Libro III – Cap. 9 La rivoluzione americana

Prof. A. Torresani. 9. 1  Può un’isola guidare un continente? – 9. 2  Gli americani non pagano le tasse – 9. 3  La guerra d’Indipendenza americana – 9. 4  La Costituzione degli Stati Uniti – 9. 5  La Confederazione degli Stati Uniti d’America – 9. 6  Cronologia essenziale – 9. 7  Il documento storico – 9. 8  In biblioteca.

Cap. 9 La rivoluzione americana
 Il trionfo britannico nella guerra dei Sette anni, la con­quista dell’India iniziata da Robert Clive e proseguita vittorio­samente da Warren Hastings, l’occupazione del Canada francese dettero al Regno Unito un impero esteso su tre continenti, ma con la gloria vennero anche nuovi problemi. In Gran Bretagna la rivo­luzione industriale era entrata nella sua fase più travolgente e la cultura illuministica dominava con la sua vivace critica che sembrava in grado di scardinare gli istituti politici e le idee più venerande ricevute dalla tradizione. In America, la maggiore sicurezza delle Tredici colonie, favorita dall’occupazione del Canada, accelerò la penetrazione nell’Ovest, in dire­zione del Mississippi e delle pianure centra­li, acuendo le tensioni sociali esistenti all’interno di ogni colonia. Sul piano politico, in Gran Bretagna Giorgio III aveva di mira la formazione di un partito della corona che gli permettesse di governare direttamente: screditati i Tory dall’ingloriosa fine del tentativo dei legittimisti Stuart del 1745, il partito Whig si divise tra vecchi Whig guidati da Wil­liam Pitt, e in giovani Whig devoti al sovrano ma incapaci di comprendere la natura del fermento americano. I coloni d’America erano in larga maggioranza europei che non accettavano sistemi inadatti a uomini fieri della loro libertà, resi arditi dalla distanza della madrepatria e dall’esistenza di spazi sterminati da aprire alla colonizzazione. Giorgio III volle sottrarsi all’influenza di William Pitt, l’unico politico disposto a concedere ampia autonomia alle colonie america­ne purché si tenessero unite alla Gran Breta­gna. La guerra dei Sette anni aveva accresciuto il debito pubblico britannico e le spese di amministrazione dei nuo­vi territori esigevano altri in­terventi finanziari: l’unica via d’uscita fu aumen­tare le tasse ai coloni. Immediata la reazione degli americani: dapprima boicottarono le merci della Gran Bre­tagna, poi impedirono l’esportazione delle loro merci in Gran Bretagna e infine proclamarono l’indipendenza, affrontando una lunga guerra contro la madrepatria.

9. 1 Può un’isola guidare un continente?
 La guerra dei Sette anni iniziò in America tra Gran Bretagna e Francia e per qualche anno fu favorevole alla seconda.
William Pitt Nel 1758 William Pitt assunse pieni poteri per con­durre la guerra, e presto su tutti i fronti il successo arrise alle armate britanniche: in India Robert Clive scon­fisse il generale francese Duplaix e il suo alleato, il Gran Mo­ghol di Delhi; in Germania Federico II sconfisse Francesi, Au­striaci e Russi; in America la stra­tegia del Pitt, dopo aver concentrato le forze di terra al coman­do di generali energici in grado di sconfiggere le forze francesi, conobbe i maggiori successi.
Il generale Wolfe cattura Quebec Il Pitt ebbe la fortuna di im­battersi nel generale britannico più somigliante a Federico II, James Wolfe di appena 31 anni, nel generale Jeffrey Amherst e nell’ammiraglio Boscawen. La buona coordinazione di questi tre comandanti permise la cattura della fortezza di Louisburg posta all’ingresso del San Lorenzo. Dopo aver impedito l’arrivo di rinforzi francesi, il generale Wolfe concentrò le sue forze intorno alla città di Quebec, porta d’accesso del Canada francese: con abile scelta tattica sistemò le sue truppe in posizione dominante la città. Il successo fu totale (1759), anche se funestato dalla morte del Wolfe.
Termina la guerra dei Sette anni In quell’anno mirabile per le armi britanniche la guerra dei Sette anni vir­tualmente finì anche se occorsero due anni per arrivare alla pace di Parigi (febbraio 1763): le trattative non furono condotte dal Pitt, ma da Robert Bute e dal giovanissimo re Giorgio III, privi di esperienza internazionale e incapaci di elaborare una strate­gia imperiale per tenere uniti alla Gran Bretagna gli sterminati territori conquistati.
La politica nei confronti degli indiani Estromettendo la Fran­cia dal continente americano, il governo inglese assumeva respon­sabilità più grandi di quelle che poteva sostenere. In primo luo­go si poneva il problema dei rapporti con gli indiani: mentre in Canada essi erano i necessari intermediari per catturare gli ani­mali da pelliccia e compiere le prime operazioni di concia delle pelli, ai confini delle Tredici colonie gli indiani erano consi­derati ospiti indesiderati da distruggere o ricacciare sempre più a Occidente.
La politica nei confronti dei coloni In secondo luogo si doveva elaborare uno statuto dei diritti e dei doveri dei coloni e dei circa 60.000 franco-canadesi. I coloni avevano eletto in ogni Stato un Parlamento, ma non inviavano alcun rappresentante al Parlamento di Londra; inoltre non esisteva un organismo politico che raccordasse le politiche dei singoli Parlamenti statali.
Evoluzione politica delle Tredici colonie Fino a quel momento l’impero britannico era stato in prevalenza un impero commercia­le, guidato da una classe dirigente legata agli interessi dei grandi proprietari terrieri. L’ingrandimento dell’impero comportò un mutamento: in luogo di governare le colonie tenendo presenti le loro capacità commerciali, si passò al criterio di governarle tenendo presenti le loro entrate e il numero dei loro abitanti considerati come potenziali contribuenti.
Aumentano le spese militari Fino al 1763 era prassi normale in Gran Bretagna sciogliere l’esercito, mandando gli uomini a casa, ma la nuova realtà imperiale sconsigliava una deci­sione del genere e perciò fu conservato un esercito nelle più importanti sedi del governo coloniale: il fatto comportava notevoli spese e perciò il governo di Londra ritenne opportuno tassare le Tredici colonie e il Canada.
