Perchè si studia la storia della filosofia (17)

Di Antonio Livi  Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. Capitolo Settimo (III) FILOSOFIA CRISTIANA, MUSULMANA ED EBRAICA DAGLI INIZI DEL MEDIOEVO AL SECOLO XII. Pietro Abelardo. I Vittorini, Bernardo di Chiaravalle e Pietro Lombardo.

Pietro Abelardo


Pietro Abelardo nacque in Francia (a Pallet, nei pressi di Nantes) nel 1079; morirà a sessantatré anni, nel 1142, a Chalon-sur Saone. Il suo itinerario filosofico inizia nella città di Tours, alla scuola di un altro famoso filosofo e teologo francese di orientamento “nominalistico”, Roscellino (1050 – 1120), del quale non ci rimane alcuno scritto (conosciamo il suo pensiero attraverso gli scritti dei suoi avversari, soprattuto sant’Ansemo d’Aosta), salvo appunto una lettera ad Abelardo. Fu Roscellino a sostenere per primo esplicitamente che gli “universali” (cioè i concetti dellla nostra mente e del nostro linguaggio) non hanno alcuna corrispondenza con la realtà , fatta solo di singoli enti concreti, ciascuno diverso da tutti gli altri. I nostri concetti e le nostre parole con pretesa di universalità sono meri “flatus vocis”, sono soltanto parole, puri e semplici nomi suggeriti dall’abitudine e utili per l’intesa tra gli uomini nella vita pratica. E’ da questa teoria “nominalistica” – che attraversa tutta la Scolastica e trionfa nel Trecento, con Guglielo di Occam – che Umberto Eco ha tratto ispirazione per il suo fortunato romanza, Il nome della rosa. Abelardo, pur essendo un buon discepolo di Roscellino, non condivise però totalmente l’orientamento del maestro, e ben presto entrò in polemica con lui. A Parigi aveva ascoltato le lezioni di Guglielmo di Champeaux (dal quale pure si allontanò, non accettandone le posizioni estreme), che sosteneva la tesi “realistica” della realtà “fisica” degli universali. Successivamentre aveva anche lui ottenuto una cattedra nella capitale francese, presso la scuola istituita dal vescovo negli edifici della cattedrale di Notre-Dame e nell’abbazia di Saint-Geneviève (che sarebbe stata poi assorbita dall’Università parigina, la Sorbonne, l’ateneo più importante dell’Europa continentale). Morì nel 1142 nel monastero di saint-Marcel, ammirato e invidiato dagli studiosi.
L’insegnamento di Abelardo fu prevalentemente di logica, ma insegnò anche teologia. Per la logica, lo sconcerto che molte sue tesi suscitava era largamente compensato dall’ammirazione che tutti tributavano alla sua intelligenza e alla sua capacità dialettica; per la teologia, invece, spesso le sue tesi erano o sembravano contrarie all’ortodossia, come era successo anche al vecchio maestro Roscellino, che però aveva riconosciuto pubblicamente i suoi erori dottrinali e si era sottomesso.
La vicenda più drammatica e commovente della vita di Abelardo – che conosciamo di prima mano, essendo raccontata nella sua opera autobiografica Historia calamitatum mearum – è quella del travagliato rapporto con Eloisa. Questa donna, sua allieva, era dotata di grande acume intellettuale e di sentimenti profondi, e come il suo maestro era anche sinceramente religiosa. Abelardo si innamorò della giovane e la sposò in segreto nel 1120, dopo che dalla loro relazione era nato un figlio, Astrolabio. Lo zio di Eloisa, il canonico Fulberto, saputa la cosa volle impedire in qualunque modo la continuazione di questo rapporto, e non esitò a far ricorso alla più odiosa delle violenze fisiche: su suo comando, dei malviventi aggredirono Abelardo e lo evirarono. Umiliato e mutilato, il filosofo decise, d’accordo con la donna, di mettere fine alla loro relazione; e così fecero, ritirandosi ciascuno per suo conto in un monastero. La separazione fisica non impedì però la continuazione del rapporto affettivo mediante un fitto scambio di lettere; questo epistolario, che fortunatamente si è conservato, è un documento storico e letterarario che ha affascinato generazioni di lettori nei secoli e permette di apprezzare soprattutto la fedeltà e la spiritualità di Eloisa.
