FILOSOFIA DELLA CONOSCENZA (6)

L’ESSERE NELLA CONOSCENZA. Il primato della conoscenza dell’ente. La continuità fra conoscenza sensibile e intellettuale. Specie e idee. La riflessione e la conoscenza di se stessi. La libertà nella conoscenza e la dimensione etica dell’attività scientifica

Capitolo Sesto

L’ESSERE NELLA CONOSCENZA


I. Il primato della conoscenza dell’ente


1.1. L’apertura trascendentale alla realtà e il primo concetto del­l’intelletto

All’apertura universale del nostro intelletto corrisponde la no­zione trascendentale di ente. Il concetto di ente si coglie con un atto intenzionalmente trascendente che è proteso alla totalità del reale in quanto tale. “ L’atto nel quale la soggettività attualizza la propria capacità di cogliere l’ente nella sua assoluta universalità consiste, dunque, nell’aprirsi di un essere a tutto l’essere”.

L’apertura intellettuale alla realtà ha il primato rispetto a qua­lunque altra apprensione intellettiva, perciò il suo oggetto, cioè l’ente, è il primo oggetto colto dall’intelletto. Il nostro intelletto è aperto alla realtà, della quale coglie innanzitutto il carattere reale: per evidenza immediata, di fronte alle cose, sappiamo che esse sono, e di conseguenza la prima nozione raggiunta dal nostro intelletto è quella di ente, cioè di ciò che è. Tale nozione esprime la stessa verità in un primo radicale giudizio: “questo è”. Pertan­to a livello intellettuale, l’ente è il primum cognitum, senza il quale non conosceremmo nulla. Esso è la nozione originale e originaria, nella quale si risolve ogni altra intellezione.

La nozione di ente è, pertanto, il primum trascendentale, poiché costituisce il principio di ogni conoscenza intellettuale. “ t un concetto compreso in ogni altro concetto, dato che non è possibile formare alcuna nozione senza che in essa e con essa si formi quella di ente, che in un certo senso ne costituisce la base e lo sfondo. Sicché, in qualsivoglia conoscenza intellettuale, e non soltanto nella prima, il concetto di ente ha il primato; analogamen­te a quello che avviene in ogni percezione visiva, e non soltanto nella prima, dove ciò che si vede innanzitutto è il colore. Segno di tale primato intellettuale è il fatto che, quando analizziamo un oggetto colto dall’intelletto, al fondo di ogni analisi o risoluzione troviamo l’ente: ciò non accadrebbe se l’ente non fosse lì presente come il primo conosciuto”. Non si tratta allora di una preceden­za temporale, ma di un primato nozionale.

La nozione di ente non è semplice, come già mostra la forma participiale del termine che la esprime (participio presente del verbo “essere”). Non è semplice innanzi tutto perché non è semplice la realtà alla quale si riferisce ‘. L’ente appare già come qualcosa di strutturato e composto, descrivibile come “ciò che è”, ovvero come ciò che sta esercitando l’atto di esistere. Si tratta, quindi, di qualcosa che (“ciò che”) ha l’essere (“è”), e con ciò traspare fin dall’inizio, anche se in modo ancora impreciso e non formale, una struttura composta di soggetto e atto.

Tuttavia, l’ente non è una nozione gnoseologicamente a priori, come hanno invece sostenuto alcuni neoscolastici. Infatti, l’origine delle prime nozioni e dei primi principi sta nella esperienza sensibile, la quale è la fonte di tutte le nostre conoscenze: princi­pium nostrae cognitionis est a sensu ‘. La conoscenza delle cose singolari è precedente, in noi, alla conoscenza degli universali, dato che la conoscenza sensibile precede quella intellettuale. Questo primo concetto ‑ quello di ente ‑ appare come la prima illuminazione intellettuale dell’esperienza sensibile più elementare, mostrandosi insieme come principio di realtà e come principio di intelligibilità. Segue poi l’esperienza, e in essa l’intelletto scopre, insieme alla varietà e alla mutabilità degli enti, le articolazioni metafisiche dell’ente in quanto tale.

Occorre sottolineare che tale iniziale nozione di ente non è caratterizzata da indigenza, indeterminazione e vuotezza, come sostiene il formalismo metafisico culminante nella Logica hegelia­na, bensì dalla sua pienezza. Tutte le determinazioni reali si trovano in essa precontenute, e non soltanto in modo virtuale, ma in modo attuale, anche se implicito e ancora confuso. Essa non è il risultato di un’astrazione totale, ma il frutto di una riflessione intensiva che fa luce su quanto vi è di attualmente comune nelle cose reali. Anche se questa nozione iniziale non è ancora l’oggetto formale della metafisica, l’intera filosofia prima troverà nella sua densità ontologica il terreno fertile per un progresso conoscitivo che, prendendo le mosse dall’ente così come appare nell’esperienza sensibile, culmina con lo studio dello stesso Essere sussistente.


1.2. Dall’ente all’essere

La metafisica, allora, parte dall’ente (ens) e non dall’essere (esse). L’esse non ci si manifesta nella sua semplicità, ma come atto dell’ente e secondo le modalità dell’ente concreto, soggetto alla nostra esperienza sensibile.

In principio, l’essere delle cose viene conosciuto in modo super­ficiale e confuso; ma in questo approccio iniziale, esso deve venire colto in qualche modo, altrimenti non si potrebbe mai arrivare a conoscerlo esplicitamente. Seguendo un processo di riduzione al fondamento si giunge alla conoscenza dell’esse ipsum, come atto radicale dell’ente.

La riduzione della diversità del reale all’unità (analogica) del­l’essere viene realizzata grazie ad un riferimento dinamico al fondamento, superando l’unità logica, basata sulla semplice astrazione concettuale. Tale processo non è intuitivo né deduttivo, ma ana­litico di fondazione: si passa dagli atti più superficiali e variabili a quelli più profondi e permanenti. In tal modo, discorrendo di atto in atto (accidenti, forma sostanziale, atto di essere), giungia­mo all’essere come atto, fondamento ultimo di ogni cosa.

Dapprima conosciamo l’essere delle cose esteriori nella percezio­ne sensibile‑intellettuale: si tratta di un’esperienza guidata dal più perfetto fra i sensi interni, cioè la cogitativa o ragione particolare. In seguito si conosce l’essere della mente (la mia mente: sum), che viene colto in modo più intimo, in quanto siamo immediatamente presenti a noi stessi, e perciò può servire come arma efficace contro gli scettici e apre, inoltre, la possibilità di giungere alla conoscenza delle realtà immateriali. Tuttavia, la propria esistenza non può essere percepita se previamente non si coglie l’esistenza esterna delle cose. Infatti, conosciamo la mente soltanto attraver­so i suoi atti: quindi, se non si pone in atto conoscendo delle realtà da essa distinte, non è affatto possibile coglierla.


1.3. Essenza e atto di essere

L’ente è insieme principio reale e intelligibile: non è possibile separare la conoscenza della sua realtà dalla conoscenza della sua intelligibilità. Una tale dissociazione è stata invece realizzata dalla scolastica formalista, la quale ha sostituito la originaria teoria metafisica della composizione reale di essenza ed essere con quella della distinzione di essenza ed esistenza. La seconda composizione unisce l’esistenza attuale, considerata come mera fatticità, e l’essen­za intesa soltanto come possibile. Essenza ed esistenza non sono altro, allora, che due diversi stati di una medesima realtà di fronte alla mente: nel primo la cosa è intesa come possibile, nel secondo come effettiva. L’esistenza, così, non fa altro che aggiungere il carattere concreto e irrazionale del fatto alle determinazioni intelli­gibili e astratte dell’essenza. Alcuni scolastici parlano perfino di una distinzione fra esse essentiae ed esse actualis existentiae, rispondente ad un problema di tipo logico (risposta alle domande “che cosa è” un ente ‑ quid est ‑ e “se è” ‑ an est), ma priva di valore metafisico.