I governi coloniali rifiutano le nuove tasse Quando il governo di Londra con legge del Parlamento tentò di introdurre le nuove tasse, i Parlamenti statali delle colonie si opposero, affermando che un principio fondamentale delle libertà britanniche era di considerare illecita la tassazione senza rappresentanza in Parla­mento. Il governo britannico replicò che esisteva la rappresen­tanza virtuale: anche in Inghilterra città come Manchester e Sheffield non avevano rappresentanti in Parlamento, ma i loro in­teressi erano tutelati dagli altri membri del Parlamento. Gli americani risposero dicendo che ciò era assurdo, e che essi avrebbero pagato solo tasse votate da Parlamenti statali regolarmente eletti.
Pericoli del particolarismo americano Queste dispute suggerirono il progetto di un organismo interstatale per contrapporre unite le Tredici colonie e il Cana­da al governo di Londra, ma senza istituirlo di fatto: solo nel 1788 fu compiuto il grande passo della federazione.
Problemi dell’Ovest americano Ancora più spinoso il problema dell’Ovest, perché non si sapeva con certezza a chi appartenessero quegli sterminati terri­tori, in gran parte ancora inesplorati: se alla Francia che per prima aveva iniziato la colonizzazione; o alla Spagna che alla pace di Parigi del 1763 aveva ereditato i diritti vantati dalla Francia; o alle Tredici colonie che di fatto permettevano ai coloni di insediarsi nelle valli del Tennessee e dell’Ohio.
Ripresa del colonialismo spagnolo Intanto, la Spagna di Carlo III si era fatta più aggressiva e rafforzava la sua presenza nel Messico, nel Texas e in California, cercando di con­trollare anche la valle del Mississippi.
Pontiac capo di una confederazione indiana Nel 1763 gli indiani insorsero trovando un gran capo in Pontiac, della tribù Ottawa, che riunì in federazione le altre tri­bù. Gli indiani erano abituati al trattamento dei mercanti fran­cesi che facevano un dono annuale, considerandoli alleati. I mercanti e i coloni britannici, invece, agivano in modo brutale, bruciavano i boschi e recintavano i pascoli rendendo impossibile l’economia indiana. Le pellicce furono ancora per decenni la voce più importante del commercio estero americano e una deci­sione politica sul trattamento da riservare agli indiani appariva urgente: ma chi aveva diritto a formulare le linee di quella po­litica? Abbiamo visto che nel 1762 William Pitt rassegnò le di­missioni prontamente accettate da Giorgio III, desideroso di uomini proni alla sua volontà.
Pitt e i vecchi Whig Pitt apparteneva all’ala dei vecchi Whig che si rifacevano al tempo in cui la “gloriosa rivoluzione” pose fine a ogni tentativo di politica personale da parte del re: tra costoro c’erano personalità spiccate che per un verso erano più liberali degli avversari perché si oppone­vano alla tassazione delle colonie.
Incertezze della politica coloniale britannica Nel 1762 il re Giorgio III nominò un ministero presieduto da George Grenville che propose lo Stamp Act, la tassa di bollo che fece infuriare gli americani. Caduto anche questo ministero fu la volta di Lord North, l’uomo di Giorgio III: costui ignorava i reali problemi dei coloni. Sotto il suo governo i co­loni compirono il passo estremo della dichiarazione d’indipenden­za.

9. 2 Gli americani non pagano le tasse
 Come abbiamo visto, i problemi erano due: co­me regolare la penetrazione nell’Ovest del continente americano e chi doveva pagare le spese causate dall’ingresso dei territori ex francesi nell’impero britannico.
Mancata soluzione del problema indiano Di fatto il primo proble­ma fu abbandonato alla libera iniziativa degli speculatori di terreni da destinare all’agricoltura a danno degli indiani che per oltre un secolo furono nemici irriducibili della penetrazione dei bianchi. Per quanto riguarda la se­conda questione, il governo inglese riteneva indispensabile un contributo delle Tredici colonie alle spese della difesa, mentre i coloni ritenevano di pagare già abbastanza per mante­nere i loro Stati: le spese ulteriori dovevano ricadere sul go­verno britannico.
Sugar Act Nel 1764 Lord Grenville propose al Parlamento una se­rie di progetti intesi ad assicurare un notevole gettito fiscale in America, mediante il Sugar Act e lo Stamp Act. Col primo provvedimento fu deciso di abbassare la tassa sulla me­lassa – la polpa di canna residuo dell’estrazione del­lo zucchero, da cui si ricava per distillazione il rum -, ma al tempo stesso di stroncare il contrabbando di melassa mediante maggiori controlli. Le distillerie di rum erano numerose nel New England: facevano buoni affari importando melassa dalle Antille francesi e spagnole. Se fosse stato applicato, il Sugar Act rischiava di inaridire l’unica voce attiva della bilan­cia commerciale del New England. L’opposizione alla legge fu spo­radica anche perché colpiva un commercio che alla mentalità puri­tana sembrava immorale. Ma quando nel 1765 il Grenville fece approvare lo Stamp Act, la famosa tassa del bollo, il dis­senso esplose in modo clamoroso.
Stamp Act Il disegno di legge prevedeva l’emissione di marche da bollo da applicare ai giornali, agli annunci di teatro, ai documenti ecc. Subito avvocati e uomini d’affari, giornalisti e commercianti formarono associazioni di resistenza per bloccare ogni genere di transazioni commerciali. La legge prevedeva che il denaro raccolto fosse speso in America e che gli esattori dovevano essere americani, eppure la reazione dei coloni fu compatta, sconcertando i responsabili della politi­ca britannica. A Boston la fol­la saccheggiò la casa del vicegovernatore e in tutte le Tredici colonie la legge fu dichiarata nulla.
Il Parlamento inglese vota il Declaratory Act In Inghilterra, nel frattempo, si aprì un dibattito in Parlamento, reso ro­vente dalle manifestazioni di disoccupati e commercianti ro­vinati dal crollo delle esportazioni britanniche verso il nuovo mondo: nel marzo 1765 il re decise­ di revocare lo Stamp Act. Nello stesso tempo, tuttavia, fu promulgato il Declaratory Act che in termini recisi affermava es­ser in potere del re “far leggi e statuti tanto validi da avere in ogni caso vigore nelle colonie”: i coloni americani erano troppo impegnati dai festeggiamenti della vittoria per prendere sul serio una dichiarazione che, se applicata, minacciava di ridurre le Tredici colonie alla condizione dell’Irlanda.
