale qui non è traccia, ne’ questioni: sibbene il modernismo pedagogico. Nella giusta e scientifica sollecitudine di tenere presente la pedagogia moderna ed evitare l’accusa di arretrati o insensibili alla problematica pedagogia contemporanea, si sono formate qua e là, durante il convegno, delle tesi che lasciano molto perplessi; perché, concesso un dito al naturalismo pedagogico contemporaneo, vi lasciano tirare dietro la mano, il braccio e ogni cosa.
E’, ad esempio, caratteristica odierna ben nota delle correnti pedagogiche naturalistiche e pragmatistiche, nonché “immanentistiche” in generale, l’affermazione di un esagerato “personalismo puerocentrico”: ossia l’affermazione che l’educazione non può consistere in altro che nella formazione o maturazione della personalità nel discepolo. Conseguenza è la negazione dell’educazione da loro detta “antica”, ossia dell’educazione come “istituzione”, per cui lo scolaro si indirizza e si plasma secondo un contenuto culturale già esistente e “preformato”. E, partendo da tali presupposti filosofici, ciò è perfettamente logico. Si capisce che, se non esiste una Verità e tutto si riduce al pensiero individuale del soggetto umano, assurdo è parlare di “istituzione” secondo tale verità, e resta solo da curare lo sviluppo dell’individuo come unico obiettivo possibile dell’educazione.
Ma tale posizione, oltreché inammissibile per chi filosofi nella linea della grande filosofia classica platonico-aristotelico-scolastica, è in se stessa assurda e contraddittoria. Questi pedagogisti i quali inorridiscono al pensiero di “plasmare” lo scolaro secondo una “cultura prefissata”, non si accorgono che anch’essi lo “plasmano” e secondo “una cultura prefissata”: in quanto lo vogliono plasmare precisamente secondo il modello pragmatista e naturalista. Anziché secondo Platone o S. Tommaso, lo plasmano secondo Dewey o Decroly; anziché secondo la religione e il cristianesimo, lo plasmano secondo una religione liberalistica, o massonica, o totalitaria o d’altro genere simile.
Ora, con molta meraviglia durante il nostro convegno si sono sentiti alcuni plaudire alla suddetta “rivoluzione copernicana” o puerocentrica, e scagliarsi ferocemente contro l'”educazione antica”, facendo consistere l’educazione nella “processualità” o nella “progressiva maturazione” della personalità educanda. Termini che, senza dubbio, potranno essere chiariti, e lo saranno, nell’intenzione di chi li usò in senso accettabilissimo, ma che, lì per lì, sembrano solo altri nomi del “divenire” idealistico. Molto spiritosamente, il relatore Petruzzellis disse che il pensiero contemporaneo è “dominato dalla paura del presupposto” e osservò che questa paura è giustificata solo se si tratta di presupposti “arbitrari”, non già di presupposti logici e necessari, dei quali nessuno ha mai potuto fare a meno.
Parlavamo del “divenire” idealistico? Ma ci sbagliavamo; poiché l’idealismo, almeno quello italiano e gentiliano, è sempre una concezione molto superiore al pragmatismo naturalistico; è, almeno, un’ideologia (logicamente) pulita, mentre l’altra è un’ideologia torbida e sporca. L’idealismo ammette dei valori universali, delle categorie secondo cui l’educando dev’essere plasmato, perché il suo individuo “empirico” muoia e rinasca nell’autocoscienza dell’“io” trascendentale: ammette, dunque, l’educazione come “istituzione” (visto che lo spirito e le categorie lo scolaro non li ha inventati ne “creati” lui, ma deve “presupporli”). Dirò più: l’idealismo ammette anche l’educazione come “imitazione”, poiché, nella parte ragionevole del suo storicismo, asserisce che l’individuo-scolaro empirico assurge al trascendentale solo ripercorrendo lo sviluppo storico-dialettico dello spirito umano, dal mondo greco e romano fino ad oggi cioè assumendo un contenuto di cultura ben preciso e definito: onde 1’umanesimo classico della sua didattica. (Il ripensare e rivivere questo mondo è eguale, per l’idealismo, al “pensare” e “vivere” originalmente: l'”imitazione”, dunque, non è cosa stupida e meccanica, ma coincide colla produzione originale).

