S. ANTONIO MARIA GIANELLI (1789-1846)

Nato il 12 aprile 1789, a Cereta, presso Chiavari, Antonio Maria Gianelli entrò in seminario a 19 anni e fu ordinato sacerdote quattro anni dopo. Sotto il nome inconsueto di «Società Economica» diede  inizio ad un\’istituzione culturale e assistenziale affidata «alle cure delle Signore della Carità» per l\’istruzione gratuita delle ragazze povere. Era la preparazione alla fondazione delle Figlie di Maria. Nel 1838 venne eletto vescovo di Bobbio. Morì il 7 giugno 1846.

Il Gianelli, fondatore delle Figlio di Maria SS. dell\’Orto, è un santo che apparentemente non ha compiuto nulla di straordinario. Eppure visse il suo "terribile quotidiano" esercitando la virtù in grado eroico. Egli nacque da poveri contadini, secondogenito di sei figli, il 12-4-1789 in Cereta, frazione di Carro (La Spezia), allora dell\’arcidiocesi di Genova, oggi della diocesi di Chiavari. Crebbe, mansueto, ubbidiente e pio.
Imparò presto a recitare il rosario in famiglia e mentre sorvegliava le pecore al pascolo. In chiesa ascoltava volentieri le istruzioni del parroco e le ripeteva ai compagni che lo chiamavano "il predicatore".
Il padre, Giacomo, si oppose fin principio a che il suo Antonio frequentasse la scuola perché non la riteneva fatta per i figli dei campi, ma la sua opposizione fu vinta dalle esortazioni di alcuni sacerdoti. Il Gianelli dovette percorrere un lungo camino per recarsi ogni giorno dalla Cereta alla parrocchia del Castello. Ebbe come maestro il prevosto D. Francesco Ricci, che lo preparò alla prima comunione. A scuola fece grandi progressi nel sapere, tanto da meritarsi tra i condiscepoli l\’onorifico titolo di "imperatore". Per rendersi utile alla famiglia bisognosa, quando tornava da scuola portava sovente a casa un fascette di legno sulle spalle o trasportava quelli delle povere donne. Un giorno, avendo trovato il torrente, nei pressi di Castello, ingrossato, non sapendo come fare a passarlo, s\’inginocchiò e pregò. Quando si alzò, l\’acqua era scemata notevolmente ed il fascio di legna era già stato trasportato sulla sponda opposta da mani invisibili.
La signora Nicoletta Assereto ved. Rebisso, padrona delle terre coltivate dai Gianelli, conoscendo le disposizioni allo studio di Antonio, lo condusse con sé a Genova perché frequentasse, come alunno esterno, le scuole del seminario (1807). Ella fu contenta di ospitare un giovane così semplice e schietto. Alla sera, avendolo incaricato di intonare il rosario, non si vergognava di inginocchiarsi, senza rispetto umano, in mezzo alla sala, mentre i familiari rimanevano in piedi o seduti. Antonio, diciottenne, desiderando conformarsi più perfettamente allo spirito del sacerdozio cui aspirava, ottenne dall\’arcivescovo, il cardinale Giuseppe Spina, il permesso prima di indossare la talare come i seminaristi, e poi di essere accolto in seminario benché i genitori non disponessero dei mezzi finanziari convenienti (1808). Il Gianelli diede subito prova di una piena sottomissione alle disposizioni dei superiori.
All\’apertura dell\’anno scolastico, l\’arcivescovo visitò i chierici mentre pranzavano per rivolgere ad ognuno una paterna parola. Giunto dinanzi al Gianelli, gli chiese se era contento del trattamento ricevuto. "Contentissimo, – gli rispose il santo – anzi, non sono degno di tanto". Appena il prelato si allontanò, i vicini bofonchiarono contro di lui, perché non aveva risposto a tono, lasciando il vitto a desiderare. Senza alterarsi, il Gianelli rispose loro: "Per me tutto è buono ed io sono contento di tutto; se voi non lo siete, un\’altra volta parlate". Non si vergognava neppure di essere figlio di poveri contadini e, quando scriveva ai genitori, li esortava ad essere contenti della condizione in cui Dio li aveva collocati.
La devozione all\’Eucaristia e alla SS. Vergine costituiva il pascolo più delizioso per Antonio. Ad esse univa una così coscienziosa applicazione allo studio che l\’arcivescovo lo ammise al suddiaconato (1811) prima che iniziasse il corso teologico e, sapendo che aveva una grande propensione per l\’oratoria, gli diede pure il permesso di predicare. Era tanto grande la stima che aveva concepito di lui che, a ventitré anni, lo ordinò sacerdote (1812) e a metà del secondo anno di teologia lo destinò vicario curato di San Matteo in Genova, celebre abbazia dei Doria. Non bastando la piccola parrocchia ad appagare il suo zelo apostolico, egli s\’iscrisse alla Congregazione dei Missionari Suburbani, istituita nel 1713, per dedicarsi con maggior lena alla predicazione popolare. Nei primordi del suo sacerdozio dovette dedicarsi, per una decina d\’anni, all\’insegnamento della Rettorica, prima nel collegio di Carcare (Savona) e, un anno dopo, nel seminario di Genova (1816).
