S. GIOVANNI GIUSEPPE DELLA CROCE (1654-1734)

Il Santo dovette superare opposizioni e calunnie prima di potersi stabilire in Napoli per curare i frati infermi. Vi riuscì nel 1704 dopo umiliazioni, patimenti e visite agli uffici burocratici della città. I suoi sudditi erano circa 200. Egli li visitò, a piedi, benché le sue gambe, coperte di piaghe, fossero sovente martoriate da interventi chirurgici. Si adoperò per far rifiorire tra essi la carità fraterna e la osservanza della disciplina. Ai rilassati non esitò di rimproverare la vita “cattiva e puzzolente in convento”. Ad un terziario indipendente, in pubblico refettorio disse: “Smettete, figliuolo, le vostre capricciose devozioni e mortificazioni e siate più ubbidiente. Più che disciplinarvi, praticate meglio i doveri del vostro stato”.

Questo alcantarino nacque nel castello d’Ischia il
15/8/1654 da don Giuseppe Calosirto e da donna Laura Gargiulo, i quali al fonte
battesimale gli imposero il nome di Gaetano. Degli 8 figli che ebbero, 5 li
consacrarono al servizio del Signore. Alla scuola della mamma il nostro Santo
imparò presto ad amare i poveri, a farsi catechista dei suoi compagni, a non
tollerare cattive parole. Un giorno si permise di riprendere il fratello
maggiore per le spiritosaggini poco modeste da lui proferite. Per tutta
risposta ne ebbe uno schiaffo. Anziché protestare, il piccino s’inginocchiò sul
selciato e pregò per lui tra lo stupore dei compagni.
 La famiglia Calosirto digiunava a pane ed acqua in tutte
le vigilie delle feste. Gaetano, insoddisfatto, andava a nascondersi per
flagellarsi e recitare l’Ufficio della Madonna, appreso alla scuola dei Padri
Agostiniani. Non bastandogli più l’adorazione quotidiana al SS. Sacramento,
insistette per poterlo ricevere almeno in tutte le solennità. Non bastandogli
più il solito catechismo, cominciò a leggere la S. Scrittura nello stanzino che
si era riservato nel luogo più appartato del castello. Amante del silenzio e
della solitudine, appena era libero dai suoi doveri si chiudeva in esso a
studiare, a pregare, a lavorare bottoncini di filo per venderli e darne il
ricavato ai bisognosi.
 Verso i 15 anni, dopo l’incontro con 2 francescani
alcantarini questuanti, il Santo palesò alla mamma il desiderio che sentiva di
seguirli a Napoli, nel convento di Santa Lucia al Monte, sotto la Certosa di
San Martino. Quando vi entrò ( 1670) con il nome di Fra Giovanni Giuseppe della
Croce, dal P. Giuseppe Robles, maestro dei novizi, fu trovato già avanzato
nelle vie dell’adorazione. Ai suoi egli scrisse: “Vi lascio a Dio! Non mi
scrivete più. Mondo, addio! Ischia, addio! Madre, fratelli, amici, addio!
Voglio solo godere del mio crocifisso Gesù e della sua SS. Madre Maria, mia
protettrice e madre. Iddio vi benedica e consoli tutti. Amen”. Il suo
maestro dovette vigilare sul fervore di lui, tant’erano numerose le penitenze
che chiedeva di fare. Non contento di dormire sovente accoccolato sui propri
calcagni e con la testa appoggiata al muro, propose di non guardare in faccia
neppure i suoi confratelli e di non fare uso della seconda tunica concessa
dalla regola. Per 64 anni di vita attivissima indosserà solo un ruvido abito di
lana sulla nuda pelle, coperta di croci pungenti con 5 ordini di chiodi e
fasciata di cilici tessuti con crini di cavallo. Col tempo quell’abito
diventerà una costellazione di rattoppi che gli meriterà il titolo di
“padre centopezze” ma, a quanti si offriranno di cambiargliela,
risponderà: “Non me lo toccate, è l’abito del mio sposalizio con
Cristo”.