Da logico sperimentato qual era, Abelardo ci ha lasciato soprattutto opere di quell’arte dialettica che già avevano caratterizzato la prima fioritura della Scolastica, soprattutto per merito di sant’Anselmo, e che successivamente avrebbero fatto parte integrante dell’apogeo della Scolastica, con san Tommaso d’Aquino e il beato Giovanni Duns Scoto. Abelardo è dunque tra i primi pensatori medioevali ai quali si deve quella straordinaria costruzione razionale che è la logica scolastica, a torto vilipesa e abbandonata dai filosofi del Rinascimento, mentre oggi è ripresa e rivalutata dagli studiosi anglosassoni, inglesi e americani, soprattutto per quanto concerne l’analisi logica del linguaggio e il tema della “suppositio”, ossia del “referente” o “connotato” del discorso. Tra queste opere possiamo ricordare quella intitolata Ingredientibus, e l’altra intitolata Nostrorum petitione sociorum: entrambe costituiscono delle interessanti riflessioni critiche sulle opere di logica di due grandi dell’antichità greco-latina: il neoplatonico Porfirio, di lingua greca, a cui si deve l’opera di organizzazione gerarchica delle nozioni logiche (generi, specie, differenze) attraverso il celebre “albero di Porfirio”, e l’aristotelico Severino Boezio, (sec . V), che tanto influì sulla filosofia medioevale, avendole trasmesso gran parte della logica di Aristotele (l’Organon), da lui mirabilmente tradotta e interpretata in latino.
 Opere più originali di Abelardo sono, sempre per quanto riguarda la filosofia, la Dialectica e l’Ethica, seu liber “Scito te ipsum” (nel quale riprende il tema socratico del “conosci te stesso”). In campo teologico, oltre al Sic et non , Abelardo ci ha lasciato la grande Introductio ad theologiam, e la Theologia christiana, due opere nelle quali espone i suoi criteri innovatori sulla pratica teologica e che possono considerarsi la pietra miliare di quella che poi sarà chiamata la “teologia sistematica”. Ricordiamo infine un’opera che oggi chiameremmo “ecumenica”: si tratta del Dialogus inter iudaeum, philosophum et christianum, primo e fortunato tentativo di studio comparato delle grandi religioni monoteistiche, ossia dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam, successivamente ripreso da altri filosofi, tra i quali anche Gotthold Ephraim Lessing, autore di Nathan il savio.
L’opera intitolata Sic et non (“Sì e no”) è molto originale, anche se per certi versi si inscrive pienamente nella tradizione della cultura cristiana medioevale. Si tenga presente che, nell’ambito di questa cultura, i punti di riferimento significativi erano anzitutto i dogmi della fede cristiana, che venivano chiamati “articuli fidei”ed erano riscontrabili nella Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento), con gli sviluppi dogmatici presenti nei “simboli della fede” e negli altri documenti del concili ecumenici. In secondo luogo, il Medioevo cristiano conosceva le “auctoritates”, ossia le interpretazioni dei Padri della Chiesa greca e latina e dei teologi accreditati più recenti. Le raccolte di queste “auctoritates”, dette anche “sententiae” (cioè, “opinioni”), avrebbero dato luogo a libri famosi e più volte oggetto di importanti commentari, come il celebre libro delle Sententiae di Anselmo di Laon (maestro di Abelardo) e l’ancora più celebre Liber sententiarum di Pietro Lombardo, commentato nel Duecento da san Tommaso e da san Bonaventura. La differenza tra gli “articuli fidei” e le “sententiae” era per i medioevali una differenza fondamentale: mentre gli articoli della fede o dogmi erano pochi, e avevano il vantaggio di restare al di fuori di ogni dubbio per i credenti, e allo stesso tempo la difficoltà di costituire un mistero incomprensibile per il loro contenuto soprannaturale, i pareri dei Padri della Chiesa si presentavano con il vantaggio della razionalità (in quanto tentativi di interpretazione e di approfondimento), ma anche con il difetto dell’opinabilità, in quanto privi dell’autorità divina: quei pareri infatti non avevano altra autorità che quella strettamente personale (la santità e l’influsso ecclesiale delle singole persone che li avevano proposti). Così, se non era pensabile il dissenso teologico sulle verità chiaramente rivelate nella Scrittura e formalmente definite dai concili ecumenici, era invece pensabile e frequente il dissenso sulla singola “sententia” del singolo Padre della Chiesa: a meno che la sua personale autorità non fosse convalidata e potenziata dalla coincidenza di parere con tutti gli altri Padri sull’argomento in discussione, ossia da una unanimità interpretativa. La Chiesa considera infatti come “sacra Tradizione” – e pertanto come dottrina rivelata – ciò che i Padri affermano unanimemente (“quod ubique, quod sempre, quod ab omnibus”).