Per favorire l\’emulazione e il profitto nella scolaresca, il Gianelli istituì tra i giovani un\’Accademia di eloquenza e un\’altra chiamata degli Ingenui, allo scopo di ravvivare l\’amore alle lettere. Al termine di ogni corso di studio, gli studenti davano un saggio della loro eloquenza umanistica. Il tempo che gli restava libero dalle occupazioni scolastiche, lo dedicava alla predicazione delle Missioni popolari e degli esercizi spirituali, alla confessione e alla direzione spirituale di pii istituti, tra i quali il Conservatorio delle Figlie di S. Giuseppe. Dal 1821 al 1826 fu pure direttore della Confraternita della Santa Croce. Ebbe modo così di fare un gran bene a persone di ogni condizione sociale.
Mons. Luigi Lambruschini, arcivescovo di Genova, avendo scorta in lui la stoffa di un ottimo pastore di anime, gli affidò la parrocchia vacante di Sampierdarena, ma il Gianelli non ebbe il coraggio di accettarla. Si pentì presto di quel rifiuto e propose di conformarsi, in seguito, a qualunque proposta gli avessero fatta i superiori. Nel 1826 si rese vacante la parrocchia di San Giovanni Battista in Chiavari. Mons. Lambruschini pose di nuovo l\’occhio sul Gianelli. Avutone il consenso gli disse: "Fate conto d\’intraprendere una missione non di pochi giorni, ma di dieci o dodici anni". Nella lettera che inviò ai Chiavaresi per annunziare il nuovo parroco, scrisse: "Vi mando il più bei fiore del mio giardino".
Il novello arciprete adottò, fin da principio, un metodo di vita tale che gli consentisse e la propria santificazione e il maggior bene dei parrocchiani. Si alzava di buon mattino per fare le consuete preghiere, confessare e celebrare, col più devoto raccoglimento, la Messa. Dopo pranzo non prendeva quasi mai riposo per occuparsi degli ammalati e delle altre cure che gli provenivano dall\’ufficio di Vicario della parte orientale dell\’arcidiocesi. Non usciva quasi mai per diporto, ma soltanto per visitare le carceri, l\’ospedale e le case religiose. Di notte accorciava le ore del sonno per attendere a certe particolari devozioni e al disbrigo della corrispondenza. Talora non andava a letto senza prima essersi flagellato.
Nei mesi estivi, invece di andare in villeggiatura, accettava corsi di predicazioni e di ritiri. Per non pascere gli uditori di vento, soleva scrivere per intero le sue prediche, pur riservandosi una grande libertà nella recitazione. I fedeli gustavano quello che diceva ed accorrevano ad ascoltarlo molto numerosi. Il Gianelli attese con straordinario zelo al ministero delle confessioni. "Il confessionale – diceva – è il giardino del sacerdote" Talora ne usciva affranto, con grade afflizione della vecchia madre, tant\’erano numerosi i penitenti che ricorrevano a lui per avere luce e conforto.
Agli sposi consigliava sempre la confessione prima delle nozze e ai malati, che visitava sovente, anche senza essere chiamato, suggeriva di ricevere per tempo i sacramenti. Ai poveri raccomandava la rassegnazione al volere di Dio, ma per essi reputava leggero qualsiasi sacrificio. Faceva distribuire le elemosine, d\’ordinario, alla porta della canonica, ma ai più bisognosi la recava egli stesso quando andava a visitarli nelle loro case.
A Chiavari legò il suo nome all\’istituzione del seminario, che condusse a termine nel 1826 e in cui ebbe l\’incarico di prefetto degli studi e di professore di eloquenza. Il suo nome rimase celebre soprattutto per l\’istituzione delle Figlie di Maria SS. dell\’Orto, allo scopo di provvedere buone educatrici e maestre all\’Ospizio di Carità e Lavoro, aperto in città sotto gli auspici della Società Economica. All\’inizio del 1829 egli scelse dodici sue penitenti e le condusse a far vita comune in una piccola casa, con il compito di attendere all\’istruzione della gioventù e alla cura dei malati negli ospedali e nei lazzaretti.
Sotto la sua guida, l\’Istituto crebbe e si diffuse in breve per tutta la Liguria. Il municipio gli mise a disposizione una larga striscia di terreno preso il mare perché potesse iniziare (aprile 1837) la costruzione del Conservatorio, resosi necessario per raccogliere le suore nei ritiri annuali, le novizie, le educande e le inferme. Un\’altra istituzione del Gianelli fu la Congregazione dei Missionari di Sant\’Alfonso de\’ Liguori, con cui si propose di formare un corpo di ecclesiastici che dettassero ogni anno, con vero spirito apostolico, gli esercizi spirituali al clero, e promuovessero le Missioni nelle parrocchie (1829). L\’opera si sciolse nel 1856 per mancanza di nuovi elementi e per le tristi vicende politiche. Finché visse, il santo impiegò in esse tutto il tempo di cui poté disporre. Se taluno gli raccomandava di non affaticarsi troppo nel governo della sua parrocchia: "Oh, non dubitate – rispondeva – andrò presto a sollevarmi in missione; in missione mi rimetterò".
