S. GIOVANNI OGILVIE (1579-1615)

Per sei settimane il Santo dimorò nella Scozia settentrionale, poi si stabilì a Edimburgo, presso Guglielmo Sinclair, avvocato al parlamento e fervente cattolico, per confermare nella fede i credenti, convertire gli eretici e confortare i carcerati, a costo anche della vita. Prima dell’alba celebrava la Messa e distribuiva la comunione ai pochi fidati che vi prendevano parte. Durante il giorno visitava i malati, i neofiti e sovente aveva appuntamenti con gli eretici e con coloro che offrivano speranza di conversione. Narra egli stesso: “Prima di essere catturato, la sera avevo l’abitudine di recitare il breviario nelle case degli eretici quando ero obbligato a pernottarvi; qualcuno che mi aveva spiato e udito bisbigliare a bassa voce, al lume di una candela, diceva che ero un mago”.

La Scozia, in cui nel 1579 nacque il Santo, discendente
dalla famiglia del nobile Walter di Drum, fu convertita al cristianesimo dal
vescovo britannico S. Niniano (410) e dal monaco irlandese S. Columba (563).
Fino all’inizio del secolo XVII fu un regno autonomo, governato dagli Stuart.
Il protestantesimo fiorì in essa dopo la morte di Giacomo V (1542),
specialmente per opera della prepotente nobiltà, avida dei beni ecclesiastici e
del predicatore Giovanni Knox (+1572). Il parlamento di Edimburgo nel 1560 pubblicò
una professione di fede calvinista, decretò la perdita dei beni e l’esilio a
coloro che celebravano e ascoltavano la Messa, la pena di morte ai recidivi e
infine abolì il potere papale sulla Scozia.
 Con Elisabetta (+1603), regina d’Inghilterra, si estinse
la casa Tudor e ne prese il posto Giacomo VI (+1625), figlio di Maria Stuart,
educato nella religione calvinista. I cattolici sperarono che mitigasse le
leggi crudeli stabilite contro di loro, invece il re, Giacomo I per gli
inglesi, le inasprì e le fece attuare con estremo rigore. Dopo la congiura
delle polveri (1605), fu loro imposto un giuramento di fedeltà in cui, tra
l’altro, si dichiarava che la dottrina che attribuiva al papa il diritto di
deporre i principi e ai sudditi il diritto di deporre e uccidere i sovrani
scomunicati, era empia ed eretica.
 La persecuzione attuata in Scozia contro i cattolici,
benché non meno spietata di quella scatenata in Inghilterra, non produsse che
pochissime vittime perché i persecutori miravano a sradicare la religione
cattolica, senza fare martiri. Tra di loro figura il giovane gesuita Ogilvie,
di cui non sappiamo nulla fino al 1595, anno in cui fu mandato sul continente a
studiare. Convertitosi alla religione cattolica, entrò nel collegio scozzese di
Douai. Trasferitesi nel 1595 a Lovanio, ebbe come professore il celebre
biblista P. Cornelio a Lapide (+1637). Nel 1598 proseguì gli studi presso i
Benedettini scozzesi di Ratisbona, poi presso i Gesuiti a Olmtitz. Sentendosi
chiamato alla vita religiosa, nel 1599 chiese e ottenne di essere ammesso al
noviziato che la Compagnia di Gesù aveva aperto a Brunn, in Moravia. Continuò
gli studi a Graz, nel 1607 insegnò sacra eloquenza a Vienna, poi ritornò a
Olmùz a studiare teologia.
 Il P. Ogilvie, dopo l’ordinazione sacerdotale, che
ricevette a Parigi nel 1610, fu mandato a Rouen, ma insistette per due anni e
mezzo presso i superiori e persino presso il proposito generale P. Claudio
Acquaviva (+1615) perché gli fosse concesso di recarsi in patria ad esercitare
il ministero, nonostante le leggi vessatorie esistenti. Riuscì a rimettere
piede in Scozia l’11-11-1613, dopo ventidue anni di assenza, facendosi chiamare
“capitano Watson”.