 Dopo la professione religiosa Fra G. Giuseppe rimase
ancora 3 anni a Santa Lucia al Monte. Con le sue penitenze e la scrupolosa
osservanza delle regole edificò novizi e professi. Dopo il mattutino egli
rimaneva a pregare in chiesa e a mensa non mangiava carne e non beveva vino.
Sovente a pranzo non si cibava che di pane e acqua.
 Benché la regola gli concedesse l’uso di sandaglie
fatte di canapa, per oltre vent’anni andò scalzo anche d’inverno a costo di
lacrimare per il freddo. La prima custodia italiana dei Francescani
alcantarini, eretta a Napoli da Clemente X (1670), lasciò Fra G. Giuseppe nelle
opere esterne, quando gli fu offerto il servizio del Santuario di Santa Maria
Occorrevole in Piedimonte Alife (Caserta). La schiera dei 12 frati, guidati da
P. Giovanni di Santa Maria, visse una vita durissima nell’impegno della
costruzione del nuovo convento. Il nostro Santo ne fu il sorvegliante e
l’animatore. Mentre aiutava i muratori a trasportare calce e pietre, trovava il
modo di catechizzarli e d’intensificare le sue preghiere.
 Un giorno fu irreperibile. Dopo averlo invano cercato nel
bosco e tra le impalcature della fabbrica, i confratelli si accorsero che era
in chiesa, rapito in estasi e sollevato per aria fin quasi a toccare il
soffitto. Eppure, nella sua profonda umiltà, considerandosi indegno del sacerdozio,
sarebbe rimasto volentieri semplice diacono, per attendere ai più umili
servizi. Invece nel 1677 dovette, per ubbidienza, ricevere l’ordinazione
sacerdotale dal vescovo di Alife. La chiesa del convento divenne meta di
pellegrinaggi. Per offrire ai confratelli un luogo in cui vivere una clausura
perfetta e in assoluto silenzio, il Santo ottenne di fondare una
“solitudine” dotata di una chiesina e quattro celle nella parte più
folta del bosco. Un giorno, mentre stava leggendo un libro che trattava delle
glorie di Maria, accanto alla cappellina in costruzione, udì una voce interna e
imperiosa che gli disse: “Fuggi di qui”. Allontanarsi e sentire il
rovinio di un grosso masso fu tutt’uno. In riconoscenza alla Madonna, che lo
aveva salvato, su di esso piantò una croce, a ricordo del miracolo. Fra
Giovanni Giuseppe in quella “solitudine” avrebbe trascorsa la vita
per immergersi in Dio, invece l’ubbidienza lo chiamò a Napoli a reggere il
noviziato, nonostante le sue proteste d’incapacità (1679). Sua cura costante fu
il generoso dono del buon esempio con i rigori delle penitenze e la ricerca
degli uffici più umili, quali scopare i corridoi e lavare le stoviglie. Trattò
i discepoli con umanità e cercò di persuaderli con le buone ragioni. Quando
questi mezzi non bastavano per ottenere l’ammenda dei negligenti, ne attribuì
la colpa a sé, quasi non sapesse ben istruirli. Si denudava allora le spalle e
obbligava chi aveva commesso il difetto a flagellarlo, a fargli pagare la pena
delle imperfezioni che aveva commesso.
 I superiori affidarono presto al Santo anche il ministero
delle confessioni, benché non avesse avuto molto tempo da dedicare allo studio.