Tassa sulle importazioni americane Il Parlamento britannico avrebbe fatto bene a non prendere alcuna decisione in campo fi­scale per un po’ di tempo, ma così non fece. Nel 1766 il ministe­ro propose al Parlamento di abbassare l’imposta fondiaria dal 20 al 15% e di reperire la somma così perduta dall’erario con un dazio sulle im­portazioni americane di vernici, carta, piombo e te. Le colonie risposero con agitazioni non inferiori a quelle avvenute per lo Stamp Act. Risorsero i comitati di boicot­taggio delle merci inglesi.
Incidenti di Boston Il governatore di Boston chiese l’invio di due reggimenti di soldati inglesi, acquartierati alla periferia della città, ma nel marzo 1770 scoppiarono incidenti sfociati in uno scambio di fucileria che stese morti quattro abitanti di Boston. La pub­blicistica americana parlò di orribile massacro senza stabilire le responsabilità. Lord North revocò i dazi, lasciando solo quello sul te: per qualche tempo la pace sembrò tornare nel­le colonie, ma il fuoco covava sotto la ce­nere.
Il tea party di Boston La calma apparente fu turbata nel di­cembre 1773 da un clamoroso incidente che va sotto il nome di “tea party di Boston”. La potente Compagnia delle Indie occiden­tali attraversava una crisi finanziaria: per risolverla aveva sollecitato dal Parlamento il monopolio del trasporto del te in America. Per guadagnare di più aveva cercato di scavalcare la mediazione dei rivenditori locali. I commercianti strinsero alleanza con i politici più radicali, riprendendo a boicottare il te: l’episodio cruciale avvenne a Boston dove un gruppo di uo­mini camuffati da indiani salirono su tre navi della Compagnia buttando a mare il carico.
Reazione del Parlamento di Londra Il Parlamento di Londra reagì votando una serie di decreti che dovevano apparire un’esemplare punizione di Boston, isolando il Massachusetts dalle altre colonie. La risposta fu un’assemblea di rappresentanti del­le Tredici colonie convocati al Congresso continentale di Filadelfia “per consultarsi sull’at­tuale triste condizione delle colonie”.
Primo Congresso continentale Il Congresso votò rappresaglie contro la Gran Bretagna: le colonie si impegnavano a non esportare, a non importare e a non consumare merci inglesi. Poi il Congresso approvò una Dichiarazione dei di­ritti e delle lagnanze che fu il logico risultato di una serie di discussioni di notevole valore per la storia delle dottrine politiche. Erano libelli che giungevano alla stessa conclusione: il Parlamento britannico non aveva giurisdi­zione sulle colonie perché ciascuna aveva un proprio Par­lamento.
La dottrina del federalismo La dottrina del fe­deralismo fu elaborata tra il 1774 e il 1776, ma in Gran Bretagna non c’era nessuno disposto ad accettarla. Lo scontro armato apparve inevitabile.
L’Associazione Il Congresso di Filadelfia creò la cosiddetta “Associazione”, un gruppo di volontari impegnati in ogni Stato a controllare l’applicazione degli accordi di non esportazione, di non importazione e di non consumo delle merci britanniche. I me­todi dell’Associazione disgustarono non poco i coloni che, dalla tirannia di un re lontano, caddero nella tirannia vicina di gente venuta su dal nulla, e che pretendeva di interferire coi loro af­fari. Nelle colonie perciò si ebbe un’ulteriore divisione tra i patrioti, ovvero i radicali che premevano per la guerra, e i le­gittimisti che aspiravano a mantenere rapporti con la madrepa­tria. La guerra d’indipendenza fu perciò anche una guerra civile tra opposte fazioni di coloni.
Ultimo tentativo di composizione Nel febbraio 1775 Lord North fece approvare dal Parlamento una risoluzione: se ogni colonia versava un adeguato stanziamento per la difesa dei propri confini, anche la Gran Bretagna avrebbe devoluto il provento dei dazi di quella colonia alle necessità del governo locale. Quando la notizia del provvedimento giunse in America era già scoppiata la guerra.
Gli incidenti di Concord Il generale inglese Thomas Gage aveva avuto notizia che i patrioti del Massachusetts stavano racco­gliendo polvere da sparo e armi nella cittadina di Concord. Nella notte del 18 aprile 1775 egli inviò un forte distaccamento di soldati da Boston per impadronirsi delle munizioni. I patrioti insorsero e quando il maggiore Pitcairn entrò nel villaggio di Lexington fu accolto da una scarica di fucileria. I soldati in­glesi risposero al fuoco e stesero otto americani. La marcia pro­seguì fino a Concord, dove la resistenza fu ancora più aspra. I soldati, dopo avere raggiunto solo in parte il loro obiettivo, cominciarono la ritirata, ma lungo il cammino su­birono imboscate da parte dei contadini. Quando finalmente raggiunsero Boston le perdite inglesi, tra morti e fe­riti, ascendevano a 247 uomini. La notizia fece il giro del mon­do: Lexington e Concord furono bollate come atrocità britanniche nei confronti di cittadini inermi.
Secondo Congresso continentale Il 10 maggio 1775 fu convocato a Filadelfia il secondo Congresso continentale: fu de­ciso di trasformare le bande di volontari che assediavano Bo­ston in un esercito al comando di George Washington. Poi si decise di inviare una spedizione contro Quebec per fare del Canada la quattordicesima colonia, un gesto considerato dal governo britannico chiaramente ostile.
Esitazioni dei Parlamenti statali La maggior parte dei Parlamen­ti delle colonie era riluttante a schierarsi contro la Gran Bre­tagna e a proclamare l’indipendenza, sperando di rovesciare il governo britannico rimanendo nell’impero. Giorgio III e il Parla­mento di Londra rifiutarono di venire a compromessi e il 22 di­cembre 1775 fu votata una legge che proibiva ogni rapporto con le Tredici colonie.