 Per sei settimane il beato dimorò nella Scozia
settentrionale, poi si stabilì a Edimburgo, presso Guglielmo Sinclair, avvocato
al parlamento e fervente cattolico, per confermare nella fede i credenti,
convertire gli eretici e confortare i carcerati, a costo anche della vita.
Prima dell’alba celebrava la Messa e distribuiva la comunione ai pochi fidati
che vi prendevano parte. Durante il giorno visitava i malati, i neofiti e
sovente aveva appuntamenti con gli eretici e con coloro che offrivano speranza
di conversione. Narra egli stesso: “Prima di essere catturato, la sera
avevo l’abitudine di recitare il breviario nelle case degli eretici quando ero
obbligato a pernottarvi; qualcuno che mi aveva spiato e udito bisbigliare a
bassa voce, al lume di una candela, diceva che ero un mago”.
 In principio d’ottobre del 1614, P. Ogilvie si recò a
Glasgow, travestito da soldato, per ricevere l’abiura di cinque persone.
L’arcivescovo eretico, Giovanni Spottiswoode, vigilava contro i cattolici,
essendo, ad un tempo, principe temporale e capo della chiesa stabilita da re. Fin
dal suo arrivo in quella città feudale, il Santo divenne amico di un gentiluomo
eretico, Adamo Boyd, il quale, in principio, si finse desideroso di
riconciliarsi con la Chiesa, ma quasi subito, lo tradì. Difatti il 14 ottobre
P. Ogilvie fu catturato da un servo dell’arcivescovo, mentre passeggiava per la
città e condotto nella casa del giudice eletto quel giorno. Era già notte
quando fu raggiunto dall’arcivescovo il quale, dopo avergli ordinato di
avvicinarsi, gli diede uno schiaffo dicendogli: “È veramente una sfacciata
arroganza la vostra di dire la Messa in una città riformata”. Il
prigioniero gli rispose, imperterrito: “Schiaffeggiandomi voi non agite da
vescovo, ma da carnefice”. A quelle parole il seguito del prelato lo
percosse, gli strappò la barba, gli graffiò con furia il viso, lo perquisì e lo
derubò del denaro che portava con sé, del breviario e del sigillo. In carcere
fu minacciato della tortura detta dei “gambali”, ma il martire, che
la considerava un trionfo, sfidò il carceriere a metterla in azione. Essendo
stato identificato per mezzo di una spia francese, l’albergo dove il gesuita
aveva preso alloggio, gli furono sequestrati il cavallo e una cassa contenente
carte con liste di nomi di famiglie cattoliche, libri, vesti e suppellettili
sacre, nonché una ciocca dei capelli di S. Ignazio di Loyola, alla quale era
molto affezionato.
 Dal racconto che P. Ogilvie fece ai superiori della sua
prigionia risultò, da una parte, la costanza dimostrata da lui nella difesa
della verità e, dall’altra, lo sforzo fatto dai giudici per condurlo sul
terreno politico e condannarlo. Gl’interrogatori dei cattolici che erano stati
arrestati in base alle sue carte non furono vani e le torture sufficienti a
indurli a confessare di avere assistito alla Messa da lui celebrata. Anche al
martire furono fatte molte insidiose domande, ma l’arcivescovo dovette
confessare nella lettera che scrisse al re: “Quanto a lui è impossibile
strappargli sia pure una parola, circa la sua condotta di questa terra”.
Lo torturarono allora con gambali di legno e di ferro, capaci di fare sprizzare
dalle ossa il midollo vivo, ma il martire si dichiarò disposto a tutto
sopportare, tranne che venir meno alla propria fede.