Nel crocifisso egli trovò la cognizione delle cose di Dio, che lo mise in
condizione di dirigere con frutto, una schiera di nobili figure del clero e del
patriziato napoletano. Ma non doveva essere poi tanto ignorante se, nel 1680, i
suoi superiori lo dessero Guardiano del convento di Piedimonte d’Alife, abitato
da tanti religiosi, diversi per età e carattere. Egli tutti amò, specialmente i
malati; davanti a tutti si umiliò fino a baciare loro i piedi, e da tutti fu
ubbidito. Un teste depose: “Nei suoi comandi non si notavano mai parole
imperiose. Sempre pregava i suoi sudditi e usava con essi le espressioni più
dolci”. Il Signore lo premiò, ora facendo crescere le verdure recise per i
poveri la sera innanzi, ora rendendo ottimo il vino già inacidito e ora
moltiplicando il pane, perché l’unica preoccupazione di Fra G. Giuseppe era di
cercare la gloria di Dio e la sua giustizia.
 Per essere libero di darsi a Dio e al ministero delle
confessioni dei pellegrini e dei monasteri della diocesi di Alife, avrebbe
preferito non essere riconfermato nell’ufficio di superiore. Alle sue solite proteste
d’incapacità il Provinciale non si arrese. Ad aggravarne il tormento, Dio
permise che fosse tribolato dalle aridità, dagli scrupoli e dal timore della
dannazione eterna. Ne lo liberò l’apparizione di un fratello laico morto da 4
giorni mentre si struggeva in preghiera davanti a Gesù sacramentato. Gli disse
che era salvo e che anche lui sarebbe andato in paradiso se avesse continuato
ad osservare le regole come aveva fatto fino allora. Rasserenato, dopo 4 mesi
d’indicibili angosce, Fra G. Giuseppe si diede con rinnovato vigore alle opere
d’apostolato, specialmente alla cura dei malati e dei poveri. Più volte aveva
fatto dare ad essi tutto quello di cui la comunità disponeva, anche il
necessario, e dei misteriosi benefattori, all’ora del pranzo, si erano trovati
alla porta del convento con tutto l’occorrente per i frati.
 Nel triennio 1687-1690 il Provinciale spostò il Santo,
come un pezzo di ricambio, per ben 3 volte, tra il noviziato di Napoli e quello
di Piedimonte, a seconda della necessità. Nonostante la sua pronta ubbidienza,
Iddio permise ancora una volta che fosse tormentato dal timore riguardo alla
bontà e all’efficacia dei suoi metodi. Il rigore a cui spingeva i novizi per
formarli alla vita religiosa era forse intemperante? La morte di un suo novizio
lo gettò nella costernazione. Essa cessò solamente quando il defunto gli
apparve per ringraziarlo delle penitenze che gli aveva permesso di fare in
vita. Nel 1693 il Provinciale destinò per la terza volta il Santo a fare da
Guardiano a Piedimonte d’Alife, con l’obbligo però di calzare le sandaglie,
perché la sua salute lasciava a desiderare. Fra G. Giuseppe continuò a essere
generoso coi poveri che salivano a mendicare alla porta del convento e il
Signore continuò a moltiplicare il pane e i legumi dati in elemosina.
 Nel 1696 fu lasciato senza carica nel convento di Santa
Lucia al Monte ed egli ne approfittò per farsi guida d’innumerevoli anime in
chiesa e al letto dei malati. I cilici, lo scarso cibo, i viaggi fatti sempre a
piedi lo ridussero ben presto in fin di vita. Una permanenza ad Ischia gli
restituì in parte la salute. I superiori gli proibirono di nutrirsi soltanto di
pane e frutta. Egli ubbidì, ma trovò la maniera di rendere scipito e nauseante
il brodo nel quale intingeva il pane. Dopo la prima malattia andò soggetto a
un’altra che portava all’idropisia. I medici lo pregarono, per amore di Gesù
crocifisso, di privarsi dell’acqua, ed egli, per oltre 30 anni, fino alla
morte, non bevve più. Dalla cintola in giù il suo corpo fu ridotto in pessime condizioni.
Le gambe gli si copersero di piaghe finché visse. Eppure, ridotto simile a
Giobbe, diceva ai confratelli che lo compiangevano: “Sto bene! Sto bene!
La mia croce è tanto leggera!”.
