8.a) Gli economisti e la legge piemontese sopra l’usura. (I)

di LUIGI TAPARELLI D\’AZEGLIO «La Civiltà Cattolica», 1856, a. 7, Serie III, vol. I, pp. 358-385. §. I. L\’attribuire l\’interesse ai prestiti è ella necessità sociale?

Gradirà, speriamo, ogni savio lettore che avendo a trattare secondo la promessa fattane, i principii cattolici delle materie economiche, presentiamo di mano in mano quelli che prendono maggior vita dalle vicende sociali. E però a secondare questo presunto loro desiderio, ecco poche parole intorno agli economisti in materia di usura.
Ma possiamo noi presumere ugualmente che riesca gradito il vedere a simili materie intrecciato alcuna volta il dialogo? Uomini dotti e di scienza severa, ce ne fecero già qualche rimprovero. Ma se sapessero quali istanze contrarie ci vengono d\’altronde; se riflettessero che un periodico è libro più di salotto che di scuola; che gli uomini gravi e serii son pochi rispetto ai leggieri ed allegri; ci condonerebbero, ne siam certi, l\’usare verso i secondi per vantaggio della società qualche indulgenza. Tanto più questa volta che il dialogo entra piuttosto come un\’abbreviatura, per non dover ripetere continuamente, l\’avversario obbietta e noi rispondiamo. Introdotto il professore a favellare, e per lo più colle proprie sue parole, non può rimanere in dubbio qual sia la nostra dottrina: e compendiata poi questa in brevi formole nell\’epilogo finale, si presenterà speriamo in quella stessa chiarezza che potrebbe risplendere se assumesse le forme di un trattato.

§. I.  L\’attribuire l\’interesse ai prestiti è ella necessità sociale?

SOMMARIO

1. Proposizione della legge De Foresta. – 2. Principii sui quali si appoggia. – 3. Il 1° nell\’universalità è falso. – 4. Ristretto all\’epoca presente può accettarsi – 5. per la dilatazione dei commerci. – 6. Donde un nuovo titolo di legittimo interesse – 7. non disdetto dalla Chiesa. – 8. Il ministro si oppone a questo direttamente. – 9. Effetto del principio eterodosso. – 10. Apoteosi della natura corrotta e delle sue passioni individuali – 11. e politiche. – 12. In tal principio l\’usura è libertà. – 13. L\’individuo s\’immola al Dio-Stato. – 14. Epilogo.

1. Mancava questo, patria mia infelice, alle tue tante sventure che i famosi promotori dei diritti del popolo, della emancipazione delle classi povere, dell\’equo riparto dei beni di fortuna, a quella scellerata arpia dell\’usura sguinzagliassero l\’artiglio, e l\’avventassero libera d\’ogni ritegno a ghermire il popoletto in questi giorni appunto in cui una penuria estrema consiglia al povero qualunque più sconsigliato rimedio per evitare o la fame che lo stringe o l\’esattore del fisco.
Eppure tant\’è! si è proposta alle camere piemontesi una legge con la quale il governo vuol togliere agli usurai ogni freno togliendo ogni tassa d\’interesse legale; e il ministro per riuscir nell\’intento non arrossisce di ricorrere a vergognosi sofismi, avvalorandoli con quel piglio disdegnoso, con cui i sofisti e gli empii sogliono conculcare e tutto il senno degli avi e tutti i dettati della religione e della Chiesa. «Gli usurai, dice, e l\’usura furono nel secolo scorso tema favorito… teologi e filosofi e legisti pareggiarono tra loro nel tradurre a tal riguardo in eruditi sillogismi, ed in pompose declamazioni l\’ira e le imprecazioni delle moltitudini. I dotti però avevano sentito che il punto principale della controversia intorno all\’usura, stava nel sapere se il danaro e altri valori somiglianti avessero a gettare un frutto, o, come dicesi, un interesse». E dopo altre declamazioni «aboliscasi, dice, una legislazione ormai decrepita; fondata sopra volgari ed erronee opinioni, condannata dalla scienza, e dalla esperienza, chiarita inutile nei tempi di prosperità e dannosa in quelli di strettezze finanziarie» (1).