La genuina distinzione reale di essenza e atto di essere non si identifica con quelle di essere pensato ed essere di fatto. L’autenti­ca composizione reale essentia‑esse non è il nesso formale di due modi dell’ente, ma l’articolazione di due coprincipi reali che costituiscono la realtà primaria dell’ente.

Tale composizione è reale e costituisce la struttura trascendenta­le della realtà, manifestantesi in tutti gli enti finiti in quanto enti. Essenza ed essere sono principi metafisici realmente distinti, che costituiscono l’unum radicale dell’ente. È necessario ammettere questa composizione come reale (e non soltanto cum fundamento in re), poiché le cose finite sono, ma non sono l’essere, non esauriscono l’essere né secondo l’intensità né secondo l’estensione: sono senza essere l’essere, hanno l’essere$ partecipano dell’essere. Il principio partecipante (la potenza: essenza) non può identificarsi realmente con il partecipato (l’atto: essere). Se essenza ed esse si identificassero, il principio reale di limitazione (imperfezione) sa­rebbe lo stesso principio reale di perfezione, il che sarebbe con­traddittorio. Non si riuscirebbe a rendere ragione dell’esistenza reale degli enti finiti: o se ne dovrebbe negare la realtà o la finitezza.


1.4. La conoscenza dell’ente

L’apprensione della realtà si risolve immediatamente in quella dell’ente. Non è possibile fondare l’apprensione del reale su di un previo coglimento della causalità, come sostiene il realismo critico, poiché la nozione di causa dipende da quella di ente, e non viceversa. “Iniziare con un sentimento dell’esperienza interna, indurre poi la realtà esterna del suo soggetto con l’aiuto del principio di causalità, è introdurre in modo evidente un interme­diario fra l’esperienza psicologica e il suo oggetto, cioè la stessa dimostrazione”. Il criticismo realista tenta di passare da ciò che si è appreso alla realtà, mentre il realismo metafisico parte subito dall’ente reale. “ Poiché, qualunque sia l’oggetto che io apprendo, la prima. cosa che di esso colgo è il suo essere: ens est quod primum caditin intellectu. Ebbene, questo essere, che è il primo oggetto dell’intelletto (…), è ben lungi da essere qualcosa di appreso senza la realtà; è, invece, il reale stesso, presente in una apprensione, certo, ma non in quanto appreso (…). Se l’insieme offerto dall’esperienza alla nostra analisi deve venire scomposto secondo le sue articolazioni naturali, indubitabilmente ciò che tale esperienza ci offre è una “realtà appresa”, e non c’è metodo alcuno che ci autorizzi a presentarlo come un “appreso reale”, a meno di mutarne la struttura.

Partendo dalla prima illuminazione intellettuale dell’esperienza, approfondiamo la conoscenza dell’ente: il panorama reale che i sensi e l’intelligenza ci offrono non è statico, ma è formato da realtà mobili. Il movimento degli enti, la loro attività, il loro influsso reciproco, manifestano la loro capacità reale di ricevere e di comunicare perfezioni. La considerazione di tale dinamismo naturale ci conduce alla conoscenza della potenza passiva ‑capacità di venire determinate ‑ e della potenza attiva ‑ capaci­tà di determinare ‑ proprie delle cose.


1.5. La conoscenza della sostanza

La sostanza è l’ente che è di per sé (per se): essa è l’ente in senso proprio. La sostanza è ciò che ha l’essere e sussiste in virtù del proprio atto di essere. Gli accidenti, invece, non sono enti in se stessi, sono enti di un ente (entis entia) o, secondo Aristotele, germogli che accompagnano l’essere: essi ineriscono alla sostanza e partecipano del suo atto di essere.

Nella realtà naturale, la sostanza e gli accidenti formano un’uni­tà composta: l’ente singolare e concreto. La sostanza non si dà mai senza gli accidenti, poiché sussiste sempre accidentalmente deter­minata; e gli accidenti non si danno mai senza la sostanza, poiché di per sé non hanno l’essere.

Le dicotomie cui porta il metodo razionalista tendono ad isolare la sostanza dagli accidenti. Ma è un errore pensare che si potrebbe conoscere la sostanza soltanto se la si potesse separare dagli accidenti: così posto il problema, la sostanza viene dichia­rata necessariamente inconoscibile, dato che tale separazione non potrà mai avvenire. Le contrapposizioni dei razionalisti portano ad identificare l’accidente con il sensibile e la sostanza con il pensabile.

La conoscenza della realtà della sostanza non è separabile dall’esperienza del tutto reale, cioè dell’ente che viene conosciuto con i sensi e l’intelletto, e che comprende sia la sostanza sia l’ac­cidente, poiché è un unum composto da entrambi i principi. La sostanza delle cose materiali non è direttamente conoscibile attra­verso i sensi, ma viene conosciuta immediatamente dall’intelligenza attraverso i dati sensibili nei quali la sostanza appare. La sostanza ‑ ciò che è di per sé ‑ non si riduce a quanto viene offerto direttamente dall’esperienza sensibile, tuttavia si può scoprire sol­tanto in questa.

La conoscenza della sostanza inizia dai suoi accidenti, i quali la lanno conoscere perché partecipano del suo essere. Gli accidenti non celano la sostanza, quasi fossero una specie di crosta opaca che la ricopre, come ritiene una grossolana rappresentazione im­maginaria di questa teoria, sulla quale si basano non poche critiche ingiustificate. La conoscenza degli accidenti porta con sé, invece, una certa conoscenza della sostanza, dato che ogni accidente non può che essere compreso nella sua intrinseca relazione alla sostan­za, che l’intelligenza coglie confusamente e in modo immediato in ogni determinazione accidentale. Ad esempio, quando conosco il color bianco, ciò che ho dinnanzi non è “un bianco” isolato e sussistente, ma “questa cosa bianca”, sia essa un gessetto, un pezzo di carta, un fascio di luce o qualunque altra realtà. Per questo, come ha mostrato la filosofia analitica, non si può contare numericamente facendo riferimento a termini aggettivi, ma solo a termini sostantivi.

In un primo momento, la sostanza viene conosciuta come il sostrato degli accidenti, dei cambiamenti e delle proprietà delle cose. Tuttavia, questa considerazione, come ha notato acutamente Aristotele, è insufficiente. In seguito la si coglie come l’essenza della cosa come ciò che ogni singola realtà è in sé, come un atto dal quale emanano delle proprietà. Infine, si perviene ad afferrare il costitutivo reale della sostanza: il sussistere. Essa è ciò che sussiste come determinato e separato, come ciò che ha l’essere in se stesso, come il soggetto dell’atto di essere.


1.6. La conoscenza della causalità

L’atto causale viene sperimentato nella percezione sensitivo‑intel­lettuale: si tratta dell’esperienza di un nesso particolare di causa ed effetto. La causa viene percepita in ogni esperienza di attività o passività nella vita ordinaria, sia nell’ordine esterno sia, in modo ancora più intimo e diretto, nei nostri propri atti. Abbiamo co­scienza di essere noi, ciascuno di noi, a dare origine alle attività conoscitive, volitive o pratiche: prima esse non esistevano e poi, in seguito a un nostro atto, esse esistono. Vediamo noi stessi come cause reali di processi reali e viviamo tali relazioni di causalità. Siamo consapevoli di muovere il nostro corpo con le sue membra, e di porre tali azioni esterne contro ostacoli e resistenze. Nessun uomo sensato crede che sia frutto della sua fantasia allontanare da sé un pallone con un calcio o prendersi un raffreddore dopo essersi ben bagnato sotto un acquazzone. Si tratta di processi causali la cui realtà è indiscutibile, anche se non sappiamo sempre come si producano o in che consista l’influenza causale. Già lo scettico Sesto Empirico aveva notato che chi nega la realtà della causalità deve negare ogni altro processo o movimento nel mondo: le maree, il fiorire delle piante, il calore del sole, la vita e la morte.