 Detto questo, si comprende la novità geniale di Abelardo nel Sic et non: egli mette a confronto su singole questioni dogmatiche (di interpretazione dei dogmi) i pareri discordi dei Padri della Chiesa, nel senso che su una questione l’uno propone una certa interpretazione e l’altro quella contraria. Così facendo, Abelardo permette di rilevare con chiarezza che su tanti argomenti teologici un credente è libero di aderire a una posizione o all’altra, già che nessuna delle due contraddice il dogma. Così viene fuori con evidenza che il lavoro intellettuale del credente ha non due soli ma tre punti di riferimento: il dogma (gli “articuli fidei”), i pareri autorevoli (le “auctoritates”) e la sua propria ragione, che alla fine, nella mente e nella coscienza di ciascuno, dice l’ultima parola. Questa rivoluzione di Abelardo (difficile da comprendere e pertanto da accettare all’inizio) fu un guadagno reale per la cultura cristiana medioevale, e mise in risalto quella libertà di pensiero – caratteristica propria del cristianesimo come religione rivelata – che era già latente nei secoli anteriori ma che risulterà ancora più evidente e proficua nei secoli che seguiranno, il Duecento e i Trecento. Un genere letterario che deve proprio ad Abelardo la sua esistenza è infatti quello delle “quaestiones disputatae”, la cui struttura è appunto quella del Sic et non: ogni “quaestio” esaminava un aspetto della dottrina cristiana che suscitava problemi di interpretazione, e si proponevano due soluzioni contrapposte (la prima presentata con la formula “videtur quod”, e la seconda introdotta con le parole “sed contra”), ciascuna con il suo apparato di spiegazioni e di dimostrazioni, per poi concludere scegliendone una (“respondeo dicendum”). Questo procedimento ha il vantaggio di operare con il metodo più onesto e scientifico che la materia possa esigere, perché dove c’è dogma c’è solo la fede, quindi la ragione si sottomette all’autorità di Dio che rivela; dove invece c’è interpretazione libera c’è solo la ragione, che non si sottomette che all’evidenza delle ragioni, ossia delle argomentazioni. Anche oggi sarebbe opportuno tener presente la razionalità di queste distinzioni scolastiche, che permettono di trattare ciò che è dogmatico come oggetto di fede, e ciò che è opinabile come oggetto di discussione: senza dogmatizzare le opinioni personali o di scuola (che sarebbe fanatismo, cioè quello che ora si suole chiamare “integralismo”), e senza nemmeno rimettere in discussione i dogmi (che è un atteggiamento incompatibile con la fede) o interpretandoli a tal punto che nulla resta di verità divinamente rivelata e tutto è opinione del momento (come fa quel relativismo oggi imperante del quale si lamenta Giovanni Paolo II nella Fides et ratio). Si capisce che la filosofia cristiana – a parte logicamente la teologia – ha tutto da guadagnare da questo metodo dialettico, perché il ruolo autonomo della ragione nella riflessione del credente è assicurato dalla chiara distinzione tra dogmatico e opinabile. Già all’epoca di Abelardo molti credenti, di orientamento fideistico, non accetttavano questo ruolo autonomo e importante della ragione, e in buona fede pensavano (come pensano ancora oggi i fideisti) che la ragione e la logica sono pericolosi, allontanano dalla semplicità del Vangelo e fanno crescere la superbia intellettuale. I nemici della logica si chiamavano allora “antidialettici”, e “dialettici” si chiamavano invece gli amici della logica, che era no anche gli amici di Abelardo. La disputa, come si vede, è quanto mai attuale.