2. Queste e simili altre frasi obbligate accompagnavano il progetto di legge che ha destato il ribrezzo e l\’orrore di tutti i fogli assennati e cattolici. Un avanzo di fiducia nel pudore almeno se non nello zelo della pluralità ci lascia ancora sperare che quel vitupero non giunga a compimento. Ad ogni modo non sarà inutile che a tante altre voci che tentano scongiurar la tempesta si associ anche la nostra, esaminando con occhio cattolico due punti i quali in tal materia ci sembrano capitali; vale a dire il motivo impellente a rogar codesta legge e la teoria economica colla quale vuol giustificarsi. Il motivo per cui si vuol far la legge è che ella sembra necessaria per dare un impulso ai capitali; è questo per gli economisti un principio solenne; giacché chi mai impresterebbe, se non guadagnasse al prestito? Siccome però certe anime scrupolose neppur per guadagno s\’indurrebbero ad imprestare se tal lucro giudicassero illecito, conviene stabilire una teoria che tolga anche codesti scrupoli, per modo che l\’avidità del guadagno svolgasi con tutta la sua energia, libera da ogni contrasto della coscienza: e la teoria fondasi sulla naturale fecondità del capitale. L\’uno e l\’altro argomento già vedete accennati nelle citate parole del ministro piemontese: egli invoca il bisogno per abolire ogni freno; riconosce come fruttifero ogni prestito per giustificarne sempre il guadagno si appoggia egli insomma sui due grandi principii degli economisti utilitarii che dal Turgot sino ai tempi nostri sempre vanno ripetendoci la stessa cantilena; poiché il governo abbisogna sempre di danaro e il danaro risulta dal movimento dei capitali, legittimate l\’interesse, giacché senza interessi non vi sarebber prestiti; ogni somma imprestata è per sé naturalmente fruttifera.
3. Non vi sarebber prestiti se non si permette interesse? L\’universalità di questa proposizione sarebbe evidentemente un\’assurdità storica; avendo progredito per secoli la società cristiana col prin­cipio, allora generalmente ammesso, esser l\’usura illecita, infame ogni qualvolta non veniva giustificata dal lucro cessante, dal pericolo emergente, e pei moralisti più indulgenti anche dal pericolo della sorte, e perfino dalla lunga durata del prestito. Eppure s\’im­prestava anche allora: e se alcuni usurai, sfidando le leggi e le sco­muniche, opprimevano il povero, il maggior numero dei facoltosi sapea rispettare nei prestiti e la coscienza e la legge. Laonde non sappiamo che gli Stati cattolici avessero allora per verun modo legittimato, come necessario al pubblico bene, un qualche frutto del danaro imprestato.
Queste considerazioni mostrano abbastanza la falsità storica di quella proposizione presa in tutta la forza della sua universalità: niuno impresta se non può lucrarvi. E dobbiamo dunque credere che sia stata in ogni tempo così fiacca la carità verso il prossimo nei mutuanti, così dubbia la lealtà nei mutuatarii, così ingorda l\’avidità, nei facoltosi, che d\’ogni lor soldo abbiano voluto far capitale, in ogni lor condizione assumer funzione di negozianti, in ogni domanda di prestito sospettare una trappoleria? Sarebbe questo un conoscere assai male la storia dei 16 primi secoli del cristianesimo, e quello spirito di socievolezza domestica e municipale, che legava in comunicazioni sì candide i parenti e i concittadini, tanto più conoscenti tra di loro quanto meno diffusi nei grandi corpi di nazione; sarebbe un non apprezzare al loro giusto valore le influenze del sentimento cat­tolico e il potere dei canoni della Chiesa; sarebbe un non tener ­conto di quello spirito cavalleresco, che alle arti del traffico come alle meccaniche appiccava, anche talora irragionevolmente, una nota di bassezza e quasi di vitupero.
4. Contentiamoci dunque di supporre, che la proposizione presentata sotto forma universale vogliasi applicare dagli economisti (e così l\’applica infatti il Proudhon coi suoi), unicamente alla so­cietà presente e considerata nelle consuete relazioni civili. Nel qual senso crediamo che quella proposizione debba essere accettata da ogni conoscitore del mondo presente siccome un fatto storico originato da cagioni di varia natura e di vario carattere anche morale.
5. E prima, siccome abbiam toccato poc\’anzi, lo svolgimento delle relazioni e nazionali e internazionali, dilatatesi, come nota il Müller, indicibilmente dopo la discesa di Carlo VIII in Italia, molto scemò di quella vita domestica e municipale, per cui i concittadini intimamente si conoscevano l\’un l\’altro ed abbisognavano più frequentemente dei mutui soccorsi. Intanto si prolungavano i viaggi, s\’intrecciavano commerci con mondi sconosciuti, le imprese lucrose si moltiplicavano e si nobilitavano, giungendo il commercio a costituire grandi società non solo commerciali, ma anche politiche, la cui grandezza cancellava nell\’apprensione dei popoli la vile estimazione della professione di trafficante. Così (senza entrare ora a discorrere per minuto le mille cause del fatto) il mondo incivilito divenne quasi universalmente commerciante; e la facilità, la sicurezza, la frequen­za delle occasioni di lucro invitarono, ogni benché mediocre capitale, ad entrare, senza rossore, nelle vie del commercio: sicché appena più potea dirsi che si trovassero capitali giacenti.