“Senso comune” di Thomas Paine Nei primi mesi del 1776 uscì il famoso libello di Thomas Paine intitolato “Senso comune”, una specie di miccia che accese gli animi, presentando in maniera po­polare i motivi che spingevano le Tredici colonie alla guerra. Paine attaccava la monarchia e in particolare Giorgio III presen­tato come un tiranno: “Un uomo onesto vale quanto tutti i buffoni incoronati che siano mai esistiti”. Giudicando l’Europa corrotta, egli affermò che “il vero interesse dell’America era di tenersi lontana dalle contese europee, cosa che essa non può fare fino a quando, per la sua stretta dipendenza dall’Inghilterra, essa fun­ge da contrappeso nella bilancia della politica britannica”: il Paine anticipava così l’isolazionismo, una direttiva di politica estera degli USA seguita per quasi un secolo e mezzo. La perora­zione finale era un invito alla rivoluzione mondiale.
I Parlamenti statali votano l’indipendenza Il libello indusse più di ogni altra considerazione i Parlamenti a votare la guerra: il governo di Pennsylvania, troppo esitante, fu rovesciato e so­stituito da un altro che si pronunciò per l’indipendenza. Nel gennaio 1776 la città di Norfolk fu incendiata perché non cadesse in mano britannica.
Dichiarazione di indipendenza A giugno Richard Henry Lee propose al Congresso di Filadelfia di votare una mozione secondo cui “queste colonie unite sono o dovrebbero essere di diritto Stati liberi e indipendenti”. Il 2 luglio tale mozione fu approvata dal Congresso che dette incarico a Thomas Jefferson e altri di preparare una Dichiarazione “esponendo le ragioni che ci costringono a que­sto immane passo”. La Dichiarazione di Indipendenza fu approvata il 4 luglio 1776.

9. 3 La guerra d’Indipendenza americana
 La Dichiarazione d’indipendenza non annunciò solo la nascita di una nuova nazione, ma enunciò anche la filosofia politica ac­colta in seguito da gran parte del mondo.
Una nuova filosofia politica A una attenta analisi la Dichiara­zione appare fondata non tanto sulle lamentele delle colonie av­verse a particolari angherie del governo britannico, quanto su una nuova concezione dei rapporti tra governo e cittadini: “Noi consideriamo queste verità come per sé evidenti: tutti gli uomini sono creati uguali e il creatore li ha dotati di alcuni diritti inalienabili, tra i quali vi sono la vita, la libertà e la ricer­ca della felicità. I governi sono stati istituiti tra gli uomini per assicurare tali diritti e derivano il loro giusto potere dal consenso dei governati. Quando una forma di governo risulta nega­tiva per il raggiungimento di quegli scopi, il popolo ha il di­ritto di mutarla e di abolirla e di istituire un nuovo governo, basandolo su principi e organizzandone i poteri nel modo che, a suo giudizio, sembri più adatto al raggiungimento della sua sicu­rezza o della sua felicità”. Secondo il Jefferson gli uomini “sono creati uguali”, ma per un facile trapasso si giunse a pensare che gli uomini “devono es­sere uguali”. Il Jefferson non disse che anche gli schia­vi sono uomini, ma più tardi, quando fu redatta la Costituzio­ne, si affermò esplicitamente che non doveva esserci schia­vitù in America, se non in forma transitoria fino a quando gli Stati meridionali avessero trovato un’altra forma per organizzare la loro economia, mediante un famoso emendamento che in qualche modo era una macchia sulla mirabile enunciazione di principio.
La guerra civile La Dichiarazione d’indipendenza costrinse i conservatori legittimisti a venire allo scoperto. Essi erano in maggioranza nelle colonie di New York, del New Jersey e della Georgia, numerosi anche nelle due Caroline e in Pennsylvania. Tutti costoro dovettero dimettersi, rifugiandosi presso i comandi degli eserciti britannici.
Problemi militari Qualche generale britannico si rese conto che per conquistare l’immenso territorio caduto in mano ai ribelli, esteso dal Canada alla Florida, sarebbero occorse molte truppe e flotte imponenti. Per di più la Gran Bretagna appariva poli­ticamente isolata in Europa dove le maggiori potenze si erano unite in una lega di neutralità armata, guidata dalla Russia, impedendo l’invio in America di truppe britanniche. La guerra fu combattuta svogliatamente dai patrioti americani che, non avendo alcun desiderio di sottoporsi alla disciplina di un esercito regolare, preferirono la guerriglia per bande isolate ciascuna nel proprio Stato; e dalla Gran Bretagna, dove molti parteggiavano per gli insorti, giudicando perduta in partenza la lotta. Il governo britannico inviò eserciti composti soprattutto di mercenari tedeschi, coinvolti in una guerra di cui non com­prendevano la natura: perciò rallentarono le operazioni per agire con la massima sicurezza.
George Washington George Washington non si faceva illusioni sul suo esercito. Fin dall’inizio fu sopraffatto non tanto dai compi­ti militari, quanto dai difficili rapporti poli­tici con gli Stati che gli lesinavano gli aiuti e i rifornimenti, sempre alle prese con i soldati che, senza attendere la fine dei combattimenti, davano le dimissioni per occuparsi del raccolto nelle loro fattorie. Il contributo offerto alla causa americana da Washington fu non tanto la sua abilità di stratega quanto la sua capacità di me­diatore e di paziente ricucitore dei conflitti tra i vari Stati, quando l’entusiasmo dei primi mesi venne meno rive­lando il volto crudele della guerra civile. Infatti, gli Inglesi scoprirono che le truppe migliori per combattere le bande dei patrioti erano i legittimisti americani, in possesso di una perfetta conoscenza dei luoghi.
Vittorie dei patrioti nel Sud Già prima della Dichiarazione d’Indipendenza, nella Carolina del Nord le bande dei patrioti erano riuscite a sconfiggere le bande dei legittimisti nel febbraio 1776. Il fatto impedì a Lord Cornwal­lis di congiungersi con un distaccamento inglese proveniente da Boston al comando di sir Henry Clinton. Questi ripiegò su Charleston nella Carolina del Sud dove i patrioti locali lo respinsero aiu­tati da un distaccamento inviato da Washington. Clinton e Cor­nwallis dovettero reimbarcarsi e raggiungere il generale William Howe che attaccava New York.
