S. MARGHERITA D’UNGHERIA (1242-1270)

Nel 1252 la santa fu trasferita con diciotto religiose e altre postulanti nel monastero che i genitori avevano fatto costruire in onore di Maria SS. nell’Isola delle Lepri, sul Danubio, presso Buda, per attirare le benedizioni di Dio sull’Ungheria. In quell’oasi di preghiera e di penitenza Margherita raggiunse in breve tempo la più alta perfezione, benché il padre ogni tanto andasse a farle nuove proposte di matrimonio con poca coerenza al generoso proponimento fatto nel tempo della disfatta, per rafforzare il regno con l’allargamento del fronte delle parentele. Margherita gli oppose sempre il più reciso rifiuto sostenuta in questo proposito dai Frati Predicatori, il cui convento era stato eretto nel 1259 dalla regina a poca distanza dal monastero delle religiose per concessione di Alessandro IV.

18 gennaio

Nel secolo XIII nella dinastia ungherese degli Arpad ci fu una sorprendente fioritura di sante. Tra esse emerge per le sue straordinarie penitenze S. Margherita, monaca domenicana, figlia di Bela IV, re d’Ungheria ( + 1270) e della principessa greca Maria. Ella era nipote di S. Elisabetta di Turingia (+1231), cugina in secondo grado di S. Agnese di Praga (+1282), sorella carnale della B. Cunegonda di Polonia (+1292) e della B. Jolenta di Polonia-Kalisch(+1299).
Pare che il re e la regina dopo l’invasione dei Tartari di Ungheria (1241), abbiano promesso di consacrare a Dio, in un monastero, la figlia che avrebbero ancora avuto, per ottenere da lui la liberazione del loro regno dalle orde barbariche. Essendo state esaudite le loro preghiere, la madre affidò la sua Margherita, nata nel castello di Znióvàralja nel 1242, alle domenicane di Santa Caterina di Veszprèm, che attendevano all’educazione delle figlio della nobiltà magiara, perché la formassero alla vita monacale. La predestinata bambina, di appena quattro anni, imparò presto a leggere, a scrivere, a recitare l’ufficio della B.V. Maria. A cinque anni chiese di indossare la bianca tonaca delle religiose e di praticare come loro la disciplina. Il venerdì santo del 1247 digiunò per la prima volta. A sei anni indossò un cilicio, ma Suor Olimpia, sua maestra, le concesse di farne uso soltanto di giorno e non sulla nuda carne. A sette anni il padre, già dimentico delle promesse fatte, conforme agli usi del tempo, le propose di andare sposa a Boleslao VI, duca di Polonia, ma la piccina gli rispose risoluta: “Io voglio servire il Signore Gesù. Piuttosto di sposarmi, mi mozzerò il naso”.
La santa avrebbe preferito emettere i voti religiosi, ma le fu risposto che era ancora troppo giovane. Che fece allora Margherita, che piangeva e si credeva diffamata quando veniva chiamata “la figlia del re”? Un giorno, rivestita dell’abito di una domenicana, si recò con le compagne in chiesa e, davanti all’altare, intonò il Veni Creator e imitò la cerimonia della professione religiosa. Poi, cosi vestita, si presentò alla priora e alle altre monache.
Nel 1252 la santa fu trasferita con diciotto religiose e altre postulanti nel monastero che i genitori avevano fatto costruire in onore di Maria SS. nell’Isola delle Lepri, sul Danubio, presso Buda, per attirare le benedizioni di Dio sull’Ungheria. In quell’oasi di preghiera e di penitenza Margherita raggiunse in breve tempo la più alta perfezione, benché il padre ogni tanto andasse a farle nuove proposte di matrimonio con poca coerenza al generoso
proponimento fatto nel tempo della disfatta, per rafforzare il regno con l’allargamento del fronte delle parentele. Margherita gli oppose sempre il più reciso rifiuto sostenuta in questo proposito dai Frati Predicatori, il cui convento era stato eretto nel 1259 dalla regina a poca distanza dal monastero delle religiose per concessione di Alessandro IV. Nel 1254 il capitolo generale dell’Ordine vi elesse Maestro generale il P. Umberto de Romanis (+1277) nelle cui mani Margherita, dodicenne, emise con altre monache la professione religiosa.
Secondo l’autore della Vita Anonima da quel giorno la santa prese a meditare più sovente e a commentare con le consorelle i grandi esempi lasciatile dagli antenati: S. Stefano (+1038), primo re e apostolo dell’Ungheria, S. Emmerico, figlio di lui (+1031), e S. Ladislao il Pio (+1095). Le monache nel processo apostolico furono concordi nel dire che
ella praticò tutte le virtù in grado eroico, sia pure in maniera molto originale. Anche sua nipote, figlia della duchessa Anna, pur non nutrendo molta simpatia per lei a motivo delle preferenze che la superiora le dimostrava quando era sofferente, fu costretta a prestare fede alla santità della zia in seguito a un miracolo che aveva chiesto e ottenuto.