6. E questa condizione delle pubbliche relazioni commerciali, come indusse i governi a seriamente occuparsi intorno al tramutamento dei capitali, che tanto poteva influire sui vantaggi del popolo e dello Stato, così pose in mostra, a giudizio almeno di molti e sa­vi moralisti, un nuovo titolo meno avvertito, per cui il danaro per sè infruttifero, potea per altro recare giustamente al mutuante un qualche lucro: il titolo cioè della pubblica legge, la quale può risolversi nel pubblico bene a cui ogni legge dee necessariamente servire.
7. Moralisti più severi riottarono specialmente in sulle prime a questo che credeano un rilassamento del disinteresse cristiano. Ma l\’indulgenza non meno prudente che santa della Sede Romana, vie­tando l\’inquietare i cattolici che riduceano in pratica codesta dottrina, venne se non a legittimarla pienamente ed assolutamente, a dimostrare almeno, doversi distinguere fra l\’approvazione o tolleranza dell\’interesse legale, e la sfacciata approvazione dell\’usura. Così non vi è fra veri cattolici nel tempo presente chi osi disapprovare come ingiusto l\’accettare pei capitali imprestati quel lu­cro che la legge permette.
8. Una tale indulgenza parea dovesse riuscire aecettissìmaa tutti quei ministri costituzionali che, gridando alto alto, libertà, abbas­so l\’arbitrio, fanno però ogni possa per recarsi in pugno un dispo­tico maneggio dei popoli che governano. Eppure no: codesta legislazione che lascia alla legge il diritto di tassare le usure, riesce a parer del ministro, inutile nei tempi di prosperità e dannosa in quelli di strettezze finanziarie. Or come spiegare in un ministro una tale abdicazione del potere? Come mai si adopera egli in tal guisa a togliersi, quasi da se medesimo il diritto che possedea quietamen­te di tassare l\’interesse e di regolare le contrattazioni? Come vedete ha da esservi una ragione derivante da qualche principio vezzeggiato dagli eterodossi ed avversato dalla Chiesa Cattolica: e il prin­cipio non sarà difficile a discoprirsi per poco che voi entriate nello spirito della moderna eterodossia.
9. Essa, abbiam detto più volte, è fondata sul principio dell\’assoluta indipendenza dell\’uomo, o come suol dirsi nel principio di libertà. La qual libertà non è già una facoltà di viver secondo l\’ordine obbiettivamente considerato nella sua realtà; ma la facoltà di vivere secondo una cotale idea soggettiva che all\’individuo presen­tasi come mezzo di sua felicità, e che viene canonizzata da lui medesimo come ordine e giustizia, checché altri ne pensino. Posto questo primo concetto della libertà, e ammesso per ogni individuo il diritto di possederla, ingiusta vien giudicata ogni legge che pre­tenda infrenarla. Applicato un tal principio alle comunicazioni commerciali, basterebbe già per sé solo a condannare la legislazione de­crepita che metteva un freno a tale libertà individuale.
10. Ma l\’indipendenza eterodossa dovea produrre e produsse in fatti l\’apoteosi dell\’umanità e di tutte le passioni che nella sua corruzione s\’incarnano; e già sanno i nostri lettori a quali eccessi sia giunto il razionalismo, non solo negando ogni colpa e corruzione originaria di nostra natura, ma trasformando positivamente l\’uomo o l\’umanità o il pensiero nel Dio assoluto e progressivamente svolgentesi. Santificata in tal guisa ogni umana cupidigia, è chiaro ché la sacra fame dell\’oro sarà come impulso di natura santificata anch\’essa: e il precetto di arricchire quant\’è possibile diverrà un primo principio morale.
11. Or vorreste voi che la morale venisse confinata nella sola cerchia dell\’individuo, senza mai ad ergersi ad informare i popoli ed i governanti? Sarebbe assurdo il pensarlo: se indipendente è l\’individuo, tali saranno a più forte ragione e popoli e governanti: se nell\’individuo sono sante le passioni che ogni loro bene ripongono nell\’arricchire e grandeggiare, molto più santa sarà la smania di far grande e ricca ad ogni costo una nazione, un governo. La ricchezza, la grandezza della nazione; ecco in codesta teoria la vera idea del pubblico bene. Volete codesto bene? Avete piena ragione: ma donde trarlo? Il grandeggiare non si ottiene senza grave dispendio di eserciti, di marineria, di strade, di telegrafi, di fabbriche, di commerci ecc. Codeste spese enormi non possono uscire che o dalle borse nazionali, per via di gravezze, o dai banchi stranieri per via di prestiti, i quali ricadranno pur finalmente nelle borse nazionali. Eccitare dunque il popolo a trasricchire perché vi siano borse più larghe a pescarvi, è il gran mezzo per fare ricco e grande lo Stato, la Nazione. Col volgo infingardo si usi (teoria del Gioia) la fame; ché codesto animale se non è affamato non lavora: coi facoltosi si usino le attrattive di un lucro smisuratamente crescente, affinché tutti i capitali entrino in commercio: posti in commercio, se ne affretti il corso a rompicollo, giacché quanto più corrono tanto più fruttano.