Liberazione di Boston Washington, negli stessi mesi, riuscì a porre termine all’assedio di Boston obbligando il nemico a riti­rarsi. Un suo generale, Benedict Arnold, convinse il Congresso a inviarlo con due divisioni in Canada per prendere Quebec e sot­trarre agli inglesi quell’importante base di operazioni: l’impre­sa fallì e il Canada rimase inglese, ma la costante possibilità di un attacco in quella direzione costrinse il governo britannico a dividere il proprio esercito in due armate, una delle quali do­veva presidiare il Canada.
Attacco americano contro New York Dopo la caduta di Boston, Wa­shington si diresse su New York prevedendo giustamente che quello sarebbe stato l’obiettivo più importante per gli inglesi, dato il gran numero di legittimisti esistente nello Stato. La città fu presa dai soldati di William Howe, ma le alture di Harlem rimase­ro in mano degli americani finché verso la fine del 1776 Washin­gton fu costretto a ritirarsi nel New Jersey.
La resa di Saratoga La campagna ideata per il 1777 prevedeva da parte inglese che le truppe di stanza in Canada al comando del generale Burgoyne si congiungessero con le truppe del generale Howe a New York per marciare insieme su Filadelfia. Il piano non funzionò e Burgoyne collezionò una serie di sconfitte nella valle dello Hudson, culminate il 17 ottobre 1777 con la resa davanti al generale americano Gates. Questi avvenimenti, capitali per la storia americana, determinarono l’entrata in guerra della Francia a fianco degli americani.
Intervento della Francia La resa di Saratoga convinse il mini­stro degli esteri francese Vergennes che era venuto il momento di rifarsi della sconfitta subita nel corso della guerra dei Sette anni. L’entusiasmo per la causa americana era grande tra gli intellettuali francesi. Voltaire, Condorcet e gli altri illumini­sti si schierarono dalla parte dei ribelli: la Dichiarazione d’Indipendenza fu lievito di notevole importanza per la rivolu­zione francese. Se la Francia, e in misura minore la Spagna, tra­scinata in guerra dalla prima, avessero mantenuto la neutralità, avrebbero tutelato meglio i loro interessi, perché la rivoluzione trionfante nelle colonie americane, presto avrebbe trionfato an­che nelle colonie spagnole e francesi. Prevalsero considerazioni più immediate: i commercianti francesi anelavano a sostituire la Gran Bretagna sul mercato americano; e il governo francese dichiarò di non mirare a rioccupare il Canada per non insospettire i coloni americani. Di fatto, i volontari del La Fayette arrivarono in America ancor prima che il loro go­verno dichiarasse la guerra.
Proposte del governo inglese In Gran Bretagna, Lord North verso la fine del 1777 propose l’accoglimento delle richieste ameri­cane purché le Tredici colonie rimanessero sotto il regno nominale di Giorgio III, ma pochi giorni prima Franklin aveva firmato con la Francia un trattato di alleanza e un accordo commerciale.
Guerra tra Francia e Gran Bretagna La guerra scoppiò tra i due paesi europei e dilagò trascinando nella contesa altri Stati: le Province Unite furono costrette ad allearsi con la Gran Bretagna, mentre la Spagna, nel 1779, si alleò con la Francia. La lega del­la neutralità armata intralciò non poco i movimen­ti della flotta inglese e ci furono scontri navali nell’Atlanti­co, nel Mediterraneo, nel Mar delle Antille, nel Mare del Nord e perfino nell’Oceano Indiano.
Problemi navali Come Washington aveva previsto fin dall’inizio del conflitto, il potere navale sarebbe stato determinante per l’esito della guerra, ma fino al 1780 la superiorità britannica rimase schiacciante. Una flotta americana a struttura federale non fu progettata: si formarono alcune piccole flotte dei singoli Stati e fiorì la pirateria. Una flotta federale avrebbe richiesto mezzi finanziari che non esi­stevano, mentre gli Stati e i pirati praticavano una guerra che si autofinanziava: perciò furono attaccate le navi commercia­li che procedevano isolate.
La campagna del 1778 La campagna del 1778 fu costellata dagli errori tattici dei soldati di Washington. Quegli errori, tutta­via, non furono sfruttati dal generale Howe che non prese l’iniziativa di un attacco a fondo. Alla fine Howe decise la ritirata da Filadelfia a New York per parare la minaccia portata da una flotta francese al comando dell’ammiraglio d’Estaing. Costui attaccò Newport e poi, spinto da una tempesta, si rifugiò a Bo­ston per riattrezzarsi e infine navigò verso le Antille per oc­cupare le isole dello zucchero perdute nella guerra precedente. Approfittando della diminuita pressione francese, gli Inglesi in­viarono a Charleston, alla fine del 1778, una flotta che sbarcò circa 7000 soldati accolti dai legittimisti delle due Ca­roline. A Yorktown fu allestita una base inglese mentre le operazioni sugli altri fronti ristagnavano. Nell’inverno tra il 1779 e il 1780, La Fayette si recò a Versailles per indurre il governo francese a compiere uno sforzo supremo.
La Francia accresce il suo impegno Luigi XVI, essendo mutata a suo favore la situazione europea, inviò in America una flotta co­mandata da un buon ammiraglio, il De Grasse, per eli­minare la flotta inglese dalle Antille e poi raggiungere la costa americana nel punto ritenuto idoneo a uno sforzo con­giunto con le truppe di Washington. Lord Cornwal­lis, subito dopo aver riportato alcuni successi nella Carolina del Nord si congiunse con le truppe inglesi guidate da un tradi­tore americano, Benedict Arnold, e insieme cominciarono a forti­ficare Yorktown.
La campagna di Yorktown La campagna di Yorktown fu la meglio congegnata e la meglio riuscita del conflitto. Quando il De Gras­se ebbe terminato la sua missione nelle Antille, comunicò a Wa­shington di concentrare le sue truppe intorno a Yorktown. Il 30 ago­sto 1781, De Grasse gettò le ancore nella baia del Chesapeake ottenendo nei giorni succes­sivi il dominio del mare: per le truppe del Cornwallis, inferiori di numero, non ci fu nulla da fare, e il 17 ottobre avvenne la resa. La guerra per l’indipendenza americana era fi­nita, ma per la pace occorsero quasi due anni di trattative.