Quand\’era giunto il tempo, nessuna umana considerazione poteva vincerlo, nessuna fatica di viaggio poteva stancarlo. La sua giornata, in tempo di missione, era un miracolo di operosità. Volendo rendere fruttuoso il suo apostolato, si copriva di aspri cilici, e accompagnava con prolungate flagellazioni le preghiere che faceva per la conversione dei peccatori. Soleva anche promuovere delle pubbliche processioni di penitenza durante le quali, secondo il costume del tempo, con gli altri missionari, andava a piedi scalzi, con una fune al collo, una corona di spine sul capo, un crocifisso o un teschio di morto in mano.
Nel 1835 a Genova scoppiò il flagello del colera. A Chiavari, per il continuo affluire di profughi, la gente viveva in grande trepidazione. Il santo arciprete ne approfittò per inculcare a tutti la preghiera e la frequenza ai sacramenti. Per placare la divina giustizia e ottenere di essere risparmiati dal terribile flagello, si offerse vittima di propiziazione, e organizzò una processione di penitenza con il prodigioso crocifisso molto venerato in parrocchia. Tutta la città si mosse, cantando e pregando, verso la chiesa della Madonna dell\’Orto. Mentre il Gianelli parlava alla folla sul piazzale antistante il santuario, uno stuolo di rondini scese a volteggiare attorno al crocifisso. Il predicatore interpretò il fenomeno come un segno del favore ottenuto dal ciclo, quindi, tra il giubilo popolare, gridò: "La grazia è fatta!". Dispose che il crocifisso rimanesse esposto alla pubblica venerazione dei fedeli per ottanta giorni consecutivi, anche di notte, al termine dei quali organizzò un\’altra processione in ringraziamento della preservazione dal morbo.
Nell\’ottobre del 1837 il Gianelli si trovava in missione, quando gli venne annunciato che era stato nominato vescovo di Bobbio. La proposta era stata fatta dal Conte Solare della Margherita, ministro degli esteri del regno di Sardegna, ed era stata gradita dal re Carlo Alberto, il quale, in quello stesso anno, si era incontrato con il prescelto. Il cielo destinava il santo a fatiche più gravi proprio quando egli, dopo dodici anni di vita parrocchiale, pensava di rinunciarvi per potersi dedicare interamente alla predicazione. Fu consacrato vescovo nel Duomo di Genova. Il rettore del seminario, Giambattista Cattaneo, presente al sacro rito, disse quel giorno ai suoi chierici: "Oggi ho assistito alla consacrazione di un santo".
Prima di prendere possesso della diocesi, il Gianelli distribuì ai poveri i proventi della parrocchia, perché riteneva che non gli appartenessero. Anche da vescovo egli tenne il metodo di vita che aveva adottato da parroco. Fu di una straordinaria semplicità nel tratto e nel comportamento. Amante sincero della povertà, non volle per alloggio che due semplici camere, una per la notte, e l\’altra come sala di studio e di ricevimento. Uno dei suoi primi pensieri fu quello di visitare la diocesi che i predecessori avevano trascurato per diciannove anni. Per tre volte la percorse tutta, con diligenza, cercando di togliere abusi, rendere più frequente la predicazione, regolare la scuola di catechismo e sollecitare l\’amministrazione dei sacramenti.
Tenne due sinodi; riordinò il seminario negli studi e nella disciplina; incrementò il culto di S. Colombano, patrono di Bobbio, facendone la ricognizione delle ossa; fondò la Congregazione degli Oblati di Sant\’Alfonso (1838) per la riforma del clero, che non gettò salde radici; chiamò le Figlie di Maria SS. dell\’Orto alla direzione dell\’ospedale e delle scuole femminili della città. Durante il suo episcopato fu soprattutto divorato dallo zelo per le missioni che predicò un po\’ ovunque, con grandi frutti spirituali. L\’apostata Cristoforo Bonavino, cioè Ausonio Franchi (+1895), prima di morire, ravveduto, rese al suo vescovo questa testimonianza: "La sua vita può dirsi che fosse un atto continuo e perpetuo di fede, di speranza e di carità verso il prossimo. Tutte le sue azioni, come tutte le sue parole, tutti i suoi pensieri, come tutti i suoi affetti, avevano un solo e stesso principio, un solo e stesso fine: la gloria di Dio e la salute delle anime".
A tanto lavoro non resse la sua fibra che pure era forte. Nel 1845, tornando dalle Rogazioni, il santo pastore fu assalito da febbre gastrica da cui non si riprese più. Nella primavera del 1846, per consiglio dei medici, andò a cambiare aria presso il vescovo di Piacenza, e là morì il 7-6-1846 per un attacco di apoplessia. Fece appena in tempo a ricevere il viatico. Il suo corpo fu sepolto nella cattedrale di Bobbio, dove è venerato. Pio XI lo beatificò il 19-4-1925 e Pio XII lo canonizzò il 21-10-1951.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 77-82
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