NON E’ POSSIBILE PRESCINDERE DAI “PRINCIPI PRIMI”
In tal senso l’idealismo era molto più vicino alla scolastica e alla filosofia perenne, del pragmatismo o soggettivismo empirico
Lo provava quel suo continuo ed energico insistere su questi valori spirituali che sono al di fuori del tempo e dello spazio, e non mutano né possono mutare, poiché, anzi, sono la condizione stessa d’ogni possibile divenire: quindi anche d’ogni educazione. Valori che, poi, sostanzialmente coincidono con quei “principi primi” spiegati da S. Tommaso nel suo De magistro, appunto come condizione di ogni insegnamento. Eh sì, perché, chiamateli “forme” o “categorie” dello spirito come nel Croce o nel Gentile o in tutto l’idealismo postkantiano, e fatene quattro o tre o due, o altrimenti concepiteli e mascherateli, il fatto è che nessuna filosofia può abolirli salvo l’estremo empirismo e materialismo. Il quale, poi, contraddicendosi, è costretto a riammetterli sotto altro nome, trasformando ad es. la “materia”, la “natura”, il “fatto”, il “fenomeno”, l'”evoluzione”, ecc. in principi primi dei quali continuamente si serve.
E comunque si mascherino essi non posson mai nascondere del tutto la loro origine e, in fondo, la loro coincidenza, più o meno velata, coi “principi primi” della filosofia classica aristotelico-scolastica. Sono sempre i “trascendentali”: l’essere od ente, il vero, il buono: l’essere definito come materia o come spirito, come io o come natura; il vero, la ragion teoretica kantiana, o le forme crociane della conoscenza; il buono, la ragion pratica e le forme pratiche dello spirito; l’uno, smoderatamente adoperato dall’idealismo come dal materialismo, fino a produrre un monismo filosofico assoluto.
E lo stesso esistenzialismo odierno, che vuol essere così estremamente anti-universale o anti-categorico, non è tutto fondato sull’analisi dell’essere e sui rapporti fra essenza ed esistenza?
Nè potrebbe essere altrimenti. Fin da Aristotele si sa che sarebbe impossibile non pure intendersi fra gli uomini, ma persino parlare se nelle menti di tutti non sussistessero alcuni concetti sommamente universali, eguali per tutti e che il dotto come l’indotto, il greco come il barbaro, il ragazzo come l’adulto, posseggono, benché in grado diverso d’elaborazione e di chiarezza. Concetti che, già per il realismo aristotelico, coincidono poi coi caratteri supremi e fondamentali della realtà: per modo che l’ente da noi pensato è l’ente in se stesso, e così il vero e il buono: ma ora non dobbiamo sviluppare qui una gnoseologia od una metafisica.
Comunque, è già implicito in essi, che questi “principi primi”, se hanno valore teoretico come vero, hanno valore pratico come buono; si che non sono sole curiosità speculative, ma principi coi quali si regola anche la vita umana e su cui si l’onda la morale: per modo che tutti gli uomini si possano intendere fra loro non solo teoreticamente, ma anche praticamente nel distinguere il bene dal male, le azioni buone dalle cattive. E hanno valore anche nell’educazione (e torniamo a S. Tommaso) poiché, come sarebbe possibile la educazione se nella mente dello scolaro come in quella del maestro non sussistessero appunto questi medesimi concetti universali eguali?
Il maestro parlerebbe un linguaggio che lo scolaro non intenderebbe.