 Nel Capitolo del 1702 la provincia alcantarina si divise. Contro
il parere dei religiosi italiani, quelli spagnuoli pretesero di riservarsi le
supreme cariche dell’Ordine. I conventi di Santa Lucia al Monte e di Portici
furono allora uniti alla provincia di San Pietro d’Alcantara di Castiglia; i
restanti 8 conventi furono invece riservati agli italiani, i quali si
raccolsero attorno a Fra G. Giuseppe, perché si era dichiarato disposto a fare
loro da padre. Costui li esortò, difatti, alla pazienza, scrivendo: “Tutto
quello che Dio permette, lo permette per il nostro bene”. Il 22-12-1702
ottenne da Roma che i francescani alcantarini italiani costituissero una
provincia dell’Ordine. All’unanimità i religiosi lo dessero loro provinciale
nel capitolo del 1703 radunato a Grumo Nevano (Napoli).
 Il Santo dovette superare opposizioni e calunnie prima di
potersi stabilire in Napoli per curare i frati infermi. Vi riuscì nel 1704 dopo
umiliazioni, patimenti e visite agli uffici burocratici della città. I suoi
sudditi erano circa 200. Egli li visitò, a piedi, benché le sue gambe, coperte
di piaghe, fossero sovente martoriate da interventi chirurgici. Si adoperò per
far rifiorire tra essi la carità fraterna e la osservanza della disciplina. Ai
rilassati non esitò di rimproverare la vita “cattiva e puzzolente in convento”.
Ad un terziario indipendente, in pubblico refettorio disse: “Smettete,
figliuolo, le vostre capricciose devozioni e mortificazioni e siate più
ubbidiente. Più che disciplinarvi, praticate meglio i doveri del vostro
stato”. A superiori dei conventi elesse i più meritevoli, non i più
conformisti. Riordinò gli studi servendosi dei consigli di Alessio Mazzocchi,
principe degli archeologi e suo penitente, con Don Giulio Torno, amico e
protettore di Giambattista Vico. Ordinò che ai sudditi fossero ammariniti cibi
sani, abbondanti e bene conditi e fossero provvisti del necessario. Rasserenò
un giorno un Guardiano, che credeva di avere accontentato troppo i frati,
dicendogli: “Non tema, vostra paternità; non si va mai all’inferno per
troppa carità”.
 Nel 1706 Fra G. Giuseppe fu sollevato dalla carica di
provinciale. Mentre San Francesco de Geronimo (+1716) predicava sulle piazze
contro i vizi e le superstizioni del popolo, egli faceva fiorire i costumi e la
devozione nelle famiglie e nei monasteri rigurgitanti di troppe religiose,
vittime dell’ingiustizia sociale del maggiorascato. Gli strapazzi a cui si
sottopose gli rovinarono talmente la salute che, per 23 giorni, fu costretto a
stare seduto su di una sedia con la testa appoggiata al guanciale. E impossibile
enumerare le persone, di qualsiasi categoria sociale, che diventarono suoi
amici e penitenti.
 A tutti il Santo diceva la verità, anche se scottante.
Alcuni signori credevano che bastasse mandare delle elemosine al convento per
turargli la bocca, ma egli rifiutò sempre con sdegno i donativi. Ai ricchi
avari non temeva di dire: “Voi fate bestemmiare il nome di Dio. Sono mesi
e mesi che non pagate le persone di servizio per alimentare il vostro lusso.
Non pensate di ritornare da me, se prima non avete soddisfatto il vostro
debito”.
