UTILE ED UTILITARISMO

L’Utilitarismo è la dottrina che pone per fondamento della morale l’utilità, sostenendo che le azioni sono buone nella misura in cui forgiano i mezzi del benessere materiale, e cattive nella misura in cui tendono a produrre il contrario. L’utilitarismo si risolve in un eudemonismo empiristico, che ha le sue radici nella concezione materialistica dell’uomo

UTILE ED UTILITARISMO


 UTILE


Utile, secondo la sua stessa etimologia, indica quel bene strumentale che un soggetto percepisce come mezzo di soddisfazione dei suoi bisogni o interessi, oppure quel bene che è oggettivamente mezzo per il conseguimento di un fine. In economia ha preso un significato più particolare, come sinonimo di guadagno o profitto.


S. Tommaso, seguendo Aristotele (Eth. Nic., I, c. 3), distingue il bene secondo la triplice ragione formale di onesto, dilettevole e utile: l’onesto è bene in e per , è il fine oggettivo perfezionante l’uomo; il dilettevole è bene in , in quanto rappresenta la quiete del desiderio soggettivo con il conseguimento del fine; l’utile invece non è un bene in , ma in quanto è mezzo per il conseguimento dell’onesto e del dilettevole (Sum. Theol., Ia, q. 5. a. 6). La ricerca dell’utile è propria dell’uomo, che non può raggiungere i suoi fini se non mediante l’uso razionale più opportuno dei mezzi necessari per conseguirli (ibid., Ia -2ae , q. 16, a. 2). Tutti i beni particolari possono considerarsi mezzi e quindi utili in ordine al fine assolutamente ultimo, cioè la felicità o beatitudine; in tanto sono onesti e dilettevoli, in quanto in in qualche modo partecipano della ragione del fine ultimo e in quanto sono voluti come mezzo per il raggiungimento della beatitudine. L’etica può quindi considerarsi come la scienza del retto ordinamento dell’attività utilitaristica in ordine al conseguimento della felicità. Mentre l’empirismo prende la felicità come espressione del piacere sensibile e quindi fa dell’etica la scienza empirica del massimo piacere e del minimo dolore (v. utilitarismo), tutto il razionalismo è concorde nel dare alla felicità il valore di possesso intellettuale del bene in tutta la sua ragione universale, e quindi nel dare all’etica il significato di filosofia che, alla luce dei principi razionali, pone l’attività utilitaristica sul piano dell’assolutezza dell’onesto. Platone, pur riconoscendo l’attività interessata come fonte della vita associata e dell’organizzazione sociale mediante la divisione del lavoro (Resp., II, cap. 11), esige che la ragione superi ogni interesse particolare e moderi la stessa attività utilitaristica in favore della polis. Anche Aristotele afferma che l’etica, come scienza delle virtù in ordine all’operazione perfetta, dirige l’attività utilitaristica sul piano dell’oggettiva onestà e quindi la rende strumento di vero perfezionamento umano: non è però da distruggersi l’interesse particolare (Polit. II, 4, 1262 b), che è espressione del desiderio naturale della felicità, ma da educarlo con le virtù affinché l’individuo ricerchi rettamente gli interessi particolari (etica monastica), familiari (etica economica) e civili (etica politica), e attraverso la vita pratica sia capace della vita contemplativa.


Il cristianesimo ponendo Dio come fine ultimo e fonte della beatitudine perfetta, ha posto la vita morale essenzialmente nell’interiorità della vita personale, come espressione di un amore sempre più perfetto verso Dio; tuttavia ha sempre riconosciuto il valore della vita pratica, come retto uso dei beni terreni a servizio di Dio, per il bene proprio e dei propri simili (s. Agostino, De vera religione, capp. 19-20, 46, 47). La bontà formale ed oggettiva di questa attività pratica (economica e politica) deve essere data, alla luce della filosofia e teologia morale, dall’esercizio delle virtù morali. Non si può dare quindi vero utile che non sia onesto, secondo il detto ciceroniano «Maneat ergo quod turpe sit id nunquam esse utile» (De offic. III, 12). La subordinazione dell’attività utilitaristica all’etica non aveva tuttavia impedito agli antiche e a s. Tommaso di constatare che il processo utilitaristico, sia politico che economico, presenta in sé resistenze naturali, di cui il moralista, l’uomo di affari e il politico non possono non tener conto. Già in Platone è presente questa constatazione (cf. L. Robin, Platon et la science sociale, in  La pensée hellénique des origines à Epicure, Parigi 1922, p. 229), ma ancor più in Aristotele e s. Tommaso: tuttavia essi non seppero elevare la ricerca del processo utilitaristico a scienza autonoma.