Nonostante la causalità sia evidente, numerosi filosofi nell’e­poca moderna ne hanno negato la realtà, presentandola come una semplice disposizione soggettiva. La critica più famosa è, senza alcun dubbio, quella svolta da David Hume, il quale tentò di dimostrare che l’esperienza della causalità è un abito psicologico ‑ credenza, beliel ‑ che nasce dall’esperire una successione regolare di avvenimenti, senza che le si possa attribuire un’esistenza extrasoggettiva né alcun carattere ontolo­gico. (E’ un fatto, però, che cogliamo successioni non causali e causalità non successive).

Negano l’esperienza della causalità coloro che riducono la perce­zione a sensazioni disperse. È certo che la causalità concreta è un’intentio insensata (non è visibile, come la successione), non coglibile dai sensi esterni: ciò però non significa che non venga percepita da senso alcuno. Di essa, infatti, si fa carico un senso interno, la cogitativa, la cui importante funzione è ben sottolineata dalla filosofia classica, ma è sconosciuta alla maggior parte dei filosofi moderni, i quali sono dovuti ricorrere a complicati espe­dienti per risolvere il problema della connessione di intelletto e sensibilità. (L’esempio più significativo è l’artificiosa e insoddisfa­cente ‑ anche per il suo stesso autore ‑ teoria kantiana dello schematismo, nella quale lo schema trascendentale viene descritto come una “terza cosa”, aggiunta al concetto e all’intuizione e intermedia rispetto ad essi).

Una volta conosciuti per esperienza l’effetto e la causa, sappia­mo immediatamente che ogni effetto ha una causa. P, questo il cosiddetto principio di causalità, formulato da Aristotele nei termi­ni seguenti: “tutto ciò che si muove, necessariamente si muove in virtù di altro”. S. Tommaso, approfondendo il valore metafisico del principio, lo esprime con queste parole: “ciò che diviene ha una causa” (quidquid fit, causam habet). Tale evidente verità universale viene conosciuta in modo astratto dall’intelligenza, e in modo concreto dalla cogitativa o ratio particularis.


2. La continuità fra conoscenza sensibile e intellettuale


Il pensiero formalista separa la sensibilità dall’intelletto, li isola, contrapponendo l’intuizione sensibile all’intuizione intellettuale. Ciascuno di questi modi di conoscenza, privato della correlazione e del contrasto con l’altro, tende ad assolutizzarsi; cosi, sorgono dei sistemi filosofici contrapposti (anche se aventi una comune ispira­zione di fondo), nei quali si afferma unilateralmente il primato esclusivo della sensazione (empirismo) e dell’ideazione (razionali­smo).

La metafisica dell’essere, invece, è attenta alle articolazioni reali della nostra conoscenza e rispecchia la stretta continuità esistente fra la conoscenza sensibile e quella intellettuale. È questa l’idea fondamentale della gnoseologia realista, secondo la quale la nostra conoscenza viene misurata dalla realtà delle cose e non può costituirsi come l’origine dell’essere.


2.1. Il passaggio dalla sensazione esterna alla conoscenza intellet­tuale

La conoscenza sensibile guarda alle qualità sensibili esterne, mentre la conoscenza intellettuale penetra in profondità sino a ciò che la cosa è di per sé, sino all’essenza (il che cosa è di ogni realtà), che gli accidenti fanno trasparire perché ad essa inerisco­no. L’oggetto dell’intelligenza è ciò che è (id quod est), l’essenza attuata dall’essere “.

Il passaggio dalla sensazione esterna alla conoscenza intellettiiva non è discontinuo e improvviso. Per poter contemplare l’essenza delle cose ‑ un “vedere” penetrante che i greci chiamavano theo­rein ‑ l’intelligenza ha bisogno di un’esperienza opportunamente predisposta. Aristotele, per primo, ha tracciato le linee fondamen­tali di questo processo conoscitivo sensibile‑intellettuale: “E’ un fatto naturale, d’altronde, che tutti gli animali siano dotati di sensibilità, ma da tale sensibilità in alcuni di essi non nasce la memoria, in altri sì. E appunto perciò questi ultimi sono più intelligenti ed hanno maggiore capacità di imparare rispetto a quelli che sono privi di facoltà mnemoniche (…). Nella vita degli altri animali, però, sono presenti soltanto immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima parte; nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e razio­nali. E negli uomini l’esperienza trae origine dalla memoria, giac­ché la molteplicità dei ricordi di un medesimo oggetto offre la possibilità di compiere un’unica esperienza (…). L’arte nasce quan­do da una molteplicità di nozioni empiriche venga prodotto un unico giudizio universale che abbracci tutte le cose simili fra lo­ro”. Anche Tommaso d’Aquino ha contribuito alla elaborazione di questa teoria: egli sostiene che le sensazioni molteplici subisco­no una prima organizzazione sensibile nella percezione del senso comune, il quale integra i dati offerti dai sensi esterni (sensibili comuni e propri). Tale percezione integra e organizza grazie al­l’immaginazione e alla memoria: da molte sensazioni si forma l’immagine, da molte immagini il ricordo. Infine, la percezione sensibile più elevata corrisponde alla cogitativa, a cui si deve l’esperienza, l’atto di apprendere e mettere in relazione le perce­zioni singolari ricevute nella memoria.

L’intelligenza, applicata all’esperienza attraverso l’astrazione, può separare le idee universali e i primi principi. In virtù dell’in­telletto agente, essa coglie l’ontologico nel fenomenico, il necessario nel contingente, l’intelligibile nel sensibile.

Non è però facile riscattare la dottrina classica dell’astrazione dai malintesi che storicamente l’hanno accompagnata. Infatti, già con la scolastica nominalista essa cominciò a venire intesa come il passaggio dall’individuale al generale, invece che come penetrazione intensiva della realtà. Spesso ci si è dimenticati anche della dottrina della cogitativa, con il conseguente impove­rimento della spiegazione psicologica del passaggio dal livello sensibile a quello intellettuale. Suárez (1548‑1617), ad esempio, riduce tutti i sensi interni al senso comune; ma, impoverendo a tal punto il processo completo della percezione, che non si ha più un materiale adeguato dal quale astrarre, poiché si considera l’oggettività sensibile come un insieme di sensazioni isolate. Dalla riduzione della sensazione a puro atomismo, il razionali­smo moderno passerà a credere che l’ordine e la connessione delle sensazioni devono essere posti dal pensiero spontaneo, per mezzo di alcuni concetti a priori, attraverso i quali il soggetto costruisce l’esperienza.


