06) Il Realismo Scolastico

I vari sistemi che abbiamo brevemente considerato non offrono una soluzione al problema della conoscenza che regga a un sereno esame critico, anzi contrastano coi dati più evidenti che il filosofo deve spiegare ma non può negare, e ci indicano la soluzione del problema nel male abbandonato realismo. E’ vero che un ritorno netto al realismo è sembrato e sembra tuttora a parecchi filosofi un regresso ad una posizione ingenua superata da due secoli di critica: è perciò che sono state proposte soluzioni intermedie che tendono a conciliare i postulati della moderna filosofia critica con le affermazioni del realismo classico?…
 

LEZIONE VI


Il Realismo Scolastico


 


1. – RITORNO AL REALISMO.


I vari sistemi che abbiamo brevemente considerato non offrono una soluzione al problema della conoscenza che regga a un sereno esame critico, anzi contrastano coi dati più evidenti che il filosofo deve spiegare ma non può negare, e ci indicano la soluzione del problema nel male abbandonato realismo.


E’ vero che un ritorno netto al realismo è sembrato e sembra tuttora a parecchi filosofi un regresso ad una posizione ingenua superata da due secoli di critica: è perciò che sono state proposte soluzioni intermedie che tendono a conciliare i postulati della moderna filosofia critica con le affermazioni del realismo classico. Basti ricordare il tentativo del Rosmini nel secolo scorso – rinnovato fino ai nostri giorni dai suoi discepoli e da filosofi per lui simpatizzanti – in quella corrente di pensiero denominato dallo Sciacca spiritualismo cristiano.
Analoghi tentativi di conciliazione troviamo nella scuola di Lovanio col Mercier, in Italia con lo Zamboni e coi vari sostenitori di un realismo mediato.


Siamo convinti che questi tentativi, lodevoli nell’intenzione, sono inefficaci nell’attuazione perché vogliono conciliare l’inconciliabile; e che la vera soluzione del problema della conoscenza sta nel realismo immediato della scolastica il quale non rinnega quanto di buono vi è nella filosofia moderna, ma difende quanto di perennemente vero vi ha nella filosofia antica, rivendicando il valore della ragione umana nella conoscenza del vero assoluto.


2. – IL REALISMO SCOLASTICO.


Il problema da risolvere era: possiamo conoscere la verità, conoscerla con certezza, con certezza filosoficamente giustificata di fronte ad ogni critica?


La filosofia scolastica risponde di sì, affermando la capacità della nostra mente di conoscere con certezza la verità nel senso genuino della parola, cioè conformità della nostra cognizione con la cosa in sé, con la realtà oggettiva.


Come lo dimostra?


A). Giova osservare che una vera dimostrazione non è né possibile necessaria, trattandosi di una affermazione che appare per sé evidente a chi vi si accosta con animo sereno e scevro da pregiudizi. Abbiamo detto che non è possibile dimostrare che la nostra ragione è capace di conoscere la verità, perché bisognerebbe avere un’altra ragione per giudicare della bontà della nostra. Criticare la ragione è assurdo, osservava vivacemente il Mattiussi a chi – con Kant – voleva fare la Critica della Ragione. Con che cosa la criticherete e la giudicherete voi se non con la ragione stessa? e poi, se giungerete alla conclusione che la ragione è buona vi si dirà, e giustamente, che per far questo avete supposto in tutta la vostra dimostrazione il valore della ragione, ossia che avete supposta come vera la conclusione che volete provare. Se invece arriverete a trovarla fallace, ricordatevi bene che non avrete dimostrato nulla; perché con quale buona ragione avete potuto scoprire che la ragione è cattiva? (MATTIUSSI, Dichiarazione del giuramento antimodernista, Bergamo, 1942, p. 41. Cfr. anche MATTIUSSI, Il veleno Kantiano, Roma, Univ. Gregor.).


Errarono quindi ed errano quanti con Cartesio ecc. pongono un dubbio universale positivo o negativo, reale o metodico, all’inizio del problema critico, perché da tale dubbio iniziale è impossibile uscire, non avendo altro strumento di conoscenza all’infuori di quelle facoltà di cui si dubita e si cade necessariamente nell’assurda posizione scettica già sopra confutata.