La pace di Versailles In Inghilterra Lord North dette le dimis­sioni e Giorgio III fu sul punto di abdicare. Il nuovo governo era pronto a ogni concessione pur di terminare un conflitto che costava somme enormi. Le trattative furono avviate a Versailles dove i plenipotenziari ameri­cani ebbero l’ordine di accettare solo le proposte gradite anche alla Francia. La Spagna, nel corso delle trattative, avanzò richieste eccessive che finirono per riavvicinare inglesi e ame­ricani. Si giunse perciò a trattative dirette tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che sottoscrissero un trattato preliminare il 30 novem­bre 1782 con la clausola che sarebbe entrato in vigore dopo il trattato di pace tra Gran Bretagna e Francia, firmato il 1° settembre 1783.

9. 4 La Costituzione degli Stati Uniti
 Nel corso del lungo conflitto per l’indipendenza, all’inter­no dei singoli Stati era proseguito il processo di tra­sformazione delle strutture politiche che condurrà un gruppo di colonie a formare uno Stato federale, il primo in possesso di una Costituzione scritta.
Radicalismo delle Costituzioni statali Poiché i singoli Stati si erano dati la propria Costituzione in un momento di tensione e di pericolo estremo, i ceti più democratici erano riu­sciti a far approvare statuti che prevedevano ampie libertà per­sonali, tutelate da garanzie scritte per impedire usurpazioni da parte del potere politico. La prima garanzia fu la divisione e la reciproca indipendenza dei poteri esecutivo, legi­slativo e giudiziario, ciascuno dei quali aveva diritto di con­trollo sull’operato degli altri. La seconda garanzia era la crea­zione di due assemblee, Camera e Senato. Per evitare la tirannia degli estremisti, il diritto di voto fu assegnato ai cittadini che pagava­no un certo ammontare di tasse, in omaggio al principio che decidono la spesa pubblica solo coloro che conferiscono allo Stato i mezzi finanziari di cui esso ha bisogno.
Democratici e conservatori In modo naturale si forma­rono due fondamentali partiti: democratici e conservatori che non differivano tanto per concezione ideologica, quanto per la diversa valutazione delle priorità da assegnare all’azione di governo. I democratici miravano a tenere vivo lo slancio rivolu­zionario ed erano inclini a conferire grandi poteri al governo federale che per le questioni di interesse comune (difesa, finan­ze, politica estera) doveva prevalere sulla politica di ognuno degli Stati: i democratici perciò chiamarono “federale” il loro partito. I conservatori, al contrario, desideravano terminare quanto prima le turbolenze del periodo rivoluzionario, attribuen­do ampi poteri ai singoli Stati, i quali dovevano risolvere quan­to prima gli acuti problemi di ordine finanziario, della re­cessione economica, dei debiti accumulati all’estero. I conservatori preferirono chiamare “repubblicano” il lo­ro partito.
Alexander Hamilton I due partiti ancora in embrione trovarono due grandi personalità atti a prospettare gli ideali per aggregare i rispettivi seguaci. Alexander Hamilton di New York prevedeva per gli Stati Uniti un futuro orientato verso lo sviluppo industriale, date le enormi riserve di materie prime esistenti nell’America settentrionale che il lavoro umano avrebbe saputo valorizzare.
Thomas Jefferson L’ispiratore dei repubblicani fu Thomas Jefferson che, invece, disegnò il sogno americano, ossia un immenso Stato densamente popolato da agricoltori, ciascuno proprietario di una fattoria, godendo l’indipendenza assi­curata dalla proprietà, col minimo di interferenze da parte del potere statale, che doveva realizzare un programma di colonizzazione per of­frire terra agli uomini del mondo intero oppressi dal bi­sogno e amanti della libertà.
La libertà religiosa Anche la libertà religiosa fu una conquista del periodo rivoluzionario. All’inizio della guerra d’indipenden­za, la Chiesa anglicana era l’unica riconosciuta in tutte le co­lonie, dal Maryland alla Georgia. Le Chiese presbiteriane (calvinisti) avevano una condizione di privilegio negli Stati del New England (Massachusetts, Connecticut, New Hampshire). Solo nel Rhode Island, in Pennsylvania, nel New Jersey e nel Delaware esi­steva separazione tra Chiesa e Stato, ossia tutti i culti erano ugualmente riconosciuti. Un poco alla volta, anche in considera­zione del fatto che la Chiesa anglicana aveva come capo il re Giorgio III che in America perdette ogni autorità, trionfò il principio che la semplice tolleranza degli altri culti era offensiva e si volle includere nelle Costituzioni statali il principio della libertà per tutti i culti, compresa la libertà di non seguire alcun culto. Solo i tre Stati calvinisti opposero una resistenza durata fino all’inizio del secolo XIX, mantenendo l’esazione della tassa del culto anche se essa era versata, nel caso di fedeli dissidenti, al pastore dissidente.
La schiavitù Il problema della schiavitù, al contrario, non fu risolto: per non inasprire i contrasti, da una parte ci si accontentò di condannarlo a parole, e dall’altra si affermò che si doveva tollerare una situazione transitoria in attesa di una soluzione che non compromettesse l’economia degli Stati meri­dionali. All’inizio della rivoluzione c’era in America circa mezzo milione di schiavi e per acquistarli era stato speso molto denaro. Ognuno comprendeva il contra­sto tra l’affermazione, accolta dalla Costituzione, che “tutti gli uomini sono creati uguali”, col fatto che molte migliaia di schiavi nascevano ogni anno nella terra della libertà.
Abolizione della tratta dei negri Il primo attacco fu sferrato contro il commercio degli schiavi, per il semplice motivo che ta­le traffico era in mano a una compagnia britannica, la Royal African Company. Uno dei primi atti del Congresso continentale fu perciò l’accordo di non importazione di schiavi africani. Du­rante i dieci anni successivi all’indipendenza tutti gli Stati imposero quella proibizione assoluta. Purtroppo, gli america­ni erano abituati a considerare lettera morta ogni ostacolo alla libertà economica e dove gli schiavi rendevano, fio­rì il contrabbando.
L’emancipazione dei negri Si poneva il problema dell’emancipa­zione, ossia la liberazione degli schiavi in America da molte generazioni. L’emancipazione fu relativamente facile negli Stati del nord perché c’erano pochi schiavi. Negli altri Stati, dalla Virginia alla Georgia, a sud della famosa li­nea Mason-Dixon che corre lungo il parallelo di 39° 30′ (il con­fine tra Pennsylvania e Maryland), poiché il problema degli schiavi appa­riva insolubile, il compromesso meno traumatico sembrò quello di mantenere la schiavitù, considerata un male necessario.