Un atto di Bela IV del 1259 parla della donazione che egli fece di varie terre al monastero dell’Isola delle Lepri su cui esercitava il “ius patronatum”. L’anno successivo, con l’approvazione di Alessandro IV, lui e la regina cercarono di convincere la figlia a maritarsi con Ottocaro, re di Boemia, ma la santa dichiarò che era decisa a conservare inviolata la sua verginità a costo anche della scomunica. Il 14-6-1261 potè così ricevere con tre sue parenti il velo dalle mani di Filippo, arcivescovo di Stringonia, nella chiesa del monastero. Quel favore la preparò a sopportare con fortezza le sofferenze che le avrebbero cagionato le gravi discordie sorte nella sua famiglia dal 1262 al 1266.
Dopo la morte di Federico II, ultimo discendente della casata di Babenberg, che aveva fondato il margraviato austriaco, la Stiria era stata annessa all’Ungheria, e Bela IV ne aveva offerto il governo (1254) al suo figlio maggiore, Stefano. Costui, dopo avere regnato come sovrano assoluto sulla regione per cinque anni, la dovette cedere (1259) quasi interamente a Ottocarro, re di Boemia. Egli chiese allora al padre di dividere con lui il regno e il potere secondo le usanze. Il re nominò Stefano principe di Transilvania e capo
dei Cumani, mentre a Bela, il figlio minore, affidò il governo dei domini meridionali. Stefano non fu soddisfatto della ripartizione fatta perché gli sembrava che il padre favorisse il fratello a suo discapito, e temeva che lo escludesse dalla successione al trono. Cominciò quindi ad armarsi, e nel 1264 si sollevò contro il padre. La lotta assunse proporzioni di una vera guerra civile perché coinvolse anche i membri del clero e della nobiltà, costò la vita a migliaia d’innocenti, e turbò la pace del monastero dell’Isola delle
Lepri, popolato da settanta religiose, metà delle quali erano di sangue reale, e delle famiglie principesche più o meno implicate nella guerra intestina.
Chi maggiormente ne soffrì fu Margherita la quale, più delle altre, era in grado di valutare il male commesso dai belligeranti per orgoglio e avarizia, i rancori che laceravano la sua famiglia, i danni che ne derivavano alle chiese, ai conventi, agli innocenti. Per ottenere la pace e il ristabilimento dei diritti conculcati, si cinse i fianchi con una pelle di riccio, intensificò le flagellazioni, si fece stringere le braccia con funi e mettere dei piccoli chiodi sporgenti nelle scarpe. La posizione da lei assunta a favore di Stefano non fu condivisa da tutte le consorelle e meno ancora dal padre, che ne fu grandemente indignato. In tutte le maniere cercò di farle abbandonare il partito preso, non escluse le ingiurie e le minacce. Non riuscendo a nulla, la fece relegare con le monache contrarie alla sua politica in un monastero di donne cistercensi, e ordinò che fossero loro sottratti anche gli aiuti necessari alla sussistenza.
Margherita continuò a pregare e a condurre vita penitente, finché proprio nell’Isola delle Lepri padre e figlio si riconciliarono (1266). Nel periodo della lotta, la vita regolare, la carità e il silenzio dovettero andare soggetti a gravi infrazioni nel monastero se il P. Marcello, il primo Priore Provinciale dei Domenicani, di ritorno dal capitolo di Montpellier (1265), si senti in dovere di imporre ad una ventina di religiose di restare per un certo tempo a pane e acqua. Margherita fece pregare il Priore d’imporre anche a lei quella pubblica penitenza, non volendo dare la sensazione alle consorelle di esserne risparmiata soltanto perché era la figlia del re. In quegli anni di divisioni, di polemiche e di contrasti non è improbabile che anche lei abbia pagato il suo tributo alla debolezza umana.
Bela IV, smanioso di moltiplicare le parentele con i matrimoni, nel 1268 pensò ancora una volta di dare Margherita in sposa a Carlo d’Angiò, dal 1266 re di Napoli, ma appena si cercò di farle credere che persino Clemente IV era disposto a concederle la dispensa dai voti, alla sua maestra, Olimpiade, ella rispose senza indugio: “Anche se il papa mi ordinasse di maritarmi io non sarò cosi stolta da perdere la verginità”. Dei suoi ventisei anni, ventitré li aveva trascorsi nei monasteri delle domenicane, sempre dedita con straordinario fervore all’orazione. Alle pratiche di pietà prescritte dalla regola ella ne aggiunse giorno e notte numerose altre. Quante volte le consorelle la trovarono addormentata sulla stuoia accanto al misero giaciglio sulla quale si era inginocchiata per fare orazione!