Dovremo allora ammettere dogmaticamente o ciecamente l’attitudine della nostra mente a conoscere la verità? Neppure, perché questa attitudine possiamo vederla e si crede dogmaticamente o ciecamente a quel che non si vede. Noi infatti possiamo riflettere sul nostro pensiero, perché il nostro pensiero è trasparente a se stesso, e vederne così immediatamente la natura, visione immediata che non è adesione cieca, vale più di qualunque critica dimostrazione e non può essere negata o messa in dubbio perché chi negasse o mettesse in dubbio la testimonianza immediata della coscienza dovrebbe rinunciare alla filosofia, a qualunque filosofia. Questa riflessione, in cui consiste la vera fenomenologia, ci mostra l’autentica natura del nostro conoscere e ci dà la conoscenza esplicita e formale della nostra attitudine al vero che è già implicita e virtuale in ogni atto di conoscenza diretta, per cui l’animo riposa tranquillo e sicuro, conscio delle solide basi su cui poggia il genuino realismo (Cfr. GIACON, Fenomenismo, realismo e idealismo, in “Riv. di Fil. Neoscol.”, Marzo 1941, pp. 168-194).


B). La riflessione ci mostra come la natura del nostro conoscere è di attingere la realtà oggettiva per conformarsi ad essa: siamo quindi capaci di conoscere con certezza la verità assoluta.


1. – La natura del nostro conoscere è di attingere la realtà oggettiva.


Nella nostra conoscenza – sia sensibile che intellettuale – noi abbiamo coscienza di apprendere non le nostre sensazioni o le nostre idee, ma una realtà che viene bensì a contatto col nostro pensiero, ma è indipendente dal nostro pensiero, che non è perché è conosciuta, ma è conosciuta perché è; oggetto immediato della conoscenza è dunque l’essere, la realtà oggettiva, non il pensiero o le modificazioni soggettive. E così deve essere.
Infatti, l’oggetto termine della conoscenza per natura deve (se non per durata), precedere la conoscenza. Ma ripugna che la conoscenza preceda se stessa; dunque l’oggetto della conoscenza è necessariamente presupposto al pensiero; non è il pensiero stesso, ed anche quando facciamo oggetto di pensiero un nostro pensiero, questo è realtà oggettiva presupposta al nuovo pensiero.
L’avere trascurato questo dato della conoscenza primitivo ed evidente, ha indotto certi filosofi alla falsa supposizione che immediatamente conosciamo le nostre idee, dalle quali dobbiamo passare alle cose e per fare questo passaggio è sorta la famosa questione del ponte, che fu il problema e il tormento dei cartesiani ed è il problema e il tormento dei moderni realisti mediati; problema insolubile perché – dicono bene gli idealisti – non si esce dal pensiero col pensiero e certi caratteri della nostra conoscenza cui appellano i realisti mediati per fare il passaggio, daranno luogo alle distinzioni idealistiche fra io empirico e trascendentale, ma non varranno a fare uscire dall’immanenza per passare alla trascendenza.
Ma abbiamo detto che di ponte non c’è bisogno, perché sensazione e idee sono nelle cose come in un loro termine e le hanno in sé come sentite e pensate. Le sensazioni e le idee non sono l’oggetto della cognizione, ma il mezzo con cui conosciamo, come la lente che non è veduta, ma ci fa vedere. Solo mediatamente le conosciamo; immediatamente si conoscono le cose, ed è errato chiudersi nelle idee e poi domandarsi se corrispondano alle cose.
La natura dunque del conoscere è attingere l’essere, la realtà oggettiva sia per mezzo dei sensi coi quali sperimentiamo la reale esistenza delle cose, sia per mezzo dell’intelletto che intus legit nelle cose, cioè ne penetra la natura.
Questo necessario riferimento all’essere, alla realtà oggettiva, appare ancor più chiaro nel giudizio; quando infatti affermo che “oggi piove” non intendo dire “io penso che oggi piove”, ma che è così nella realtà, al di là del mio pensiero; ed escludendo l’opposto, non intendo solo escludere il pensiero mio del non piovere, ma la realtà in sé del non piovere.
In questo senso ogni affermazione trascende il pensiero, è affermazione di realtà in sé e per sé. La natura quindi del conoscere è attingere l’essere, più o meno perfettamente, ma immediatamente si può graduare la conoscenza, ma non si può mediarla.


2. – La natura del nostro conoscere è di conformarsi alla realtà oggettiva.