Fu Machiavelli a dare all’attività utilitaristica politica il significato di scienza positiva autonoma; ma egli, respingendo ogni sua subordinazione all’etica, cadde in pieno relativismo morale e nel totale assoggettamento di ogni individuo o popolo al calcolo del giuoco politico. Contro il machiavellismo solo apparentemente cercò di opporsi il «tacitismo» del ‘600, che sotto la veste di uno specioso moralismo cercò coprire il principio utilitaristico della ragion di Stato (cf. G. Toffanin, Machiavelli e il ‘tacitismo, Padova 1921).


Teorico dell’assolutismo monarchico fu l’Hobbes, che tentò spiegare la sottomissione degli interessi particolari propri dello stato egoistico di natura all’interesse monarchico, proprio dello stato civile, con il contratto sociale, fondato sul timore. Anche l’economia fu tolta alla subordinazione dell’etica e al calcolo dell’iniziativa privata per essere sottomessa alla scienza dell’utile pubblico: sorse così il mercantilismo (v. mercantilismo).


L’individualismo, sia razionalistico che empiristico, impose la liberazione dei cittadini dal giuoco dell’interesse pubblico: mostrò come la stessa iniziativa privata fosse fonte del benessere pubblico, e come l’attività utilitaristica fosse fondamentalmente economica. Mentre dal razionalismo l’economia fu elevata a scienza autonoma secondo leggi naturali evidenti scoperte dalla ragione (fisiocratismo), l’empirismo inglese per opera dello Smith cercò di stabilire l’economia come scienza autonoma, identificata con la stessa morale, e retta da leggi deterministiche naturali inerenti alla stessa iniziativa privata, conciliante in sé egoismo e altruismo, dando così origine alla economia liberale. Nella filosofia contemporanea lo storicismo, il vitalismo e il pragmatismo (v. pragmatismo) hanno fatto dell’attività utilitaristica un’espressione di spontaneità individuale o sociale, senza che la ragione umana possa divenire norma di essa e senza che la volontà la possa rettamente dirigere.


Scienza politica e scienza economica sono vere scienze positive autonome degli utili umani; ma esse esigono la subordinazione alla filosofia morale e politica, affinché la persona umana nelle contingenze storiche delle utilità possa realizzare i suoi assoluti valori umani individuali e sociali.


(Tullio Piacentini)


 


UTILITARISMO


E’ la dottrina che pone per fondamento della morale l’utilità, sostenendo che le azioni sono buone nella misura in cui forgiano i mezzi del benessere materiale, e cattive nella misura in cui tendono a produrre il contrario (cf. J. Stuart Mill, Utilitarianism, cap. 2, § 4, Londra 1863). L’utilitarismo si risolve in un eudemonismo empiristico, che ha le sue radici nella concezione materialistica dell’uomo.


L’immediatezza sensualistica, propria dell’edonismo, è portata dalla mediazione di riflessione razionale a superarsi in una ricerca di mezzi più adeguati per il conseguimento di un piacere generalizzato, stabile e completo, che prende il nome di felicità. Nella filosofia greca l’utilitarismo ebbe un aspetto prevalentemente negativo, passivo e antisociale: la riflessione razionale fu infatti considerata come una mediazione di liberazione da tutti gli impulsi soggettivi e i legami sociali e religiosi, che fossero di impedimento alla perfetta quiete interiore del soggetto. In questa direzione si sviluppò l’edonismo cirenaico, fino a giungere alla negazione pessimistica dello stesso valore della vita (Egesia). L’utilitarismo, negativo e antisociale ebbe la sua più completa elaborazione nella dottrina epicurea. Secondo Epicuro (v. epicuro), solo la conoscenza scientifica della natura materiale dell’universo e del dominio psicologico degli istinti rende possibile compiere quel perfetto calcolo utilitaristico, che assicura lo stato di serena tranquillità: i bisogni si distinguono in naturali necessari, che debbono essere soddisfatti, in naturali non necessari, che possono essere soddisfatti con moderazione intelligente, ed infine in non naturali, dipendenti dalla consuetudine, che debbono essere sacrificati in nome della propria felicità (cf. Diogene Laerzio, X, 36). L’epicureismo rappresenta una piena distruzione di tutti i valori morali e sociali e religiosi: pur nella sua raffinatezza, è un codice di vita senza ideali, essenzialmente egoistico e sensuale che, portato a tutte le sue conseguenze, non può risolversi se non in un pessimismo integrale.