 Egli incatenato per le caviglie all’asta di ferro,
trascorse nell’umida prigione i suoi giorni disteso quasi sempre per terra,
immerso nelle preghiere, finché fu trasferito a Edimburgo perché comparisse
davanti alla corte del consiglio privato del re. All’uscire dalla prigione, fu
accolto da grida ostili e da un gradinata di palle di neve e di fango da parte
delle donne i cui figli e mariti erano stati incarcerati per causa sua. A
quegli insulti il Santo si limitò a ripetere, impassibile, il proverbio
scozzese: “La festa è passata quando la testa è perduta. Avete altro da
dirmi?”. Una donna inferocita si avvicinò al cavallo che montava e maledì
la sua “triste faccia”. Le rispose il prigioniero con una punta
d’ironia: “Dio benedica la tua bella faccia”.
 A Edimburgo, P. Ogilvie fu rinchiuso in una cella del palazzo
dell’arcivescovo Spottiswoode. Nella speranza di scoprire le fila di un
complotto antinazionale, costui, il 12 dicembre, lo sottopose a un secondo
interrogatorio, benché avesse già le prove che egli aveva violato le nuove
leggi celebrando la Messa, ma il martire si rifiutò di rivelare i nomi e i
luoghi in cui si trovavano dei cattolici. Per costringerlo a parlare lo
sottoposero alla tortura della veglia. Una squadra di carnefici per otto giorni
e otto notti consecutive gl’impedirono di dormire con grida e canti, con
punture di spilli e di aghi, con colpi di pugnali e di spade. Molti conti e
baroni gli fecero visita per esortarlo a cedere al volere del re, ma egli
confutò i loro ragionamenti. A castigo della sua ostinazione un gentiluomo gli
minacciò supplizi ancora più atroci, ma il martire gli rispose: “Carnefici
abominevoli davvero voi siete! Ma io non mi curo affatto di voi. Sfrenate pure
tutto il vostro odio per la mia fede, io non me ne sgomento. Non ho mai
domandato nulla, nulla domanderò a nessuno: e, quanto a voi, vi ho disprezzato
sempre. Io posso e voglio soffrire per la causa, che difendo assai più di
quello che voi pensate farmi soffrire. Lasciate stare, dunque, le minacce e
tenetele in serbo per le donne. Quanto a me, esse mi eccitano invece di
sgomentarmi, di modo che non mi curo dei vostri assalti più di quello che farei
se fossi assalito da un branco di oche”.
 Al nono giorno il prigioniero era ormai ridotto ad un
cadavere. Fu chiamato il medico, il quale dichiarò che gli sarebbero rimaste
soltanto tre ore di vita. Sopravvisse invece e i giudici ne approfittarono
subito per sottoporlo ad altri interrogatori e minacce. La vittima rispose
loro: “Se anche mi risolvessi a parlare, non ubbidirei perché non voglio
cedere alla forza né alla paura del dolore come un cane: voglio, come uomo,
seguire la mia ragione. Ritentate dunque coi vostri gambali e io con la grazia
di Dio vi farò vedere che più di quel che voi non vi curate di quei ferri io
non mi curo delle mie gambe; troppo grande è il mio destino perché io me lo
lasci rapire con la violenza”. L’arcivescovo lo accusò di aberrazione, ma
egli gli rispose: “Salverei, se potessi, la mia vita. ma non mai perdendo
Iddio: non potendo conciliare le due cose, sacrificherei il bene minore per
lucrare il più grande”.
 In cella il martire subì una tempesta di ingiurie da parte
di un barone del distretto di Glasgow. Non riuscendo a capire come uno scozzese
potesse essere tanto testardo, gli disse: “Se fossi il re vi farei bollire
in una caldaia di cera”. Per tutta risposta il martire lo invitò a bere
alla reciproca salute.