2.2. Il ritorno all’esperienza

L’oggetto proprio dell’intelletto umano, che è spirito ma unito a un corpo, è la quiddità o natura esistente in una materia cor­porea: partendo da qui ci si può elevare fino alla conoscenza di realtà incorporee. Ora, è proprio della natura corporea esistere in un individuo, il quale non può sussistere senza materia corporea. Ad esempio, le nature della pietra e del cavallo non possono che esistere, rispettivamente, in questa pietra concreta o in quel cavallo determinato; nella realtà non vi sono né pietre né cavalli astratti. Pertanto, la natura delle cose corporee non può essere conosciuta in modo completo e vero se non la si considera come esistente in qualcosa di particolare. Ma il particolare viene appreso dai sensi e non dall’intelletto (non si dà un’intuizione intellettuale che ci permetta la conoscenza diretta delle essenze: in questo concordano aristotelici e kantiani), dunque, affinché l’intelletto comprenda in atto il suo proprio oggetto, è necessario che ritorni all’esperienza, in modo tale da vedere la natura universale nell’ente particolare. Tale ritorno all’esperienza viene chiamato da Tommaso d’Aqui­no conversio ad phantasmata, ritorno alle immagini. t tuttavia importante ricordare che il phantasma o immagine sensibile non è ciò che viene direttamente conosciuto, bensì è una similitudine della cosa conosciuta, ed è appunto tale cosa ad essere direttamen­te conosciuta attraverso la similitudine. Il phantasma, allora, viene considerato nel suo essere intenzionale, nel suo contenuto oggettivo (che è una somiglianza della cosa conosciuta), e non nel suo essere psicologico o “fisico”. Per mezzo della riflessione si conosce l’immagine in quanto immagine, considerando la natura dell’atto conoscente e la specie per mezzo della quale si conosce.


2.3. L’unità fra la conoscenza intellettiva e sensibile

La verità della nostra conoscenza implica, quindi, la possibilità della conoscenza intellettiva del singolare, cioè la continuità fra la sfera intellettuale e la sfera sensibile: la mente attinge il singolare, in quanto la sua conoscenza continua nei sensi, i quali appunto considerano il particolare. Questa è una tesi fondamentale della teoria gnoscologica, corrispondente all’altrettanto importante dot­trina antropologica circa l’unione sostanziale di anima e corpo.

Quando affermiamo che l’intelletto ha per oggetto l’universale, stiamo sintetizzando una situazione che in realtà è più complessa. In teoria, l’intelligenza ha per oggetto l’essenza di ogni cosa (la sua operazione è un intus legere). L’essenza, a sua volta, in quanto astratta, ha la proprietà di essere universale. Il compito di cono­scere l’individuo sub natura communi, e pertanto di percepire in concreto l’atto e la potenza, le cause, la sostanza e gli accidenti, spetta alla cogitativa, senso interno che è razionale per partecipa­zione. Essendo una facoltà sensibile (agisce mediante un organo), essa coglie il particolare, in quanto razionale per partecipazione, può “vedere” l’essenza universale realizzata nel particolare. La stessa persuasione relativa all’esistenza di una cosa determinata è opera della cogitativa. Senza tale facoltà, i concetti dell’intelletto non avrebbero una esperienza corrispondente alla quale rivolgersi.

“L’errore d’impostazione incomincia (…) quando arbitraria­mente, facendo violenza ai dati autentici della conoscenza, si stabilisce una incomunicabilità o soluzione di continuità fra l’intelletto e la conoscenza sensibile, che porta ad applicare l’astrazione negativa all’ambito della metafisica, dove, invece, deve essere applicata l’astrazione positiva o metafisica, la quale separa la natura dalle sue condizioni di esistenza, senza omette­re o abbandonare semplicemente gli individui e le differenze individuali, bensì conoscendo ciò che tralascia e ciò che assume, e quindi conoscendo la distinzione fra una cosa e l’altra”. Effettivamente, le principali difficoltà sorte nel corso della storia al fine di spiegare la peculiarità della conoscenza umana, nascono dal sostenere una incomunicabilità fra intelletto e sensibilità, la quale a sua volta procede dall’applicazione di un metodo intuizionista (che propugna una conoscenza diretta delle essenze) e matematizzante come è quello di tipo cartesiano. L’empirismo e il razionalismo urtano contro difficoltà insuperabili per fondare il passaggio conoscitivo dal particolare sensibile all’universale, e per trovare la realtà concreta corrispondente ai concetti.


2.4. La conoscenza intellettiva del singolare

L’apprensione intellettiva del singolare è indiretta (non intuiti­va), poiché presuppone una conversio ad phantasmata, un ritorno riflessivo della mente sul suo atto per scoprirne l’origine nell’im­magine.

E questa la riflessione in actu exercito, che accompagna ogni atto intellettivo e gli è concomitante. Non si tratta, quindi, di un nuovo atto, di una riflessione in actu signato, cioè esplicitata da un’intellezione diversa dalla prima. La cosiddetta via moderna, della quale Ockhani è il massimo rappresentante, sostiene, invece, che nulla può essere conosciuto se non intuitivamente. Perciò i nominalisti ‑ e Suárez in altro modo ‑ affermano l’esistenza di un’intellezione diretta (intuitiva) del singolare. È certo però che nell’uomo non si dà alcuna intuizione intellettuale del singolare, dato che ciò comporterebbe un coglimento diretto e non astratto dell’essenza. Se una tale conoscenza si desse, noi potremmo cono­scere tutti gli accidenti singolari, e la materia sensibile entrerebbe nella nostra definizione delle cose; ma non si danno né il primo né il secondo fenomeno. La tesi della intuizione intellettiva del singo­lare sorge in seguito alla perdita della struttura ontologica della realtà (i diversi livelli di composizione atto‑potenza); più concre­tamente, essa presuppone la concezione di una materia avente un certo atto in sé, e che pertanto non è principio di limitazione o contrazione dell’intelligibilità.

L’apprensione intellettiva dell’ente singolare è, quindi, indiretta.

Tuttavia è anche immediata e si dà statim, sine dubitatione et discursu: immediatamente, senza alcun dubbio o argomentazione.

La continuità fra sensi e intelletto si realizza, pertanto, secondo la direzione che parte dai sensi e arriva all’intelletto: ciò avviene in ogni atto d’astrazione, dato che questo implica immediatamente la conversione all’immagine. Si dà anche nel senso inverso, cioè dall’intelligenza verso i sensi, poiché l’intelletto regge le facoltà conoscitive inferiori e, mediante la ratio particularis o cogitativa, organizza la conoscenza del singolare.


3. Specie e idee


Per conoscere occorre aver presente la cosa conosciuta. L’Essere assoluto conosce le cose in se stesse, senza bisogno di alcuna attualizzazione. Negli altri casi, la conoscenza si realizza per informazione: la cosa conosciuta si fa presente per mezzo della specie o idea. Il soggetto conoscente finito si trova in potenza (attiva) a conoscere l’uno o l’altro degli oggetti compresi dall’ogget­to formale delle diverse facoltà. Per conoscere questo determinato oggetto, è necessario ch’esso si determini per mezzo di una specie che attualizzi la facoltà al fine di realizzare il tipo di conoscenza di cui si tratti in ogni singolo caso. Tale attualizzazione è la stessa prassi conoscitiva, nella quale il conoscente in atto si identifica col conosciuto in atto.

Tuttavia, noi non conosciamo la specie, come sostengono i rappresentazionisti, ma le cose delle quali le specie sono similitu­dini. La specie conoscitiva svolge due funzioni:

1. soggettiva, informando la facoltà come suo atto accidentale (grazie ad essa la potenza conoscitiva passa all’atto secondo);

2. oggettiva, in quanto la specie fa conoscere. Essa è il mezzo mediante il quale (quo) si conosce, ma non è ciò che (quod) conosce. La conoscenza che si realizza attraverso le specie è immediata, non per aliud o mediata (come avviene allorché si co­nosce un ente per mezzo di un altro, ad esempio nel ragionamento. La cosa viene colta direttamente, mentre il soggetto coglie se stesso in modo riflessivo (in obliquo): “In tutte le potenze che possono ritomare sui propri atti, occorre che prima l’atto della potenza tenda verso un altro oggetto e che solo in seguito torni su se stesso”.