Nella filosofia moderna, l’utilitarismo, ad opera dell’empirismo e positivismo inglesi, ha invece assunto un carattere nettamente positivo, attivo e sociale. Le sue premesse sono da ricercarsi: nella concezione egoistica dell’uomo (Hobbes), secondo cui ogni azione umana è sempre radicalmente motivata dal piacere o dolore; nella dottrina attivistica, che pone la perfezione individuale nell’appropriazione utilitaristica mediante il lavoro (Locke); nella tendenza di porre la natura della morale nella limitazione altruistica della tendenza egoistica; nelle teorie morali del sentimento, neganti l’estrinsecità dell’imperativo morale sia da parte delle leggi civili (Hobbes, Locke), che da parte delle leggi religiose (utilitarismo teologico di Tucker e Paley); nell’empirismo negatore dell’apriorismo razionalistico; ed infine nella psicologia associazionalistica, secondo la quale (Hartley, Priestley) gli elementi semplici del piacere si compongono meccanicamente nei bisogni dell’istinto d’interesse, e i beni strumentali assumono essi stessi il carattere di fine, sì che lo stesso altruismo è da considerare fondamentalmente un bisogno interessato. La dottrina utilitaristica moderna ebbe la sua prima formulazione ad opera del Bentham (v. bentham). Egli fece sua la definizione della tendenza interessata propria degli associazionisti: «la maggior felicità per il maggior numero» (J. Priestley, Essay on principles of government, Londra 1768; J. Bentham, Déontologie, tr. B. Laroche, I, Parigi 1834, p. 86), e vide in essa il criterio oggettivo, dato dalla stessa natura, affinché potesse ogni individuo razionalmente dirigere la propria attività al suo massimo piacere ed insieme soddisfare le esigenze altruistiche della morale. Necessità quindi della deontologia ch’è «l’arte di fare ciò che è conveniente fare», o scienza soggettiva di calcolare oggettivamente la quantità di piacere o dolore che ogni azione può produrre, alla luce delle sette dimensioni che ogni vero piacere in sé contiene (Introduction to the principles of morals and legislation, Oxford 1807, cap. IV): è una vera aritmetica del piacere, che per il suo contenuto altruistico si eleva a dignità morale, e per il suo valore scientifico assicura l’efficacità dell’azione. La conciliazione degli interessi fra i diversi soggetti operanti è data in parte naturalmente dalla stessa deontologia soggettiva di ciascuno, per il suo carattere altruistico e per il calcolo delle sanzioni sociali che necessariamente provengono dai contrasti di interesse; ma soprattutto artificialmente dalla legislazione penale: l’autorità pubblica infatti deve compiere una deontologia, basata sul criterio dell’interesse generale, e quindi calcolare il grado delle pene, in modo da bilanciare il grado di piacere contenuto nelle azioni contrarie all’interesse generale.