 Per soccorrere le famiglie povere, di cui si era fatto
un elenco, non si vergognò di stendere la mano. Quando non bastò il denaro, per
sovvenire a gravi necessità, intervenne con il miracolo. Un mercante aveva la
moglie incinta e in grave pericolo di vita. Si era messa in testa che, se
avesse mangiato delle albicocche, sarebbe guarita. Dove trovarne in pieno
inverno? Al Santo chiese soltanto che pregasse perché scomparisse dalla sua
consorte quella strana voglia ma egli, voltosi a Fratel Michele, che lo
assisteva nelle sue infermità, gli ordinò di prendere 3 rami di castagno da una
fascina destinata alla cucina e di piantarli in un vasetto della sua cella. Il
fraticello obiettò: “E come daranno albicocche se sono rami di
castagno?”. Gli rispose il Santo: “Lascia fare alla
Provvidenza!”. La mattina dopo sui 3 rami di castagno furono viste
rosseggiare 3 profumatissime albicocche, una fetta delle quali fu inviata al
duca di Lauriana, testimone dell’ordine dato dal Santo, perché ne glorificasse
Iddio.
 Non minore carità Fra G. Giuseppe nutrì per i malati che
visitava e consolava fino a prendere su di sé i loro dolori. Dio gli mostrò
quanto gradisse il suo zelo non permettendo talora che la pioggia lo bagnasse.
E’ impossibile enumerare tutti i ciechi, gli zoppi, i cancerosi che guarì con
una preghiera o un segno di croce. La marchesa Spada aveva perso un figlio di 4
anni a causa del vaiolo. Lo amava tanto che pregò il Santo di restituirglielo
vivo, benché le avesse predetto che, crescendo, sarebbe diventato la vergogna
della famiglia. Fra G. Giuseppe ordinò ai domestici di somministrargli un
cucchiaino di manna di San Nicola, ma essi non riuscirono ad aprirgli la bocca.
Il santo allora pregò e poi disse al defunto: “Gennarino, per santa
obbedienza, apri la bocca e prendi la manna”. Il morticino risuscitò,
crebbe, divenne un impenitente giocatore finì in prigione e in esilio, morì
mendico, dando tuttavia segni di pentimento, come era stato predetto.
 Fra G. Giuseppe dal benefico influsso della sua protesta
taumaturgica non escluse se stesso. Un giorno incontrò per Napoli una salmeria
di muli. Nell’atto di scansarli, il corpo non gli ubbidì con agilità ed egli
cadde sotto lo zoccolo di uno di quegli animali. Furono subito avvertiti i suoi
confratelli dell’incidente che gli era occorso e pregati di mandare una barca
al Molo Piccolo, dove si pensava di trasportarlo. Il Santo, non volendo essere
preso in braccio, si segnò il piede contuso e, come se nulla fosse stato,
riprese il cammino. Un’altra volta era andato in duomo a baciare l’ampolla
contenente il sangue liquefatto di San Gennaro. Per la grande folla che lo
urtava da ogni parte, gli cadde di mano il bastone e non gli fu più possibile
riprenderlo. Trasportato dalla ressa sotto il pulpito, mormorò: “San
Gennaro mio, io non voglio andare in carrozza, non voglio andare in calesse,
non voglio andare in sedia all’ospizio di Ghiaia, ma senza la mazza come
farò?”. Non aveva ancora terminato l’orazione che vide il bastone venire
verso di sé volando sulle teste della folla trasecolata.
 Nel 1702 i due conventi degli alcantarini spagnuoli
furono uniti a quelli degli italiani per volere di Innocenzo XIII. Fra G.
Giuseppe fu accompagnato a Santa Lucia al Monte, come in trionfo, dalla casa
che gli era stata offerta a Ghiaia e in cui era stato più volte sorpreso in
estasi e sollevato per aria. Tale fenomeno in lui si ripetè ancora fin verso la
fine della vita.
 Nel 1728 si svolse attraverso la città di Napoli la
processione in onore del Beato Giovanni da Prado (+1631), alcantarino pure lui.
Fra G. Giuseppe volle prendervi parte, benché non riuscisse quasi a camminare.
Per tutto il percorso ne seguì la statua in estasi, camminando sollevato da
terra più di un palmo. Anche a Santa Lucia il Santo svolse un’intensa attività
sacerdotale. S. Alfonso M. de Liguori (+1787) ebbe intime e lunghe relazioni
con lui al momento della fondazione dei Redentoristi (1732).