 Per la festa di Natale, l’arcivescovo fece ritorno con il
prigioniero a Glasgow, in attesa degli ordini del re. P. Ogilvie fu incatenato
in una cella del palazzo vescovile, benché non cessasse di ripetere che, se
anche le catene fossero state di cera, non le avrebbe spezzate e che, anche se
le porte fossero rimaste spalancate, non sarebbe fuggito. Nei due mesi che vi
rimase rinchiuso non gli mancarono dispute con gli eretici sul primato di San
Pietro e sulla Messa. Allo pseudo-vescovo Andrea Knox, che gli prometteva
larghi compensi se avesse abiurato il cattolicesimo, rispose: “Piuttosto
di venire con voi che ve ne andate al diavolo, preferisco andare diritto alla
forca”.
 Per porre il prigioniero dal lato della colpa, vennero
spedite da Londra le “questioni del re”, concentrate sulla
controversia, allora fervente, tra la supremazia del papa e quella del sovrano.
Il santo fu fatto comparire il 28-1-1615 davanti al consiglio supremo, ma si
rifiutò di riconoscere al re la giurisdizione spirituale che si arrogava e
aggiunse ancora una volta che la formula del giuramento di fedeltà, da lui
proposta, era cosa detestabile. Per indurlo all’apostasia gli fu promesso un ricco
beneficio oltre la mano della figlia dell’arcivescovo, ma egli non si piegò a
costo di essere considerato reo di lesa maestà. Nella cella scrisse le ultime
pagine del suo giornale, disteso sul pavimento, perché le catene del peso di
quasi duecento libbre gli permettevano appena di levarsi sul gomito e tre
lettere di cui una al P. Claudio Acquaviva. In essa gli diceva: “Io soffro
terribili supplizi e torture atroci” e gli chiedeva preghiere perché
potesse cadere “come atleta per l’amore di Gesù il vittorioso”.
 Due settimane dopo giunse a Londra una lettera del re
Giacomo I, che i contemporanei chiamavano “il savio più pazzo del suo
tempo”, tant’era convinto di regnare sulle sue terre sotto l’immediata autorità
di Dio. Conteneva l’ordine d’impiccarlo se non avesse riconosciuto la
supremazia reale sul papa. L’arcivescovo esortò il martire a recedere dal suo
fiero proposito, ma egli ancora una volta si mostrò irremovibile. Allora egli
fece alzare il palco e la forca federale presso il proprio palazzo. Appena ne
fu informato, P. Ogilvie invitò i suoi visitatori ad assistere alla sua morte,
si fece lavare i piedi, sciolti ormai dai ceppi e ripeté a quanti lo
compiangevano: “Domani è il giorno delle mie nozze”. Un suo zelante
amico gli promise che, nel cuore della notte, gli avrebbe facilitato la fuga se
lo avesse voluto, ma egli gli rispose che la morte per una causa tanto bella
gli pareva preferibile a qualunque specie di vita.
 Quando fu condotto dallo sceriffo al tribunale per
l’ultimo giudizio, la folla commossa che lo attendeva uscì in un solo grido:
“Che Dio ti protegga”. Tutti sapevano ormai che nessun tormento aveva
potuto strappargli il segreto di un solo nome. L’accusato entrò nella sala
vestito dei suoi vecchi abiti e a capo coperto, a significare che non
riconosceva la giurisdizione dei giudici. Il presidente del tribunale gli
ordinò di scoprirsi e lo accusò di avere apertamente fatto appello alla suprema
autorità del papa e di essersi rifiutato di rispondere a due speciali quesiti:
1° se il papa avesse o no il potere di disporre della vita di Sua Maestà dopo
averlo, per avventura, deposto; 2° e se il papa avesse o no il potere di
sciogliere i sudditi di Sua Maestà dal loro naturale legame di ubbidienza. Il
gesuita, fattosi più ardito del solito, dichiarò che non stimava l’autorità del
parlamento più di un frutto fradicio e l’autorità del re più del suo vecchio
cappello. L’arcivescovo, dopo il discorso di chiusura, gli chiese se, qualora
la pena di morte gli fosse mutata in esilio, sarebbe tornato in Scozia. Il
prigioniero gli rispose: “Se fossi condannato per un vero delitto non
ritornerei più di certo, ma se fossi condannato per la causa che ora difendo,
tornerei subito e a Dio piacesse che potessi convenire tanti eretici quanti
capelli ho in testa, e voi, signor arcivescovo, prima di tutti”.