Per tornare ai tempi di Abelardo, non si può non ricordare che capofila degli “antidialettici” che combattevano nel XII secolo il metodo di indagine logica insegnato dal maestro francese fu un altro francese, il santo monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle (1090 – 1153), che fu chiamato “l’ultimo dei Padri”. Le ragioni di san Bernardo erano validissime: erano le ragioni della mistica, sempre giustamente diffidente verso i teologi e soprattuto verso l’uso della ragione in teologia, che spesso porta al razionalismo e all’inquinamento della fede. Ciò nonostante, viste le cose a distanza di secoli, pare proprio che l’incompatibilità delle esigenze di ricerca critica sostenute da Abelardo con l’esperienza mistica di umile abbandono contemplativo difeso da Bernardo non sia un’incompatibilità di principio: essa pare derivare più da difficoltà di comunicazione tra contesti spirituali diversi che dalla necessità assoluta per il credente di scegliere tra mistica e razionalità. Di lì a un secolo, due grandi dottori della Chiesa – san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino – dimostreranno con la loro vita e con le loro opere che mistica e razionalità possono portare insieme alle più alte vette della contemplazione e alle più efficaci espressioni di zelo missionario. Il Liber de veritate catholicae fidei di san Tommaso, conosciuto come Summa contra gentiles, è in fondo la ripresa del progetto di Abelardo di dialogo tra la teologia cristiana e quella degli ebrei e dei musulmani, usando la ragione dialettica per rendere comprensibile e accettabile ai non cristiani la proposta delle verità evangeliche.
Circa il problema antropologico Abelardo afferma la spiritualità, libertà e immortalità dell’anima; questa, come avevano insegnato sant’Agostino e sant’Anselmo, è immagine della Trinità divina. Essa è fonte del sapere, di un sapere approssimato e limitato al campo della natura, che la ragione indaga con la logica e interpreta per mezzo della dialettica; fa ciò per elevarsi dal molteplice all’Uno, cioè dalla filosofia alla teologia.
La moralità, per Abelardo, risiede nella libera intenzionalità dell’agente; la natura umana è combattuta continuamente da due tendenze; una, debole e corrotta, è attratta dal vizio; l’altra, logica e retta cerca il bene e la felicità dello spirito; Dio ha dotato l’uomo di libertà perché scelga, tra queste due tendenze, quella dello spirito. Il male morale perciò altro non è se non il consenso intenzionale e libero con cui l’uomo segue la tendenza irrazionale della sua natura: «Il merito e il valore di colui che agisce non consiste nell’azione – afferma Abelardo – ma nell’intenzione». L’uomo se pecca si serve della libertà non per realizzare la sua felicità ma per rinunziarvi, e in tal modo rinnega Dio e si costruisce il male: «In questo mondo – insegna Abelardo – noi siamo sempre impegnati in un combattimento interiore per ricevere nell’altro mondo la corona dei vincitori. Ma perché ci sia battaglia è necessario un nemico che resiste e che non venga meno del tutto. Questo nemico è la nostra cattiva volontà, sulla quale dobbiamo trionfare sottomettendola al volere di Dio; ma non riusciremo mai a eliminarla del tutto, poiché dobbiamo avere un nemico contro cui combattere».
Abelardo adottò il sistema del dubbio critico, in forza del quale tutta la scienza teologica e filosofica deve essere posta al vaglio della dialettica (intesa come una sorta di filosofia del linguaggio). Egli non pretese che la filosofia si svincolasse dalla teologia, o almeno non lo fece in maniera esplicita, anzi, al contrario, la sua intenzione è di rendere più verosimile la lettura della Sacra Scrittura; ma proprio per questo finisce col capovolgere la situazione, attribuendo maggiore valore al verosimile – perché razionalmente accettabile per l’uomo – rispetto alla verità in sé che la Sacra Scrittura propone all’uomo, ma che egli non può comprendere totalmente, trattandosi sempre di nozioni relative al mistero soprannaturale. L’autonomia della filosofia propugnata da Abelardo non è però come quella Tommaso d’Aquino: quest’ultimo saprà ben distinguere tra una doverosa autonomia formale della filosofia (che ha i propri princìpi e il proprio metodo, basato tutto sull’evidenza e sul raziocinio) e una impossibile separazione di essa, nella coscienza del credente, dalla fede e dalla teologia.



I Vittorini, Bernardo di Chiaravalle e Pietro Lombardo


I progressi della scuola di Chartres, della quale si è accennato, avevano posto l’accento sul valore della natura e della ragione, specialmente con Gilberto de La Porrée (detto “il Porretano”), Giovanni di Salisbury e Alano di Lilla, i quali, pur riconoscendo alla fede un valore trascendente, sviluppano uno squisito umanesimo, celebrando scientificamente il valore sia dei sensi che della ragione, sia dell’attività teoretica che di quella etico-sociale, con accenti naturalistici, platonici e anche aristotelici (in base alle opere di Boezio).