È importante non lasciarsi sviare a questo riguardo dalle rappre­sentazioni di enti materiali che può aver l’immaginazione: esse infatti non possono manifestare l’essenza del conoscere, la cui realtà ha sempre una dimensione immateriale. Quando si conosce la realtà per mezzo di idee, non si tratta di “andare al di là dell’idea”, come se per conoscere qualcosa di diverso dalla cono­scenza occorresse “uscire” dalla conoscenza. Sarebbe una pretesa vana, simile a quella di chi volesse saltare sulla propria ombra o uscire dalla propria pelle. Il conoscere è, nella concezione aristote­lica, una prassi, ovvero una operazione immanente, cioè che perfe­ziona il soggetto conoscente e non la cosa conosciuta. È una operazione che non si realizza per fasi successive, ma è istantanea: si conosce e immediatamente si possiede intenzionalmente il cono­sciuto. Non è questa una concezione immanentista della conoscen­za: infatti, l’idea stessa si riferisce alla realtà, è cioè intenzionale per natura, così come la natura dell’intelletto è quella di adeguarsi alle cose. Non è quindi necessario, né è possibile, “uscir fuori dalla conoscenza” per conoscere qualcosa di diverso dallo stesso conoscere: allorché si conosce, si coglie sempre qualcosa di diverso dalla conoscenza. (All’origine dell’idealismo modemo, si trova proprio la perdita del senso “prassico” del conoscere). Il conoscere non è, pertanto, un “processo psichico” che potrebbe venire studiato in analogia con gli altri processi fisici. La filosofia della mente, sviluppata dai filosofici analitici sta riscoprendo in questi anni tale realtà.


3.1. Il carattere rappresentativo del concetto

Chiariamo subito che il carattere rappresentativo del concetto nella filosofia classica non coincide con il senso moderno di representatio o Vorstellung. Il concetto non sostituisce la forma reale, ma rimanda ad essa intenzionalmente. Lo “star per” o “supporre” non equivale, allora, a “sovrapporre” alla realtà effettiva una specie di involucro dotato di realtà oggettiva e dispensante dalla ricerca delle cose e dei fatti reali. Il concetto viene considerato una via verso le cose, via ad res, sulla quale, all’inizio, il pensiero non si sofferma affatto: soltanto in un secondo momento lo prende ad oggetto della propria riflessione. Pertanto, la rappresentazione intellettuale può essere intesa, insie­me alla tradizione, come un segno formale, il cui essere consiste unicamente nell’essere segno; la sua realtà si esaurisce nel riman­dare alla realtà che in esso (in quo) è conosciuta. Il segno formale è ciò che, prima di dare a conoscere se stesso, istantaneamente e immediatamente rappresenta una realtà distinta da sé.

Quando la tradizione afferma che il concetto è via verso le cose, non bisogna intendere tale paragone come se indicasse una via da percorrere successivamente, un processo. In senso stretto non vi sono processi mentali. La conoscenza intellettiva è práxis, non Kínesis; è attività, non movimento. Aristotele notò che le attività del pensiero, non svolgendosi successivamente, si potevano designare indifferentemente con il presente e con il perfetto del verbo corrispondente, poiché “uno pensa e ha pensato, comprende e ha compreso”, il che non avviene nelle azioni che implicano il corpo.

La necessità di ricorrere al concetto, come a ciò in cui la cosa intesa viene conosciuta, non comporta né un secondo oggetto conosciuto né un secondo atto di conoscenza: il modo di conoscere non diventa quindi mediato. Appare così il senso autentico del rappresentare, mal compreso dalla filosofia della coscienza. Come afferma Giovanni di S. Tommaso, “rappresentare non è altro che rendere l’oggetto conosciuto presente alla potenza conoscitiva e ad essa unito nel suo essere conoscibile”.

Il concetto formale è il termine di un’operazione immanente, nel quale l’oggetto si presenta e si propone come conosciuto. Se tale presentazione è una rappresentazione, è perché l’oggetto conosciuto si rende presente nel termine immanente alla potenza, secondo il suo essere intenzionale e non secondo il suo essere fisico. Ma tale essere intenzionale che l’oggetto ha nel concetto rimanda all’ogget­to stesso, così che il concetto non è la cosa conosciuta, ma soltanto la specie nella quale si dà la presenza della cosa conosciuta.


3.2. Immediatismo nominalista e mediatismo idealista

In tal modo ci si può salvare dai rischi tanto del mediatismo rappresentazionista o idealista quanto dell’immediatismo nominali­sta.

L’immediatismo nominalista, guidato dall’imperativo categorico della conoscenza per presenza, non si rende conto che ciò che si fa presente all’intelletto non è l’oggetto nella sua fatticità individuale, ma l’oggetto nella sua essenza universale. Poiché, come notò Aristotele, “altro è la grandezza dall’essenza della grandezza e l’acqua dall’essenza dell’acqua”: nel concetto la mente discerne “l’essenza della carne e la carne”, cioè astrae.

Il concettualismo idealista, invece, dimentica che l’essenza pre­sente nel concetto è “essenza di”, essenza della cosa e non del concetto: “essenza della cosa nel concetto”. Ciò è possibile proprio perché il concetto è intenzionale, cioè rappresentazione‑di o immagine‑di un ente conosciuto.

Entrambi gli equivoci nascono da una mancata comprensione del concetto, dal non aver colto la sua peculiare natura. Tommaso d’Aquino notò che il concetto formale può essere considerato in due modi diversi. Nel primo, lo si vede in quanto riferito al conoscente, cioè nel suo essere reale o naturale; così gli inerisce come l’accidente al soggetto e si può dire che “sta nella mente”. C’è poi una seconda prospettiva, più specifica e caratteristica in quanto relativa al suo essere rappresentativo o intenzionale: lo si vede, cioè, in rapporto al conosciuto; cosi non c’è inerenza ma relazione. In questo secondo modo non lo si può ritenere una “cosa” che “sta nella mente”, poiché quanto all’intenzionalità non ha ragione di accidente. “Pertanto, sulla base di questa considerazione, il concetto formale non sta nell’anima come nel suo soggetto, e secondo tale riferimento, si spinge al di là della mente, in quanto attraverso il concetto formale vengono conosciute cose distinte dalla mente”.

Vi sono sostenitori di una specie di “realismo ad oltranza” i quali, con il falso pretesto di evitare l’idealismo, hanno voluto eliminare la mediazione funzionale rappresentativa, la specie nella quale si conosce, esigendo un “contatto diretto” fra soggetto e cosa conosciuta. È questo un tentativo infecondo e innecessario. Volendo fare alcuni nomi, hanno rifiutato la dottrina delle specie i nominalisti, Ockham, Durando, Hobbes, Gassendi e il neorealismo angloamericano. Ma senza far ricorso alle specie, non è possibile dar ragione della conoscenza, poiché non vi è più modo di spiegare come il conoscente diviene in­tenzionalmente il conosciuto. La concezione della conoscenza sostenuta da questi “ultrarealisti” sarà, allora, di indole mate­riale, come se conoscere volle dire subire un’impressione fisica da parte dell’oggetto. Tale tesi porta certamente al materialismo, dato che nasconde la spiritualità dell’anima e nega la forma sostanziale delle cose. Secondo questa rozza gnoseologia, si coglierebbe la realtà fisica direttamente, e la presenza intenzio­nale verrebbe ridotta al semplice contatto fisico, il che equivale a perdere la specificità del fenomeno conoscitivo. (Qualcosa di simile capita a chi pretende di dare una visione “ informatica ” ‑ nel senso della cibernetica contemporanea ‑ della conoscen­za; la mente cibernetica riceve e conserva dati, ma non conosce. Il che non impedisce che nelle teorie cibernetiche si trovino conclusioni interessanti, il cui rapporto con la psicologia aristo­telico‑tomista è oggetto di recenti ricerche).