Alla riflessione il conoscere appare non solo come un apprendere la realtà, ma un conformarsi ad essa; vediamo infatti che nei giudizi e nei ragionamenti il nostro intelletto cerca di adeguarsi alla realtà che apprende tanto che fino al momento in cui non è sicuro di conformarsi alle cose sospende il suo assenso.
a) Nei giudizi di esperienza. Se non vedo chiaramente se piove o non piove, cerco di investigare; e se non riesco a distinguere, non affermo né nego; sospendo il giudizio e cerco, non per saper il contenuto del mio pensiero, che so bene quale è, ma per potere adeguare veramente il mio pensiero alla realtà.
b) Nei giudizi analitici. Quando dico che 2 + 2 = 4 ho coscienza di affermare l’identità tra il soggetto e il predicato, perché vedo che realmente è così, e se dicessi il contrario la mia affermazione non corrisponderebbe alla realtà. Che se avessi un momento di esitazione, sospenderei anche qui il mio giudizio finché non vedessi chiaramente cosa realmente facciano 2 + 2.
c) Nei ragionamenti. Quando ci viene proposta una proposizione non immediatamente nota, per es. il teorema di Pitagora, la mente rimane perplessa; al solo esame dei termini non vede le ragioni di affermarlo né di negarlo, fluttua tra il sì e il no. Ma allo svolgersi della dimostrazione appaiono gli argomenti che provano la verità del teorema e la mente si sente inclinata ad aderirvi; se però ci sono dei dubbi e delle difficoltà, l’assenso non è pieno e incondizionato; solo al termine della dimostrazione, sciolte le difficoltà e dileguati i dubbi, la mente esclama “Adesso vedo, è evidente” e con certezza aderisce a quell’affermazione perché conforme alla realtà.


3. – Siamo quindi capaci di conoscere con certezza la verità assoluta.


La natura del conoscere è di attingere la realtà e di conformarsi ad essa; ma in questa adeguazione del conoscere alla realtà, sta la verità assoluta; dunque la natura della nostra mente è di conoscere la verità, conoscerla con certezza, il cui criterio è appunto l’evidenza.
Non si può dire che la natura è fallace perché è assurdo. Natura infatti dice tendenza ad uno scopo, movimento ad un termine; la natura del conoscere è tendenza ad apprendere l’essere; movimento a conformarsi all’essere. Se fosse fallace, tenderebbe al non essere, si muoverebbe verso il nulla; ma tendere al nulla, muoversi verso il nulla è non tendere, non muoversi: la natura non sarebbe natura, negherebbe se stessa il che è assurdo.
Noi dunque abbiamo la capacità di conoscere la verità; non dico tutta la verità, perché abbiamo coscienza della nostra limitazione, e neppure dico che la verità che conosciamo, la conosciamo perfettamente perché la nostra conoscenza è imperfetta (non nel senso che sia difforme dalla realtà, ma che non arriva ad esaurirla); abbiamo la capacità di conoscere la verità con certezza, non dico che tutte le nostre cognizioni siano certe perché non sempre il nostro intelletto riesce ad adeguarsi alla realtà (donde la fatica della ricerca e dello studio), ma che possiamo arrivare a conoscenze certe, e di fatto vi arriviamo quando la realtà ci è evidentemente proposta; allora abbiamo una certezza assoluta che non ammette dubbi. L’errore è impossibile nella nostra cognizione che si svolge secondo natura; esso può avvenire solo per accidens, per un intervento della volontà più o meno consapevole, che determina l’intelletto a irriflessione nel giudicare, a fermarsi ad una considerazione parziale dell’oggetto. Senso e intelletto per sé sono infallibili, non dicono e non possono dire che la verità.


Così, nonostante la diffidenza che la filosofia moderna, più o meno infetta di scetticismo, ha per la ragione umana, noi abbiamo piena fiducia che con la nostra ragione, purché procediamo con circospezione e prudenza, senza passione o pregiudizi, possiamo conoscere la verità, conoscerla con certezza, e con certezza filosoficamente legittimata.


3. – GENESI E SVILUPPO DELLA CONOSCENZA.


Dimostrato il fatto che la mente è capace di conoscere la verità, resta a spiegare il modo con cui arriva a conoscerla. Ecco in breve riepilogata la dottrina scolastica in armonia coi dati dell’esperienza.


l. La mente riceve gli elementi delle sue cognizioni mediante i sensi. Rigettiamo le idee innate di Platone, Cartesio, ecc. e affermiamo che nulla è nell’intelletto che non abbia in qualche modo tratto origine dai sensi. Così si spiega l’assoluta mancanza di certe idee (colori) a chi manca di qualche senso (vista), il ritardo dell’attività dell’intelletto finché la parte sensitiva non abbia raggiunto una certa perfezione e, in generale, quella connessione manifesta tra i fenomeni della vita intellettiva e quelli della vita sensitiva.


2. La cognizione sensitiva è dunque l’alba e l’inizio di tutto l’ordine conoscitivo umano. I sensi esterni quando operano nello stato normale, attingono con certezza, senza tema di illusioni, l’oggetto loro proprio e proporzionato che venga in debita maniera presentato e ci danno l’irrecusabile testimonianza della reale esistenza dei diversi sensibili percepiti. Il senso però nulla dice della loro costituzione entitativa: apprende infallibilmente questo colore, quel suono, ma non dice quale sia la natura del colore e del suono, se siano qualità semplici o complesso di vibrazioni e moti. Questo dovrà prudentemente dedurlo l’intelletto esaminando quale sia la natura delle cose; è perciò indifferente dal lato critico la questione agitata tra percezionisti e interpretazionisti.