Lo schiavismo diviene un problema politico In seguito si ritenne necessaria la schiavitù, finendo per non considerar­la un male. Anche di fronte a questo problema si formarono due partiti: a nord della linea Mason-Dixon tutti erano abolizioni­sti, a sud prevalevano gli antiabolizionisti. Gli abolizionisti con l’Ordinanza del nord-ovest ottennero un importante successo perché lo schiavismo fu vietato nei Territori a nord dell’Ohio avviati a divenire Stati (bastava che la popolazione residente superasse i 60.000 abitanti). Ben presto gli Stati schiavisti compresero che, così facendo, un giorno gli Stati antischiavisti avrebbero avuto la maggio­ranza e avrebbero preteso l’abolizione della schiavitù con una legge federale. Perciò essi proposero di prolungare fino al Pacifico la linea Mason-Dixon, esigendo l’erezione di Stati schiavisti e antischiavisti in numero uguale.

9. 5 La Confederazione degli Stati Uniti d’America
 Fin dal giugno 1776 Richard Henry Lee aveva presentato al Congresso continentale la mozione per redigere lo Statuto della Confederazione.
Schema provvisorio di Confederazione Nel novembre 1777 fu adot­tato uno schema provvisorio, in vigore dal 1781, dopo la ratifica di tutti gli Stati. Presto cominciarono le difficoltà perché, come era apparsa odiosa la dipendenza da Londra, ora appariva odiosa la dipendenza da Filadelfia. Che cosa era la Con­federazione? Un trattato che si può sempre rivedere o un governo? Nel corso della guerra, fino al 1783, il governo centrale aveva assunto poteri molto estesi che facevano sorgere dubbi sui poteri sovrani degli Stati: fare la guerra e la pace, mandare e ricevere ambasciatori, stipulare trattati e alleanze, emettere moneta, stabilire pesi e misure, trattare gli affari in­diani, organizzare la posta, contrarre prestiti all’estero, arma­re esercito e marina, requisire materiali e risolvere controver­sie di frontiera tra gli Stati.
L’Ordinanza del nord-ovest Tra i problemi che provocavano tra gli Stati maggiori attriti c’era quello dell’attribuzione del territorio a nord dell’Ohio e delle immense pianure centrali, dato che i diritti accampati dalla Spagna apparivano irreali. Il problema fu risolto affermando che i futuri Stati sarebbero stati un allargamento dell’Unione e non l’espansione coloniale di uno Sta­to della costa.
La Costituzione federale Finalmente giunse il tempo di chiudere il periodo rivoluzionario e di studiare la Costituzione federale degli Stati Uniti. Nel 1787 fu convocata una convenzione che, dopo sedici settimane di lavoro, sottopose alla ratifica degli Stati il testo della Costitu­zione federale.
Una Costituzione aperta Caratteristica della Costitu­zione americana è la sua brevità: essa infatti non si propone di descrivere i compiti dei vari organi di governo, ben­sì indica le basi delle istituzioni politiche, lasciando i dettagli all’azione legislativa. Questa caratteristica di legge-quadro la rende una costituzione aperta.
Ecco i principali istituti previsti dalla Costituzione:
1. Il Presidente nominato per quattro anni, con possibilità di rielezione, mediante voto popolare, è il capo dell’esecutivo e forma un governo mediante persone di sua fiducia, respon­sabili verso di lui.
2. Il Congresso dell’Unione ha il potere legislativo ed è formato dalla Camera dei rappresentanti nominati per quattro anni me­diante elezioni popolari (il numero dei deputati è proporzionale al numero degli abitanti di ogni Stato); e da un Senato dell’U­nione, formato da senatori in carica per quattro anni (due senatori per ogni Stato a prescindere dal numero degli abitanti, nominati dalle assemblee statali).
3. La Corte suprema ha il potere di interpretare autentica­mente la Costituzione e perciò vigila sull’operato del Presidente e del Congresso.
Washington primo presidente George Washington, che raccoglieva l’unanime consenso e la simpatia del suo popolo, fu il primo pre­sidente degli USA, rimasto in carica anche per il secondo mandato presidenziale. La scelta dei principali collaboratori fu molto felice: come Segretario di Stato (affari esteri) fu scelto Thomas Jefferson; al dipartimento del tesoro fu preposto Alexan­der Hamilton.
Il sistema giudiziario federale Washington, convinto che la ret­ta amministrazione della giustizia sia valida garanzia di buon governo, in primo luogo organizzò il sistema giudiziario fe­derale, l’elezione dei giudici e le norme che li tutelano. Il Congresso creò le corti federali inferiori e i collegamenti ne­cessari per armonizzare la giurisdizione federale con quelle statali.
Il riassetto finanziario Il secondo problema affrontato da Wa­shington fu il riassetto del sistema finanziario e tributario. Tale compito fu assolto da Alexander Hamilton, in possesso di specifica competenza Costui era convinto che ci saranno sempre pochi ricchi e molti turbolenti: per poter funzionare, il governo doveva assicurarsi la parte­cipazione attenta e duratura dei ricchi. Hamilton propose di con­solidare il debito estero e il debito interno, imponendo tasse di importazione e imposte di consumo per coprire gli interessi. Inoltre, il governo federale doveva assumersi il debito degli Stati e istituire un fondo di ammortamento per so­stenere i titoli di Stato e reperire il denaro dei rimborsi immediati creando la Banca degli Stati Uniti.
Affiorano conflitti di interesse Tuttavia, mentre queste inizia­tive erano in armonia con gli interessi del New England, dove prevaleva un ceto di armatori e commercianti, trovarono tiepida accoglienza in Virginia dove predominavano gli interessi di piantatori e agricoltori. Il risultato di quei provvedimen­ti fu l’affiorare di tensioni economiche che convogliarono in un partito tutti gli scontenti specie negli Stati di Virginia e di New York. I protagonisti di questa operazione politica furono Jefferson e James Madison: essi decisero di fondare un giornale di opposizione al governo, la “National Gazette”. Entrambi i partiti americani accettavano come base comune la Costituzione federale, ma erano portatori di interessi contrapposti che di volta in volta si davano battaglia per la conquista del potere.