La gnoseologia sviluppata dalla metafisica dell’essere non è soltanto una difesa dall’idealismo (storicamente non è stato così e non vi sono ragioni teoriche perché sia così). Concretamente, non è vero che il riconoscimento delle idee ‑ come atto accidentale dell’intelligenza, la quale agisce attraverso di esse, poiché in tanto opera in quanto è ‑ porti all’idealismo. Conduce all’idealismo il mediatismo, consistente nel considerare le idee come l’oggetto immediato della conoscenza, e le cose come l’oggetto mediato (impostazione condivisa anche da non pochi seguaci del realismo critico). Bisogna anche scartare l’obiezione che una stessa forma non può stare simultaneamente in due soggetti: la forma del conosciuto non può “migrare” nel conoscente. Non vi è alcuna trasmigrazione, né il realismo deve farvi ricorso. La presenza della specie nella mente è infatti immateriale: l’intelletto la riceve, ma non come una materia riceve una forma. Informato immaterial­mente da questo atto, l’intelletto è in grado di realizzare l’azione vitale del conoscere. Quando si conosce, si possiede la forma altrui “in quanto altrui”. La forma del discobolo è presente material­mente, come forma propria, nel marmo della statua; invece, si trova intenzionalmente in colui che la conosce.


4. La riflessione e la conoscenza di se stessi


Un principio fondamentale della metafisica dell’essere, al quale si è già fatto allusione, è la tesi per la quale la perfezione di una cosa dipende dalla sua attualità, dal partecipare dell’atto con maggiore o minore pienezza. Per rimanere nei limiti di quanto adesso ci interessa sottolineare, ricordiamo che l’attualità di qual­cosa è la fonte della sua intelligibilità. Qualcosa è conoscibile in quanto è in atto (unumquodque cognoscibile est secundum quod est in actu), cioè, in quanto è. Per questo, Dio, Atto puro, è perfettamente conoscibile in se stesso, è assolutamente chiaro e luminoso.


4.1. L’autoconoscenza umana

Consideriamo adesso come l’uomo realizzi la conoscenza di sé. L’uomo si conosce, cioè conosce i propri atti, abiti, potenze e l’anima, per riflessione, non direttamente: una volta che lo sguar­do dell’intelligenza si sia orientato in linea retta (intentio recta) alle cose esterne, può ritornare su se stesso (intentio obliqua) e considerare la propria natura e il suo essere proprio.

Prima di procedere oltre, facciamo alcune precisazioni termi­nologiche. Nel linguaggio ordinario, “riflettere” significa pre­stare molta attenzione ad un oggetto di studio, ponderare una decisione, arrovellarsi intorno ad un problema. Nel vocabolario filosofico, “riflettere” significa ritornare su di sé, conoscere se stessi o i propri atti. Altro termine importante nel presente contesto è quello di “coscienza”, che significa la consapevo­lezza dei propri atti. S. Tommaso l’utilizza soprattutto in senso etico, per indicare la consapevolezza della moralità delle proprie azioni. Si utilizza anche in tale accezione nel linguaggio ordinario. Tuttavia nella filosofia moderna il campo semantico di questo termine si è ampliato fino a comprendere l’intero ambito della teoria gnoseologica. Esso indica così, ogni tipo di conoscenza e si identifica, secondo il principio di immanenza, con la conoscenza di sé. I pensatori moderni, poi, riducono l’uomo alla coscienza, eliminando la facoltà conoscitiva ‑ uno dei cui atti è quello di autoconoscersi ‑ e il carattere di ente del soggetto conoscente. La coscienza viene sostantivizzata. D’altra parte, però, essa viene fenomenizzata: il suo essere si riduce a mero fenomeno ‑ nel senso di un “manifestarsi” che inquadra “ciò che si manifesta” ‑ ed esiste soltanto nella misura in cui appare. Il risultato è quello di eliminare la complessità del soggetto conoscente, la sua composizione di atto e potenza (il suppositum e il suo atto di essere, l’anima, le potenze attive, gli atti), assorbendo tutto nel puro pensiero.

Occupiamoci ora di come l’uomo conosce se stesso. “E’ evidente che il nostro intelletto, prima di conoscere, è in potenza, e quindi non può ancora sapere di conoscere e non può riconoscersi come intelletto. Allorché conosco una realtà, passo all’atto di conoscere; e così, è in funzione della conoscenza di tale realtà che io conosco la mia conoscenza e mi conosco come conoscente”. S. Tom­maso ci svela altre implicazioni di tale impostazione: “Il nostro intelletto possibile non conosce se stesso se non in virtù della specie intelligibile, per la quale diviene attuale nell’essere intelligi­bile (rende se stesso intelligibile in atto); per questo Aristotele nel III libro De Anima dice che ‘è conoscibile come le altre cose’, cioè, attaverso certe specie prese dalle immagini o fantasmi, come forme proprie. Al contrario, le sostanze separate, che stanno per natura nell’essere intelligibile attuale, conoscono se stesse attraverso la propria essenza e non grazie alla conoscenza dell’essenza di altre cose”.

Non stiamo sempre conoscendo, ma passiamo in ogni intellezio­ne dalla potenza attiva all’atto, e siamo intelligibili soltanto quan­do conosciamo in atto. Leggiamo con attenzione il seguente pro­fondo testo di San Tommaso: “In tutte le potenze che possono ritornare sui propri atti, è necessario che l’atto della potenza ten­da previamente verso un altro oggetto e che poi torni su se stes­so. Per ottenere che l’intelletto conosca di conoscere, è prima ne­cessario che conosca qualcosa; e quindi, o si procede all’infinito o, se si deve arrivare alla prima cosa conosciuta, è necessario che questo non sia lo stesso intendere, ma un ente intelligibile, così come è altrettanto necessario che la prima cosa voluta non sia lo stesso volere”.

Anche se l’intelletto è sempre presente a se stesso, si attualizza soltanto quando è informato dalle specie intelligibili degli enti conosciuti, e per questo si può dire che conosce se stesso non attraverso la propria essenza, ma attraverso le specie. (L’intelletto angelico, invece, fin dall’inizio conosce se stesso, poiché il suo oggetto proprio è costituito dalla sua stessa essenza. L’oggetto proprio dell’intelletto umano è invece l’ente materiale percepito dai sensi e presente all’intelligenza attraverso la specie immateriale). Possiamo conoscere noi stessi per essentiam (nel senso del medium quo ‑ come nel caso della specie ‑ del conoscere) soltanto in modo abituale, in quanto l’anima è sempre presente a se stessa, e non ha bisogno di una specie abituale diversa per essere nelle condizioni abituali di conoscersi. Al contrario, per conoscere altre cose, essa ha bisogno di specie che le diano un sapere abituale. Tuttavia, per passare all’atto di conoscere, l’intelligenza ha bisogno delle specie, le quali, informandola, l’attualizzano rendendola intel­ligibile in atto.

La specie fa passare all’atto l’intelletto, che in tal modo inizia a conoscere. L’uomo allora percepisce di essere e di vivere ‑ in atto primo ‑ sperimentando le proprie operazioni ‑ atti secondi ‑, come l’intendere e il volere. L’anima si conosce attraverso i propri atti (per actos suos); cioè, possiamo conoscerei solo se conosciamo, in quanto siamo attualizzati dalle specie per le quali abbiamo presenti delle realtà distinte da noi stessi.