L’educazione è, invece, reale e possibile, proprio perché lo scolaro avendo nella sua mente i medesimi concetti o principi primi del maestro, ma in stato di molto meno avanzata elaborazione, il maestro lo può sollecitare a svolgerli fino a portarli allo stesso, o simile grado d’elaborazione in cui li possiede lui: cioè appoggiandosi su quel tanto che di quei principi è già “noto” allo scolaro, può portarlo anche a ciò che di essi gli è ancora “ignoto”. Cioè quell’ente, quel vero, quel buono che sono nella mente dello scolaro in stato ancora germinale e incoativo, il maestro dirige verso una piena e articolata conoscenza dell’essere, del vero, del buono; ossia a una cultura teoretica e pratica sviluppata (più o meno secondo l’età e il grado degli studi richiesti).
E ciò è vero non solo per S. Tommaso, ma per ogni pedagogia filosofica pensabile. Perché anche l’idealismo deve ammettere che lo scolaro ha, come il maestro, coscienza dello spirito e dei suoi valori, solo, non ancora sviluppata, e che il maestro poi trae alla piena autocoscienza; e anche il materialismo deve concedere che lo scolaro ha coscienza della materia o della natura, benché non ancora sviluppata e il maestro poi lo trae a una coscienza sviluppata per cui si sente consapevolmente parte della materia, cellula della natura o dello stato. E, per tutti e due, lo spirito o la materia sono, appunto, 1’ente, l’uno, il vero, il buono.
Si possono fare delle obiezioni a questa teoria dei “principi primi”? Sempre si possono fare obiezioni, ed è canone della neoscolastica, da noi indegnamente rappresentata, come della scolastica, e ce l’insegnò S. Tommaso, discutere le obiezioni.

FUNZIONE DEI PRINCIPI IN EDUCAZIONE
Tanto più che in educazione (altro punto importante emerso nel convegno di Scholè) ci si è regolati, per secoli, appunto sui “principi primi”. L’educatore spregiato come “antico” aveva, infatti, e oggettivamente e soggettivamente, la via segnata dai “principi”.
Oggettivamente: poiché sapeva che il fine dell’educazione era portare lo scolaro alla conoscenza dell’Essere Assoluto, Dio, ed alla sua amorosa subordinazione ad esso. Soggettivamente: poiché sapeva la natura umana dello scolaro simile alla sua propria: perciò tale che il vero ed il buono costituivano le sue tendenze o “interessi” fondamentali: e, dunque, qualunque insegnamento, purché avesse i caratteri del vero e del buono, doveva capirlo. In pratica poi era molto aiutato dalla rivelazione religiosa, sia pure in quelle parti di essa che sono di rivelazione solo “formale” e non “materiale” come dicono i teologi, cioè in quelle parti che coincidono coi dettami della ragione naturale: ad esempio nel decalogo mosaico, che è una vera miniera di principi primi pratici ove si delineano i doveri dell’uomo verso Dio come verso il prossimo. Qui si tracciava un sicuro binario che gli educatori hanno sempre seguito.
Obiezione che fu fatta con spirito, direi, socratico e ben mostrandosi conscio della risposta relativa dal caro collega D’Arcais.
Ma i “principi” possono mutare, e non esser più oggi quelli che erano ieri o tanti anni fa. Risposta. Eh, se i principi mutassero, non si potrebbero più fare convegni come quelli di Scholè od altri: ne’ sarebbe possibile l’educazione, ne’ il discutere sull’educazione: che se, nelle menti dei convegnisti, come in quelle di tutti i filosofi, pedagogisti ed educatori non sussistessero questi medesimi concetti universali eguali e immutati, daccapo, non sarebbe possibile intendersi, nemmeno per dissentire, ma nessuno capirebbe il linguaggio dell’altro: torneremmo alla torre di Babele.