Isolazionismo durante la rivoluzione francese Ormai il rifletto­re della storia stava cambiando direzione ed era tornato in Europa dove accadevano fatti di enorme portata politica: la rivoluzione francese aveva abbattuto la struttura dell’antico regime, facendo scoppiare nel 1793 una guerra generale che coin­volse le grandi potenze. I federalisti di Hamilton si schierarono dalla parte della Gran Bretagna, mentre i repubblicani di Jefferson favorirono la politica francese che sembrava ispirarsi alle idee americane. Wa­shington, in carica fino al 1797, adottò un prudente iso­lazionismo, per ricavare sostanziosi vantaggi territoriali verso l’Ovest in previsione di un lungo periodo di inattività dell’Europa nei confronti del nuovo mondo.

9. 6 Cronologia essenziale
1758 William Pitt il Vecchio assume i pieni poteri per dirigere la guerra contro la Francia.
1759 Gli Inglesi occupano Quebec in Canada.
1763 Si conclude la guerra dei Sette anni con la pace di Parigi.
1765 I coloni convocano a New York un congresso intercoloniale per discutere la liceità delle nuove tasse. Il governo inglese è costretto ad abrogare la Tassa di bollo (Stamp Act).
1773 Nel corso del noto Tea party di Boston è distrutto il carico di te di tre navi.
1775 A maggio è convocato il secondo Congresso continentale. A dicembre il re Giorgio III e il Parlamento di Londra respingono ogni compromesso con le colonie.
1776 Il 4 luglio è pubblicata la Dichiarazione d’indipenden­za. Inizia la guerra delle Tredici colonie contro la madrepatria.
1777 A Saratoga nella valle dello Hudson l’esercito inglese del Canada è sconfitto.
1778 La Francia interviene in guerra a favore degli insorti.
1781 L’ammiraglio francese De Grasse sbarca nella baia del Chesapeake, costringendo alla resa l’esercito inglese di Yorktown.
1783 Tra i due Stati di lingua inglese entra in vigore la pace di Versailles.
1789 George Washington è eletto primo presidente degli Stati Uniti.

9. 7 Il documento storico
 Il documento che segue riporta due commenti conclusivi della vicenda americana: il primo, molto breve, è ricavato da una lettera di Giorgio III che forse comprese di esser stato il prin­cipale responsabile del distacco delle Tredici colonie dall’impe­ro britannico. La seconda testimonianza è tratta dalle memorie di un diplomatico norvegese che fece fortuna in Germania, Henrich Steffens: racconta come, da bambino, fu festeggiata in Dani­marca la vittoria degli americani.
 “Non posso chiudere la lettera senza dire quanto profonda­mente io senta il distacco dell’America da questo Impero e sarei veramente infelice se non sentissi di meritare alcun biasimo e se non sapessi inoltre che la disonestà pare essere la caratteristi­ca di quel popolo a tal punto che potrebbe considerarsi un bene che esso sia divenuto estraneo a questo Regno”.
 “Ero abbastanza edotto sul significato della guerra nordame­ricana per nutrire un enorme interesse nei confronti di un popolo che combatteva tanto fieramente per la sua libertà. Tra i grandi uomini dell’epoca emergevano Washington e Franklin, e fui grande­mente impressionato dal verso di Giovenale con il quale il secon­do fu accolto.
Eripuit caelo fulmen sceptrumque tyrannis
 L’eroe suscitava la mia meraviglia, ma ancor più degna d’in­vidia mi sembrava la carriera di Franklin il quale, di semplice famiglia borghese (era figlio di un tipografo), divenne un famoso scrittore, uno scienziato di merito e allo stesso tempo un rap­presentante del suo popolo in lotta, ammirato dagli uomini più intelligenti nei paesi allora in pace che non seguissero le vi­cende del Nord America…
 Quando pensiamo al significato di questa guerra che per pri­ma gettò in Francia la scintilla che divampò in seguito nell’im­mane fiamma della Rivoluzione, è interessante ricordare quanto questa scintilla giunse vicino alle nostre quiete case, in un lontano e pacifico paese. Ricordo ancora chiaramente il giorno in cui la conclusione della pace e la vittoria della libertà furono celebrate a Elsinore e nel porto. Era una bella giornata, il por­to era pieno di navi mercantili di tutti i paesi e anche di navi da guerra. Tutte le navi erano addobbate e gli alberi maestri avevano lunghi pennoni; le più splendide bandiere sventolavano sulle aste di bompresso e pendevano tra gli alberi. C’era giusto tanto vento da far sventolare liberamente bandiere e pennoni. Questo insolito addobbo, la gente in festa che si riversava sui ponti, i colpi a salve sparati dalle navi da guerra e da ogni na­ve mercantile che avesse un paio di cannoni, fecero di quel gior­no una festa per noi tutti. Mio padre aveva invitato a casa alcu­ni ospiti e, diversamente dal solito, noi ragazzi potemmo sedere a tavola; mio padre spiegò il significato di questa festa e anche i nostri bicchieri furono riempiti di punch e brindammo al suc­cesso della nuova repubblica; una bandiera danese e una nordame­ricana furono innalzate nel nostro giardino. Si discusse vivace­mente della vittoria nordamericana e della libertà di altri popo­li e una certa attesa dei grandi avvenimenti che sarebbero deri­vati da questa vittoria era già negli animi di quelle persone fe­stanti. Era la piacevole aurora di un sanguinoso giorno della storia”.

Fonte: S.E. MORISON – H.S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1974, Vol. I, pp. 316-318.

9. 8 In biblioteca
 Molto esauriente di S.E. MORISON-H.S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti, 2 voll., la Nuova Italia, Firenze 1974.
Più breve di A. NEVINS-H.S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti dalla fondazione delle colonie al caso Watergate, Einaudi, Torino 1978. F. JAMESON, La rivoluzione americana come movimento sociale, il Mulino, Bologna 1976.
Molto importante per comprendere le peculiarità della storia americana di R. HOFSTADTER, La tradizione politica americana, il Mulino, Bologna 1960;
per la conquista dell’Ovest importante il libro di B. DE VOTO, La corsa all’impero, il Mulino, Bologna 1963.
Interessante la prospettiva di N. MATTEUCCI, La rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, il Mulino, Bologna 1987.