4.2. Le modalità della coscienza e la loro portata conoscitiva

Innanzi tutto ricordiamo che le potenze non spirituali ‑ i sensi e gli appetiti ‑ non possono riflettere sui propri atti, essendo determinate dal loro organo corrispondente. Ad esempio, l’udito coglie dei suoni, ma non ode il proprio udire. Il senso comune, o sensorio comune, offre una prima informazione di tutte le sensa­zioni, infatti una delle sue funzioni è quella di rendere coscienti gli atti sensitivi. Tuttavia, il sensorio comune non è una potenza riflessiva, poiché conosce soltanto gli atti degli altri sensi e non i propri.

Soltanto le potenze spirituali sono veramente riflessive, dato che anche i loro atti rientrano nell’ambito del loro oggetto, che è universale. In tal modo, la volontà, il cui oggetto è il bene, può volere il proprio atto, in quanto esso è buono; e l’intelletto, il cui oggetto è l’ente vero, può conoscere il proprio atto in quanto è vero. L’anima può, attraverso la sua operazione, ritornare comple­tamente su se stessa. Tale reditio completa è possibile soltanto se si tratta di un’operazione totalmente indipendente dalla materia, poi­ché nulla di ciò che un soggetto possiede materialmente può possederlo anche immaterialmente. Perciò il volere e l’intendere sono operazioni spirituali che implicano la sussistenza propria dell’anima nell’essere, e non la sussistenza in quanto informa una materia: una volta corrottosi con la morte il composto umano, sussiste l’anima immortale.

Fra tutte le potenze conoscitive, soltanto l’intelletto è capace, nella riflessione, di conoscere il soggetto, formulando il giudizio “io sono”, nel quale con il termine “io” si indica il suppositum che ha l’essere, la sostanza dell’uomo che si autoconosce.

Sulla base dell’esperienza sensibile, l’intelletto ha presente ciò che le offre il sensorio comune ‑ gli atti del sentire e dell’appeti­re sensibili ‑ e, inoltre, conosce il proprio atto e gli atti di volontà, arrivando così alla sua sostanza che coglie come ente. Si tratta di un’esperienza interiore: è una percezione interna di un soggetto spirituale e dei suoi atti, che, in una prospettiva etica, ren­de possibile che l’uomo sia responsabile delle sue azioni libere. Egli non percepisce soltanto la semplice esistenza degli atti interni, ma in un certo modo, confusamente, coglie la propria immateriali­tà. È una conoscenza positiva di un ente spirituale concreto; una conoscenza di presenza, indiretta e immediata. In questa percezione si rileva che non tutto ciò che l’uomo conosce deve essere soggetto ai sensi, in quanto lo stesso intelletto si autoconosce in un suo atto non sottoposto ai sensi. Si tratta, pertanto, di una realtà che i vari materialismi ed empirismi non riusciranno mai a spiega­re: è l’uomo stesso, che in quanto conosce l’essenza delle cose si autoconosce e agisce liberamente, a costituire la loro pietra di scandalo. Per questo motivo essi si sforzano continuamente e invano di ridurre l’uomo al livello animale negandone la libertà.

Analizziamo più attentamente l’atto riflessivo. Quando si cono­sce qualcosa, si avverte in modo subordinato, concomitante, che si conosce, in quanto il soggetto è consapevole del manifestarsi del conosciuto, anche se non per questo afferra già la natura del principio del conoscere, cioè del soggetto. Si tratta di una riflessio­ne in esercizio (in actu exercito), che accompagna l’atto intenziona­le, ma è indiretta e condizionata dalla determinazione dell’oggetto. Può seguire, anche se non sempre è necessaria, la riflessione in actu signato, per la quale il soggetto ritorna sul proprio atto, la quale esige una intentio specifica, diretta precisamente all’autoco­noscenza come tale.

Bisogna, pertanto, distinguere la coscienza spontanea dalla co­scienza riflessa:

l. Coscienza spontanea. Tutte le volte che si conosce, ci si rende conto, contemporaneamente, di conoscere. t una riflessione in actu exercito propria dell’atto intellettuale, immediata ma indiretta, e che presuppone che il soggetto si sia attualizzato nella conoscenza dell’oggetto. Senza tale coscienza concomitante, non sarebbe pos­sibile l’atto della coscienza riflessa, giacché mancherebbe la nozio­ne che si esprime nella riflessione completa.

2. Coscienza riflessa. Tale modo non è necessario che sia sempre presente in ogni atto di conoscenza: non stiamo sempre esaminan­do noi stessi, dato che ciò richiede un tornare esplicitamente su di sé, mediante una nuova riflessione, questa volta in actu signato. t una riflessione completa, che la coscienza sensibile non può mai raggiungere.

La percezione interiore non basta per la completa conoscenza di se stessi. È un luogo comune della filosofia occidentale quello di sottolineare le difficoltà che sperimenta ognuno nel conoscere se stesso e, in generale, nel rispondere compiutamente alla domanda circa l’essenza dell’uomo. Per conoscere la nostra natura in modo scientifico, dobbiamo utilizzare un complesso sistema di concetti, e far uso del ragionamento muovendo sempre dalla conoscenza spon­tanea. La conoscenza di tale natura ha per base l’analisi dell’essen­za delle specie nella mente; e partendo da questa, cogliendone confusamente la spiritualità, si arriva a riconoscere la spiritualità dell’anima, la sua immortalità, la sua libertà ed altre caratteristiche studiate dalla psicologia filosofica.

Oltre a questo tipo di riflessione intorno alla natura dei propri atti e al loro soggetto prossimo o remoto, è possibile anche sviluppare una riflessione che non considera più la realtà psicologica degli atti conoscitivi, bensì il loro aspetto intenziona­le. Si tratta allora di una riflessione logica, la quale studia le relazioni che i contenuti conosciuti intellettivamente acquistano allorché vengono a far parte di un sistema scientifico. La logica non riflette sulla fatticità dei processi psicologici, come sosten­gono gli psicologisti, ma su quelle relazioni di ragione che sono le intentiones secundae.

Per conoscere l’esistenza di Dio come causa prima defl’ente in quanto tale, la conoscenza di sé non gode di alcun privilegio rispetto alla conoscenza delle cose esterne a noi. Con una pura riflessione logica, poi, è impossibile conoscere Dio, poiché non si può andare al di là di una realtà pensata (l’argomento ontologico è stato quasi sempre quello preferito dai razionalisti e dagli idealisti, mentre la metafisica dell’essere lo considera inconcludente). La via che porta alla conoscenza dell’esistenza di Dio è l’ente, ovvero le cose dell’esperienza in quanto hanno l’essere e non una forma determinata. Ma la conoscenza della nostra anima spirituale ci serve per comprendere analogicamente la natura spirituale di Dio.


5. La libertà nella conoscenza e la dimensione etica dell’attività scientifica


Sappiamo che la libertà è una proprietà della facoltà di volere, per la quale l’uomo è dotato di una capacità radicale, anche se non assoluta, di autodeterminazione. “Nel suo senso più intimo e positivo, la libertà va intesa come l’origine e il principio unico del proprio atto, e nel caso dell’uomo come completa autodetermina­zione: come posizione totale dell’atto umano nel proprio ordine ‑presupponente sempre l’essere ‑ da parte della persona. Occorre anche dire che la nostra libertà non sussiste in se stessa, ma è una proprietà della nostra facoltà di volere”.