 Per i suoi acciacchi Fra G. Giuseppe dovette limitare
sempre più le sue discese in città. Salivano allora fino alla sua povera cella
i penitenti. Per confessare le donne scendeva in chiesa trascinandosi per i
lunghi corridoi e le scale. Per confessare le monache morenti, i superiori gli
permisero di uscire in sedia. Fino alla fine della vita egli ebbe sete delle
anime. Non rare volte accorse a salvare i peccatori che si trovavano in
imminente pericolo di morte senza saperlo. La sua carità verso i peccatori fu
così grande da addossarsi sovente le penitenze di cui si mostravano incapaci.
Soleva ripetere a chi si confessava da lui: “Se non vi fosse né paradiso,
né inferno, pure vorrei sempre amare Dio perché merita di essere amato”. I
confratelli talora lo esortavano ad usarsi dei riguardi, a diminuire il rigore
delle astinenze, ma egli rispondeva: “Che mangiare, che bere, se il
Signore si fa tanto familiare all’anima da darle tutto!”.
 Nel tempo in cui rimaneva solo meditava e pregava
continuamente la Madonna che chiamava con il dolce nome di madre. Ne teneva
l’immagine sospesa sul suo tavolinetto di pioppo, e la guardava sempre prima di
rispondere a quanti gli andavano a chiedere consigli. La concedeva volentieri
ai sofferenti e alle partorienti, contento di propagare così il culto verso la
Vergine Santissima. Una dama che l’aveva avuta in prestito non si decideva a
rimandargliela a Santa Lucia. Il Santo, che non riusciva a restarne privo per
molti giorni, la richiamò mentalmente e il quadruccio che la raffigurava
riapparve poco dopo appeso al suo chiodo, con grande meraviglia di Fratel
Michele, che si precipitò per i corridoi del convento a gridare al miracolo. Da
quella immagine la Madonna molte volte parlò al Santo, gli apparve, gli diede
il Bambino Gesù da stringere tra le braccia. Un giorno la luce dell’apparizione
fu talmente folgorante che ne rimase con una pupilla bruciata. Anche quando gli
occhi non lo aiutavano più e i continui dolori di testa lo dispensavano dalla
recita del Breviario, egli era fedele all’Ufficio della Madonna. Ridotto all’immobilità,
Fra G. Giuseppe dovette accontentarsi di essere trascinato, sulla sedia, fino
alla cappella interna del convento, per assistere alla Messa e fare la
comunione. Dalla bocca non gli uscì mai un lamento. Un giorno egli sentì il
richiamo insistente di un suo penitente. Don Domenico Vitolo. Bilocandosi, lo
andò subito a consolare per un quarto d’ora.

 Morì di apoplessia, come aveva predetto, il 5-3-1734. A
Fratel Michele dopo 4 giorni di coma disse: “Pochi momenti mi restano di
vita… Ti raccomando la Madonna”. Il Padre Michele Capece, teatino, era
accorso al suo capezzale con il bastone di San Gaetano. Per 4 volte glielo
aveva applicato sulla testa, e per altrettante volte gli era vibrato tra le
mani, emettendo un suono simile a ruote di orologio. Il morente, privo di
sensi, a contatto della reliquia aveva ogni volta alzato il dito verso il
cielo, quasi per indicare che doveva tornare alla patria. Il corpo di Fra G.
Giuseppe dalla cintola ai piedi era ridotto ad una piaga. Dietro le spalle gli fu
trovata una croce di latta traforata, tenacemente attaccata alla carne. Prima
della sepoltura i confratelli dovettero rivestirlo 3 volte del saio, per
soddisfare le richieste dei devoti desiderosi di avere sue reliquie. Pio VI lo
beatificò il 15-5-1789 e Gregorio XVI lo canonizzò il 26-5-1839.1 suoi resti
mortali sono venerati a Napoli nella chiesa di Santa Lucia al Monte.
  ___________________
Sac.
Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 76-84.

http://www.edizionisegno.it/