In quaresima Margherita recitava ogni giorno il salterio; negli ultimi tre giorni della settimana santa non interrompeva i suoi esercizi, neppure per rifocillarsi o per dormire; la vigilia di Natale recitava mille volte il Padre nostro prostrandosi per terra; la vigilia di Pentecoste cantava mille volte il Veni Sancte Spiritus; la vigilia della Natività della Madonna, dell’Annunciazione e dell’Assunzione recitava mille volte l’Ave Maria. Quando la malattia non le permetteva di dire dette preghiere, si faceva sostituire da una consorella. Ogni tanto la maestra l’esortava alla moderazione o le rimproverava la singolarità, ma la penitente non se ne dava per inteso. Un giorno, essendo stata trovata esanime davanti all’altare, fu ripresa energicamente perché così facendo, si sarebbe abbreviata la vita. Vedendola quasi sempre prostrata al suolo mentre pregava, Suor Olimpiade le disse risentita: “Perché state sempre con la faccia e il naso per terra come un porco? Cercate forse Iddio per terra? Non vedete che vi rovinate la salute?”
Margherita faceva abitualmente oggetto delle sue meditazioni la Passione di Gesù. Attingeva argomenti di riflessione anche dalle vite dei santi che si faceva leggere dalle persone addette al suo servizio. All’ora del pranzo, invece di mangiare, si copriva talora la testa con un velo e pensava a Dio. Anche quando era di turno in refettorio, dopo avere servito la comunità, si recava a pregare nella sala capitolare, oppure nella cappella, e non ritornava che alla fine dei pasti. L’Eucaristia esercitava su di lei una specie di seduzione. Faceva difatti le sue preghiere di preferenza davanti all’altare della Santa Croce perché in esso era conservato il SS. Sacramento. Durante la Messa e alta comunione non poteva trattenere i sospiri e le lacrime al contemplare l’ostia santa.
Al grande spirito di orazione Margherita univa anche una profonda umiltà e una sincera carità, verso il prossimo. Non voleva che le fossero usate preferenze perché era la figlia del re, ne voleva venire esentata dagli uffici più umili e gravosi della lavanderia, della cucina e dell’infermeria. P. Marcello attestò che la santa gli chiese il permesso di fare il suo turno di servizio, di portare il cilicio, di digiunare a pane e acqua la vigilia delle feste del Signore e della Madonna, e di distribuire ai poveri i regali che riceveva dai genitori. Il giovedì santo era lieta quando la Priora le concedeva di lavare i piedi alle consorelle e alle persone addette al loro servizio. Se qualche religiosa cadeva inferma, Margherita la curava con pazienza e abnegazione senza mai dimostrare risentimento o disgusto per gli umili servizi che doveva prestare. Se la superiora o il confessore le raccomandavano di non affaticarsi tanto per non contristare i genitori, ella, mossa da interna ispirazione, si
limitava a supplicarli : “Permettetemi di fare questo nel nome di Gesù”. La stessa frase ripeteva quando la Priora la rimproverava perché si fasciava la testa con la grossolana benda riservata alle persone di servizio e non con quella propria di una religiosa professa e velata come lei.
La santa a suo uso riservava le vesti più povere e più rattoppate. Non si curava molto dell’igiene personale. Per diciassette anni non fece il bagno. È probabile che, come gli anacoreti e gli stiliti nel deserto, si curasse poco della pulizia per spirito di penitenza, nonostante che Suor Olimpiade la supplicasse sovente di radersi i capelli tra cui i pidocchi avevano stabilito la loro dimora fissa. Se qualche caritatevole consorella si offriva a liberarle le tuniche dai noiosissimi insetti, la santa rispondeva: “Cara sorella, lascia stare
e non curartene. Io voglio che i vermi castighino il mio corpo”. Questo suo modo di comportarsi cagionava alle monache di civilissima condizione disagi non indifferenti e preoccupazioni ai genitori.
Non v’è dubbio che Margherita tese alla perfezione con spirito eroico e mezzi straordinari. Secondo il nostro modo umano di ragionare può aver mancato di discrezione lasciandosi guidare troppo dallo spirito di singolarità, ma può anche essere che si sia comportata così per un’intima illuminazione della grazia allo scopo di offrirsi vittima di espiazione per i peccati della sua famiglia e di tutta l’Ungheria.
Verso il termine della vita Margherita apparve sfigurata e deformata dalle penitenze e dai digiuni. Non meraviglia, quindi, che presentisse la sua prossima fine. Nel 1269, pregando accanto ad una consorella defunta, esclamò: “Dopo di lei la prima a morire sarò io”. Non molto tempo dopo fu difatti assalita dalla febbre e costretta a mettersi a letto. Morì il 18-1-1270 dopo dodici giorni di malattia. Tre giorni prima del trapasso consegnò alla Priora la chiave della cassetta nella quale aveva conservato i cilici e i flagelli.
I funerali furono celebrati da Federico, arcivescovo di Strigonia, Margherita fu seppellita nella chiesa del monastero. Dalla sua salma, come aveva predetto, si sprigionò un soave profumo di rose. Il prodigio fu costatato anche dal P. Marcello. Pio XII la canonizzò in modo equipollente il 19-11-1943.

Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 210-215.
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