L’utilitarismo di Bentham fu tuttavia immediatamente superato dai suoi continuatori, in un senso naturalistico, identificante l’interesse particolare con l’interesse generale. Ne derivarono due tendenze utilitaristiche contrastanti: quella dell’individualismo anarchico (Godwin), che dalla fusione naturale degli interessi singoli derivò logicamente la negazione dello Stato, e fece del soggetto individuale l’arbitro assoluto della propria attività; e quella del positivismo di J. Stuart Mill e H. Spencer. J. Stuart Mill respinse la possibilità del calcolo quantitativo dei piaceri a favore della loro valutazione qualitativa e negò al soggetto interessato la possibilità di compiere con metodo scientifico lo studio delle vere utilità umane. La sua posizione viene così a coincidere con il pensiero razionalistico; ma solo apparentemente, perché non dall’apriorismo filosofico né da pretesi ideali morali può derivare l’etica, bensì da una scienza induttiva, che con il criterio utilitaristico dell’interesse generale, in cui naturalmente confluiscono gli interessi particolari, stabilisce le leggi positive dell’attività umana. La moralità è quindi frutto di educazione sociale, a cui ogni singolo soggetto è psicologicamente preparato per le leggi dell’associazione, sì da poter trovare nella sua stessa tendenza altruistica, derivante dall’egoismo, il motivo stesso dell’obbligazione morale. Con H. Spencer (The data of ethics, Londra, 1879) l’utilitarismo perde ogni significato di valutazione morale, per divenire un canone interpretativo della genesi e sviluppo della morale secondo le leggi dell’evoluzionismo biologico. Il bruto egoismo iniziale, per l’associazionismo psicologico, l’ereditarietà e la selezione naturale nella lotta per la vita, si è trasformato nell’ego-altruismo, di cui è propria l’obbligazione, morale per tendere al puro altruismo, che fa della morale un fatto spontaneo. Come mediazione fra la posizione anarchica e quella sociale dello Stuart Mill, il pensiero inglese ha mantenuto una concezione empiristica soggettiva, tendente a conciliare praticamente il massimo interesse proprio con l’interesse del maggior numero: una specie di egoismo filantropico. Il suo massimo rappresentante è H. Sidgwick (Methods of ethics, 3a ed., Londra 1884), che definisce il bene morale: «Ciò che un uomo può desiderare» (ibid., p. 401). L’utilitarismo rappresentò la concezione morale inglese per tutto l’800; ma verso la fine del secolo se ne iniziò efficacemente la critica, specialmente ad opera di H. F. Bradley (Ethical studies, 1876). Ebbe anche una certa influenza nei paesi dell’Europa continentale, tanto che A. Manzoni sentì la necessità di aggiungere aqlla 2a ed. delle sue Osservazioni sulla morale cattolica una lunga confutazione «del sistema che fonda la morale sull’utilità». L’utilitarismo inglese ha certamente portato un notevole contributo allo studio scientifico dei bisogni umani, specialmente economici, e delle correlazioni innegabili fra iniziativa privata e bene pubblico. Ma tutte le premesse da cui è partito sono radicalmente errate, basandosi su un empirismo negante ogni valore assoluto alla conoscenza e volontà umana.


È vero che l’interesse è una molla fondamentale di tutta l’attività umana e che ogni uomo agisce sempre per la sua felicità; ma è anche vero che la morale impegna la coscienza dei singoli al sacrificio degli interessi contingenti e della felicità empirica in nome di valori umani, che valgono in sé e per sé, ed il cui possesso dà all’uomo il suo pieno valore. Non è l’efficacia dell’azione utilitaristica che dà all’uomo la bontà morale, ma è la bontà morale che impegna il soggetto ad un’attività utilitaristica che sia vero strumento del perfezionamento umano. L’altruismo non rappresenta l’essenza della moralità, ma ne è conseguenza: la persona umana infatti riconosce il valore delle altre persone, solo quando riconosce il carattere assoluto del bene a cui ogni persona naturalmente aspira. Volere la propria felicità e la felicità degli altri, è volere a sé e agli altri il bene assoluto. E poiché il bene assoluto umano è ultimamente lo stesso Dio, sopra ogni cosa: nessun uomo può raggiungere la perfezione morale, finché non aderisce totalmente alla volontà divina, e fa della sua attività terrena un servizio di collaborazione per il bene proprio e dei propri fratelli. Negli stadi iniziali della formazione morale può pedagogicamente essere usato il motivo utilitaristico per sostenere lo sforzo soggettivo di ubbidienza alla legge mora: ma non si può mai parlare di vera vita morale senza un amore incondizionato al bene onesto.


(Tullio Piacentini)