Al razionalismo umanistico di questa scuola si oppone, nei medesimi anni, il misticismo dei filosofi e teologi dell’abbazia di San Vittore (Parigi), chiamati i “Vittorini”. Questo centro di studi e di preghiera era stato fondato nei primi annni del XII secolo da Guglielmo di Champeaux; il rappresentante più illustre di questa scuola fu Ugo, nato a Hartingam in Sassonia verso l’anno 1100 e divenuto “magister” a Parigi quando aveva trentacinque anni; ritiratosi a San Vittore vi restò fino alla morte, che avvenne nel 1141. Nelle sue opere (il Didascalion, il De anima, il De sacramento Christianae fidei, il De vanitate mundi) afferma l’utilità della filosofia per la sapienza teologica: dato che il fine principale dell’uomo è Dio, e dato che l’uomo, per conoscere e amare Dio, deve servirsi della conoscenza del creato, la filosofia di per sé non si oppone alla fede, anzi costituisce l’anello di congiunzione che dalla natura fa risalire l’intelletto umano fino al Creatore. Tra i suoi scritti il più suggestivo è il De arra animae (“Il pegno dell’anima”), dove l’autore dialoga con la propria anima e scopre i dono che Dio le ha già fatto e quelli che le promette per la vita eterna; per Ugo di San Vittore la verità rivelata sulla beatitudine eterna si armonizza pienamente con l’introspezione che ogni uomo può fare, constatando che la propria anima è creata dall’amore ed è fatta per vivere di amore, con un desiderio di infinito che solo l’unione perfetta con Dio potrà colmare. Per questo l’amore di Dio non è un’imposizione religiosa ma una libera e gioiosa scelta dell’anima che ha compreso qual è il suo vero bene, e dice: «Questo scelgo, questo desidero, questo bramo con tuto il cuore!» (De arra animae, 5, 9). Durante la vita terrena, il mondo con le sue bellezze costituisce il “pegno” della bellezza e della gioia che Dio prepara per i suoi figli (è un motivo tipicamente agostinaiano, che poi fiorirà in modo straordinario nella spiritualità di san Francesco d’Assisi e nel grande teologo francescano, Bonaventura di Bagnoregio).
Analoga posizione è quella del suo discepolo Riccardo, nel quale il misticismo assume una forma di sintesi ove confluiscono motivi platonici, agostiniani e anselmiani; le sue opere e il suo insegnamento sono di carattere per lo più mistico-teologico (De Verbo incarnato, De gratia contem­pla­tio­nis, ecc.).
Al secolo XII appartiene l’italiano Pietro Lombardo, proveniente dalla scuola di Bologna, in séguito fu alla scuola di San Vittore e vescovo di Parigi; morì nel 1160; la sua opera maggiore, che servirà di testo ai dottori dei secoli successivi (tra i quali san Tommaso e san Bonaventura), è Sententiarum libri quattuor, opera completa, critica e sistematica, più teologica che filosofica, di tutta la dottrina, desunta e lievitata dalle Sacre Scritture e dalla tradizione. Il cosmo, l’uomo e Dio vi sono sì bene armonizzati e la Rivelazione sì bene innestata che si può dire raggiunto l’equilibrio critico del naturale col soprannaturale, equilibrio che costituirà uno dei punti di partenza del genio di san Tommaso d’Aquino.
 Ma il più importante mistico di questo periodo è un altro francese, san Bernardo di Chiaravalle. Nato presso Digione nel 1091; fondò un monastero a Clairvaux (Chiaravalle) e lo governò con grande saggezza per quarant’anni; con i discorsi e gli scritti svolse un’intensa opera in difesa dell’ortodossia (specialmente contro gli errori di Roscellino e di Abelardo) e per la salvaguardia dell’unità della Chiesa e del primato del pontefice romano. Le sue opere maggiori (De gratia et libero arbitrio, De diligendo Deo e De consideratione) sono di argomento apologetico e teologico-mistico.Il suo epistolario è di notevole importanza storica per il costume del tempo e per gli eventi storici che vi si descrivono.