3. I dati dei sensi esterni vengono riuniti dal senso comune, conservati nella memoria sensitiva, riprodotti nel fantasma o immagine complessiva delle qualità raccolte in uno stesso soggetto. Qui si ferma la conoscenza sensitiva sufficiente alla vita animale per discernere le varie cose e dirigere i movimenti. Ma nell’uomo v’è di più.


4. Il fantasma è presentato all’intelletto; questa per intima forza di natura, intus legit, legge le note essenziali astraendo, universalizzando, spiritualizzando; il fantasma rappresenta questa cosa, questa sostanza, questo uomo, e l’intelletto ne astrae l’idea universale di ente, di sostanza, di uomo, ecc.; idee dapprima più universali che poi a poco a poco col moltiplicarsi dei dati dell’esperienza, coi rapporti e confronti fra una nozione ed un’altra, vanno sempre più determinandosi e danno una conoscenza più completa e perfetta delle cose.
Per mezzo delle idee noi quindi conosciamo realmente le cose, la loro natura, benché con più o meno perfezione e in quel modo che, è proprio della nostra natura; le cose nella realtà sono concrete e singolari, noi invece le conosciamo in modo astratto e universale: ciò che noi conosciamo, è realmente nelle cose, benché non nello stesso modo. Questo è da tenersi presente sia per risolvere il famoso problema degli universali (che ha dato appunto origine a tanti errori filosofici da Platone a Kant e da Kant a tanti filosofi moderni), sia per spiegare la genuina natura della nostra cognizione, che non è un mero specchio in cui passivamente è riprodotta la realtà, ma è cognizione attiva, attività però che non è creazione o deformazione dell’oggetto, ma verace apprendimento dell’oggetto secondo la natura del conoscente.


5. Alla formazione dei primi concetti segue naturalmente l’intuizione dei primi principi (di contraddizione, di ragion sufficiente, di causalità, ecc.) che perciò sono reali e oggettivi, non vuoti schematismi mentali. Infatti, accennando per ora solo al principio di non contraddizione (per il principio di causalità cfr. lez. XVII), per reale necessità ciò che è, mentre è, non può non essere, il no e il sì sono incompatibili nello stesso oggetto, sotto il medesimo rispetto, e la mente l’afferma non per bisogno che essa abbia di pensare così, ma per necessità intrinseca delle cose che alla mente si impongono.


6. Dopo l’intuizione dei primi principi la mente procede nella ricerca della verità per via di ragionamento deduttivo e induttivo: ragionamento deduttivo quando da giudizi più universali scende a conclusioni più particolari; ragionamento induttivo quando invece dal particolare passa all’affermazione universale, dopo avere con l’esperimento conosciuto ciò che appartiene all’essenza di un oggetto, per es. di un uomo, e fondandosi sulla necessaria verità che ciò che appartiene alla natura di un oggetto si verifica in tutti gli oggetti della stessa specie: se l’uomo di natura sua è mortale, tutti gli uomini necessariamente sono mortali; e se è della natura dell’acqua bollire a cento gradi, tutta e sempre l’acqua bollirà a cento gradi. L’induzione ha particolare importanza nelle scienze, le quali – col moltiplicarsi delle esperienze – arrivano non solo a semplici ipotesi, ma anche a conoscenze certe della realtà: non solo a formulare leggi semplicemente statistiche, ma anche alla conoscenza di vere leggi naturali.


7. Dalla genesi dei nostri concetti e dalla natura dell’essere intelligente umano, composto di anima e di corpo, consegue che l’oggetto proporzionato alla nostra intelligenza è la natura delle cose sensibili. Delle cose spirituali che trascendono i sensi, la nostra mente non può averne concetto immediato e adeguato; può però conoscerne con certezza l’esistenza per il rapporto che esse hanno con le cose sensibili, e della loro natura si può formare un concetto analogo.


Così a poco a poco si è venuto costruendo il grande edificio delle scienze e della filosofia, frutto del laborioso travaglio delle più elette intelligenze umane, prezioso patrimonio dell’umanità che le nuove generazioni devono continuare e perfezionare per trasmetterlo sviluppato e arricchito alle future generazioni.


(Continua)


Bibliografia. 


VANNI ROVIGHI, Elementi di filosofia, Vol. I. Introduzione e Logica, Como, Cavalleri – GIACON, Il problema della trascendenza, Milano, Bocca – FARGES, La crisi della certezza, Siena, S. Bernardino – LANNA, La teoria della conoscenza di S. Tommaso d’Aquino, Firenze, Ed. Fiorentina.