5.I. La volontà e l’intelletto

La volontà presuppone l’intelletto ‑ nihil volitum nisi precogni­tum ‑, ma in un certo senso gli è superiore, in quanto lo domina avendo per oggetto il fine. E nel dominio sul fine si dà la vera ragione di libertà e di dominio. La volontà effettivamente, muove l’intelletto a considerare ciò ch’essa vuole: intelligo quia volo.

Fra le potenze dell’anima, la volontà ha la funzione di primo motore, e il suo atto è, in certo qual modo, previo agli atti delle altre facoltà, poiché li dirige e li utilizza in ordine al fine ultimo scelto”. Tale primato, però, non riguarda l’aspetto costitutivo delle facoltà, dove ha la precedenza l’intelletto, dato che la volontà presuppone una certa conoscenza dell’ens e del bonum, al quale tende spontaneamente, con appetito naturale (voluntas ut natura). Deve venire inteso, piuttosto, nel senso dell’esercizio attuale delle operazioni o atti secondi (voluntas ut ratio). L’esercizio della facoltà intellettiva dipende dalla volontà, dall’intensità del suo atto, dalla sua bontà o cattiveria, e soprattutto dal bene ultimo ch’essa ‑ e per suo mezzo l’uomo intero ‑ vuole, poiché “ ciò che è voluto prioritariamente costituisce, per i soggetti dotati di volontà, la causa del loro volere”.

La conoscenza di Dio, sia pure nel suo infimo grado, è decisiva per il destino dell’uomo, per la sua condotta morale e di conse­guenza condiziona in modo diretto e proprio l’esercizio della volontà umana. Perciò, l’esercizio stesso di tale volontà è determi­nante per lo sviluppo di questa conoscenza che denominiamo sapienziale, in quanto è sapere delle ultime cause e ordinatrice della vita umana. Per questo vi è un’inclinazione naturale, sia nell’intelletto sia nella volontà, a raggiungere senza deviazioni tale conoscenza e a portarla alla sua massima pienezza possibile.

La volontà muove l’intelletto verso il fine ch’essa vuole, e ciò condiziona non soltanto gli atti, ma anche gli abiti dell’intelletto. Fra questi troviamo la scienza, intesa come conoscenza certa attraverso le cause. La scienza è, infatti, un abito dell’intelletto, che si acquista mediante atti imperati dalla volontà, e che libera­mente può essere o non essere utilizzato.


5.2. Scienza e responsabilità etica

Di conseguenza, soprattutto per le scienze sapienzali come la filosofia e la teologia, la stessa scienza (o la sua privazione) rientra in un certo senso nell’ambito della responsabilità etica dell’uomo, poiché è affidata alle sue libere scelte.

I nostri tempi hanno visto scemare l’entusiasmo del secolo scorso per una scienza completamente svincolata da ogni norma morale: i risultati di una tale impostazione utopica sono stati davvero tragici (basti pensare alle ricerche di fisica nucleare asser­vite a scopi bellici). Tuttavia, risorge di nuovo una tale “mistica della scienza pura”, l’ideale di un illuminismo totale come meta che, raggiunta, renderebbe immediatamente l’uomo buono e risol­verebbe tutti i problemi sociali. Un tale ideale, invece, deve essere dichiarato illusorio, dato che la stessa pratica scientifica è impre­gnata di moralità ‑ o immoralità ‑; la conoscenza di per sé non rende l’uomo buono: a tal fine, infatti, occorre soprattutto la volontà buona, dalla quale procede la conoscenza buona. Conside­rare la scienza come un sapere salvifico è una nuova versione dello gnosticismo.

Va tenuto presente che non è soltanto la volontà ad essere il sog­getto del bene o del male morale, ma anche tutte le potenze che possono venire mosse dalla volontà‑. Per questo, l’errore, in quanto sottomesso alla volontà, può essere moralmente qualificabi­le.

Questi aspetti morali condizionano anche la assimilazione della scienza altrui: studio, insegnamento, apprendimento. L’i­struzione e la scienza sono orientate a conoscere il vero e il buono. Non è pertanto corretta la posizione di chi, lasciandosi prendere da un’ossessione di “obiettività”, crede che le scienze dovrebbero prescindere dai fini e dalle considerazioni morali. Ciò è impossibile, dato che lo stesso prescindere dai fini e dalle valutazioni etiche è già una posizione morale: infatti, non è possibile non porsi dei fini determinati, in accordo con certe norme (a volte inconfessabili). L’abuso della libertà in chi si allontana dal fine, porta a considerare la realtà prescindendo da ciò che sembra in armonia con il fine presente alla coscienza morale.

La conoscenza sapienziale è immediatamente morale ed è molto importante, dato che orienta tutto il sapere. Perciò, l’influenza morale è particolarmente incisiva nello studio della metafisica, e attraverso di essa giunge alle altre arti e scienze umane.


5.3. La sapienza e le scienze

La sapienza sta a capo di tutte le scienze, poiché considerando i principi di tutte le cose, regola tutte le conoscenze. Infatti, come i sensi dirigono i movimenti e le operazioni di tutte le membra del corpo, così la sapienza dirige tutte le altre scienze, che prendono da essa i propri principi. La sapienza naturale, nell’ordine scien­tifico, è la filosofia e, in senso stretto, la metafisica, che è la filosofia in quanto tale.

Dalle scienze seconde, fra le quali si trovano le cosiddette scienze positive, non ci si può attendere la sapienza in senso proprio: una visione completa e profonda della realtà non può essere mai raggiunta se si prescinde dalla sapienza; infatti, per quanto si prolunghi l’indagine nell’ambito delle cause seconde, che le scienze particolari fanno oggetto di studio dettagliato, non si arriverà mai al punto finale, finché non si passi al piano metafisico.


5.4. Rettitudine morale e conoscenza

Un sapere rettamente orientato richiede delle disposizioni morali che favoriscano l’atto buono della volontà. Si conosce meglio ciò che si ama, poiché l’amore rende connaturali l’amante e l’amato. Ora, come il simile viene conosciuto dal simile, in virtù dell’assimilazione conoscitiva di ordine intenzionale, la connaturalità affet­tiva e di amore rende possibile una conoscenza sempre più pro­fonda, stabile e progressiva.

La sapienza non si limita a percepire, ma formula un giudizio. Il giudizio presuppone una conoscenza ‑ il giudizio esprime la conoscenza ‑ e anche un’inclinazione: infatti, chi possiede una determinata virtù è naturalmente ben disposto a ben giudicare intorno a tutto ciò che si riferisce a tale virtù, anche se non l’abbia studiata scientificamente.

Concludendo. La nostra conoscenza inizia con l’ente, mediante i sensi; attratta dalla bontà reale, che gli enti posseggono in se stessi ma non da se stessi né per se stessi, essa conosce sé, il proprio principio e l’ordine della realtà al suo fine. Il rischio che corre la nostra conoscenza in ordine al nostro destino è in proporzione alla capacità della nostra libertà. Alla nostra conoscenza sapienziale è utile una libertà bene ordinata ed esercitata; d’altra parte, convie­ne alla nostra libertà una conoscenza sapienziale vera e conforme alle caratteristiche specifiche e individuali dell’intelletto umano: soltanto accidentalmente tali due aspetti possono presentarsi a volte dissociati. Per questo, è importante condurre una vita retta al fine di ottenere una conoscenza vera, e viceversa una conoscenza vera serve per vivere in modo virtuoso: il sapere filosofico è strettamente legato alla vita reale di ogni uomo. In ultima analisi, conoscere e amare costituiscono le attività vitali più caratteristiche dell’uomo.


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