12. Tali sono in sostanza i precetti economici che dal principio eterodosso naturalmente germogliano; e secondo i quali, l\’abban­donare la tassa di ogni interesse alla libera convenzione dei contraenti è natural conseguenza ed insieme legge giustissima. Se ciascuno è libero nella ricerca del proprio bene e nel disponimento dei propri averi; se non si conosce un ordine obbiettivo a cui ogni umana giustizia debba conformarsi; qual diritto ha un governante di fissare al Capitalista i proventi che può chiedere, o al bisognoso i frutti che può promettere per conseguire un prestito nei giorni della miseria? E se dal movimento dei capitali, che quindi risulta, crescendo le ricchezze nel popolo cresce pel governo la borsa da smugnere e il mezzo di grandeggiare; non sarà prudentissimo un ministro che voglia spezzare quei vincoli e somministrare in tal guisa nuovi fondi per nuove gravezze in pro dello Stato?
Come vedete l\’eterodossia discorre in questo egregiamente secondo i suoi principii: quella LIBERTA\’ che abbandona il cattolico a discrezione dell\’eretico colla libertà dei culti, il cittadino al cospirator settario colla libertà d\’associazione, il lettore ignorante allo scrittore malvagio colla libertà della stampa, il piccolo capitalista ai banchieri colossali col libero scambio ecc., è naturalissimo che abbandoni il prodigo o bisognoso all\’usuraio prepotente; a tutti ella dice ugualmente: «voi siete liberi e niuno ha diritto di porre un freno alla vo­stra attività». E se i primi, sentendosi legate le mani o dalla fiacchezza naturale che non può resistere alla prepotenza o dalla coscienza onesta che non vuol ferire con penna o pugnale, si volgono al governante e chiedono aiuto, costui tornerà a rispondere: «siete liberi a difen­dervi come son liberi a calpestarvi i vostri oppressori». Tale è nel costoro principio la società, tale la funzione del governante, tale il diritto del forte, tale la condizione del debole. Qual meraviglia che codesta scienza chiarisca inutile nei tempi di prosperità e dannosa in quelli di strettezze finanziarie quella legge decrepita che proteggeva l\’ignorante contro il dotto, il povero contro il ricco, il piccolo contro il grande?
13. Essa non è se non l\’apoteosi del Dio-Stato, di quel Moloc spaventoso che divora i suoi adoratori. La Chiesa cattolica, per cui l\’individuo è fine, l\’associazione è mezzo, non s\’indurrà certo a dire «perisca il popolo ma sia ricco lo Stato». Essa lascia codesta sentenza snaturata a quegli economisti eterodossi, pei quali L\’ULTIMO FINE, a cui tutto dee sacrificarsi, è la RICCHEZZA NAZIONALE,
14. Dal fin qui detto vedrà il lettore qual valore abbia quella proposizione, «niuno impresta senza speranza di lucro». Considerata nell\’assoluta sua universalità ella è storicamente falsa: ristretta alle condizioni presenti del mondo incivilito, essa può dirsi vera in una certa morale universalità, senza che venga punto nulla alterata la dottrina cattolica; giacché, quasi ogni prestito si fa oggidì col lucro cessante o col danno emergente, per l\’universale abitudine introdotta e per l\’agevolezza e sicurezza d\’impiegare in imprese fruttifere ogni capitale (2). Ma il pretendere di sottrarre la ingordigia ad ogni freno, abbandonando a libera convenzione il contratto degl\’interessi; ciò non può nascere che dal principio eterodosso di assoluta indipendenza, dall\’individualismo soggettivo ch\’esso introduce nella morale, dalla mania di piacere e di ricchezza in cui ripone ogni fe­licità, e dal trasferimento di codesti tre aforismi nelle leggi rego­latrici dei popoli e dei governi. Ma l\’abolir così ogni tassa legale dell\’interesse, lungi dall\’agevolare i prestiti, renderà ai veri cattolici impossibili tutti quelli che non avrebbero altro titolo che nella legge del principe. Veggiam benissimo che queste poche parole abbisognerebbero di ampio svolgimento, che serberemo ad altri articoli, volendo in questo esaminare la seconda parte delle asserzioni del ministro.