E poi, a questi principi primi immutabili, nessuno rinuncia neanche i loro critici “modernisti”. Per loro saranno principi primi l'”esperienza”. il “soggetto”, il “fanciullo”, la “libertà”, ecc. ecc…. ma sempre principi primi e immutabili sono: tanto è vero ch’essi rimproverano la pedagogia “antica” di non averli conosciuti. Che se mutassero, il rimprovero o la critica non avrebbero senso: in che errerebbe la pedagogia antica, se ha conosciuto i principi nello stato in cui erano allora? Oggi sono mutati, e li conosciamo così: ieri erano diversi e si sono conosciuti diversamente e tutti pari! Pedagogia antica e pedagogia moderna diverrebbero due mondi fra loro incommensurabili: anzi, a rigor di termini, con questi nuovi e mutati principi nella testa, noi non potremmo nemmeno conoscere la pedagogia antica, che parlerebbe, per noi, un linguaggio incomprensibile, come resta (nonostante gli sforzi degli studiosi) ancora per noi quello degli antichi Etruschi.
Seconda obiezione. Ma – è stato detto da uno dei nostri illustri amici stranieri, il P, Gillet – è poi possibile sbagliarsi: 1. nel proclamare “principi” quelli che non lo sono; 2. nell’applicare male quelli che effettivamente lo siano. – Risposta. Certo, è possibile, e appunto per evitare ciò costruiamo e applichiamo la pedagogia. Ma, adducere inconvenientem non est solvere argumentum. Se ovunque è possibile sbagliarsi si rinunciasse a costruire una scienza, nessuna delle scienze umane sarebbe mai nata! Come esempio, poi, di sbaglio, il P. Gillet addusse la persuasione della vecchia pedagogia che bisognasse “punir physiquement les enfants”, ossia, in termini poveri, il vecchio uso della verga.
Bene. Anzitutto qui l’errore sarebbe della seconda specie e non della prima: sarebbe, cioè, errore per l’applicazione sbagliata d’un ovvio principio. Questo: che il fanciullo si guida, nella sua educazione morale, ricorrendo agli stimoli del “piacere” e del “dolore” sensibili, specie nell’età in cui non si può guidare altrimenti. perché è ancora incapace di ragionare. Tutti i castighi sono, in qualche modo, “fisici”, ossia dolorosi anche per il corpo, visto che sull’uomo, essere composto di corpo e spirito, non si può agire che attraverso il corpo. Ma, dato e non concesso che fosse anche errore della prima specie, che perciò? Se ne dedurrebbe che, dunque, bisogna stare molto attenti nella formulazione dei “principi” e dedicarvi un accurato studio in pedagogia: ed è appunto ciò che noi sosteniamo! E a questo non si rimedia se non con una buona pedagogia filosofica e teologica: non certo con quel tritume di nozioni medico-psicologico-sociologiche che alcuni, oggi, gabellano per pedagogia!
Ma il discorso è già andato troppo per le lunghe, e lo fermo qui, salvo a riprenderlo un’altra volta: ben lieto se, nel frattempo, qualche nostro amico avrà raccolto l’invito e sarà entrato, lancia in resta, nel nostro cortese torneo.

Prof. Mario Casotti


Note
(1) E’ da notare che, oltre alle cause contingenti o ambientali che rendono oggi difficile un’educazione cristiana, v’è anche una causa generale ineliminabile di difficoltà. Ed è che l’educazione cristiana, implicando l’elevazione del soggetto educando a un ordine soprannaturale che, dopo il peccato originale, contrasta sempre, più o meno, colle tendenze paramento naturali dell’uomo, resta sempre, in questa vita terrena, qualcosa di “artificiale”. I santi medesimi debbono, fino all’ultimo giorno della loro vita, combattere una durissima battaglia per ricostruire dentro di sé il modello del Cristo.
(2) I risultati, o, almeno, alcuni risultati di quella nostra discussione furono da me raccolti nel mio volume: Esiste la pedagogia? (“La Scuola”, Brescia 1953).