 Il martire, appena udì leggersi la sentenza di morte,
appena vide accendere e spegnere un cero, lugubre simbolo della catastrofe
finale, cominciò a ringraziare Dio per la sublime grazia che gli era concessa;
benedisse, abbracciò e perdonò il cancelliere che gliel’aveva letta; si
raccomandò alle preghiere dei cattolici che forse erano presenti in aula;
infine, s’inginocchiò egli stesso contro il muro e si mise a pregare.
 Mentre verso le quattro pomeridiane del 10-3-1615 veniva
condotto al supplizio, un ministro protestante gli si pose al fianco per
indurlo ad abiurare il cattolicesimo in compenso della più ricca prebenda della
diocesi e della mano della figlia dell’arcivescovo. P. Ogilvie, giunto davanti
al patibolo, volle che il ministro ripetesse forte, alla folla accorsa, le sue
proposte. Tutti sapevano che era stato condannato a morte per motivo di
religione, non di lesa maestà. Lo esortarono perciò a fare la volontà del re,
ma egli rispose: “Per la mia religione darei con gioia cento vite se le
avessi. Non ne ho che una; toglietemela via e presto. Quanto alla mia fede, mai
e poi mai la strapperei dal mio cuore”.
 A queste parole fecero eco gl’insulti degli eretici. Lo
chiamarono “traditore”, ma il martire, mentre saliva sul palco,
rispose a voce altissima: “Questa parola è una calunnia”. Il ministro
protestante, per riparare il triste effetto di quella scena, gridava a
perdifiato: “Ogilvie muore non perché è cattolico, ma perché è reo di lesa
maestà”. A quello schiamazzo il martire, che si era inginocchiato ai piedi
della forca per pregare, si alzò e disse: “Questa è una strana condotta:
mi si impedisce la difesa e mi si calunnia ancora fino all’ultimo. Si pretende
che io abbia agito contro il re e si mente. Mai nulla ho fatto contro di lui:
soltanto ho affermato e affermo che il papa ha, come sul mondo intero, così
sulla terra del re, giurisdizione spirituale e ciò dovunque siano cristiani e
ha diritto di scomunicare un re eretico. Questo ho detto e sottoscritto: per
sostenere questo sono qui venuto a morire. Quanto al re volentieri darei per
lui la vita: e sappiate anche che io e un altro scozzese mio amico abbiamo
fatto a vantaggio del re all’estero cose tanto importanti che voi con tutti i
vostri ministri mai riuscirete a fare altrettanto. Io muoio dunque, sì, ma
soltanto per la mia fede”.
 Il suo discorso fu interrotto dal carnefice che gli legò
le mani dietro il dorso e gli ordinò di salire la scala a pinoli. Il ministro
tentatore non lo abbandonò. Gli chiese, difatti pur da sotto il palco, se
credeva tuttavia al culto dei santi. Gli rispose il martire: “Credo tutto
quello che la Chiesa crede”. E si mise a recitare le Litanie dei Santi,
prima in latino, poi in scozzese volgare per essere inteso da tutti, finché il
carnefice non gli ritirò la scala da sotto i piedi ed egli penzolò nel vuoto.
 Il corpo del martire, contrariamente alla sentenza, non
fu decapitato, né squartato, ma seppellito subito nel cimitero dei condannati.
Le sue reliquie andarono disperse. Soltanto il luogo del suo sepolcro è
contrassegnato oggi da un rettangolo di terra lungo il fianco sinistro della
cattedrale.
 Il P. Giovanni Ogilvie fu beatificato da Pio XI il
22-12-1929, e canonizzato da Paolo VI il 17-10-1976.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 123-129.

http://www.edizionisegno.it/