I SOFISTI E SOCRATE (2)

di ANTONIO LIVI. I SOFISTI E SOCRATE (2) Dalla logica alla metafisica dell’uomo. Chi fu veramente Socrate? Dalla logica all’etica. La morale socratica si basa sulla nozione di ordine metafisico, dal quale si deduce anche l’esistenza di Dio. Il socratismo come filosofia dell’educazione. Le cosiddette “scuole socratiche. Scuola di Megara. Scuola Cinica. Scuola di Cirene

di Antonio Livi,

tratto da:

“Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”


Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005

CAPITOLO PRIMO


I SOFISTI E SOCRATE


Parte 2



Dalla logica alla metafisica dell’uomo


Può sembrare che Socrate, con il suo metodo di ricerca e di dialogo, abbia abbandonato la speculazione metafisica avviata dai “presocratici”, interessandosi soltanto ai problemi del mondo umano; egli pertanto avrebbe avuto tutto in comune con i Sofisti, salvo il superamento dello scetticismo e del relativismo etico. In effetti, Socrate dichiara assurdo lo scetticismo di Gorgia e afferma il valore universale della ragione umana; ma non c’è solo questo in Socrate: se per metafisica si intende (come deve intendersi) la ricerca e la formulazione razionale delle ultime cause, al di là dei fenomeni e delle spiegazioni particolari, allora dobbiamo dire che anche Socrate fu  un autentico metafisico, e il suo insegnamento conduce direttamente alla comprensione dell’unità, dell’immutabilità e dell’eternità della causa prima, dalla quale dipende tutto ciò che è e che accade, in noi e intorno a noi. Basterebbe, per considerare Socrate un autentico metafisico, la sua testimonianza circa la necessità di superare la religione meramente cultuale per vivere una religione della ragione che si esprime come ricerca di Dio che prende le mosse dalla presenza del divino nell’interiorità, procede scoprendo le tracce del divino nell’ordine del mondo e nella vita etica, e infine si costituisce come una vera e propria “teologia naturale”. Vedremo adesso come si può ricostruire tale “metafisica dell’uomo”, imperniata sull’idea di virtù e sull’idea di Dio.

Per Socrate il valore di ogni discorso dipende prima di tutto dal rapporto tra ciò che si dice e le effettive possibilità conoscitive del singolo soggetto conoscente, o anche dell’uomo in generale[1]. L’importanza della riflessione sulla conoscenza umana e suoi suoi limiti sta nel fatto che solo in base a questo studio si può valutare se sia vero qualunque discorso sul mondo fisico e sul mondo umano (la società). Si può dire che sia stato proprio Socrate ad avviare la  teoria metafisica dell’interiorità del vero; sant’Agostino, circa nove secoli dopo, svilupperà questo importante fondamento del pensiero. La verità, dunque,  non è fuori di noi, ma è una proprietà della nostra anima, è una conquista dell’intelletto che riguarda anzitutto la nostra stessa persona, e quindi resta fondamentalmente nell’intimo del nostro spirito: ecco perché Socrate a base della sua ricerca pone il motto di Chilone, che era scolpito nel tempio di Delfo: «Gnvqi seauton ([Gnòthi seautòn] = conosci te stesso)”». Il “sé stesso” di cui Socrate si mette alla ricerca è l’anima, cioè la natura spirituale che fonda l’essenza dell’uomo e che ha carattere universale: è sotto questo aspetto che la conoscenza di sé illumina ogni altra conoscenza (degli altri uomini, della società, della natura fisica). Quella di Socrate  è una filosofia che tematizza l’interiorità intellettuale e morale del soggetto, quello che i moderni chiamano “l’io” e che è – come abbiamo detto nell’Introduzione – una delle certezze del senso comune; questa certezza, come tutte le altre, non blocca bensì stimola la riflessione critica, la ricerca di consapevolezza riflessa, la filosofia.

Ma nessuno può conoscere sé stesso se prima non si sarà liberato del bagaglio della falsa sapienza, dalla presunzione (tipica dei Sofisti) di essere versati in ogni campo dello scibile, quando invece nessun uomo ha la piena conoscenza delle cose delle quali parla; sicché, la prima condizione richiesta per conoscere sé stessi è di riconoscersi completamente ignoranti: «So solo questo: che non so nulla». In altri termini, la prima verità è per Socrate la consapevolezza dei limiti della conoscenza umana; dalla coscienza di questa prima verità l’anima si può elevare verso la conquista di tutte le altre verità, ossia di quelle evidenze che si raggiungono quando la mente procede in modo autenticamente razionale e non soltanto empirico. Infatti, l’uomo si riconosce capace di una verità che può scoprire e possedere soltanto con lo sforzo di trascendere le sensazioni, non limitandosi a particolari aspetti legati a condizioni spazio-temporali ma cogliendo in ogni oggetto l’universale, ossia il concetto. In effetti,  il concetto come lo intese Socrate rappresenta forse la scoperta più feconda che i primi secoli della storia del pensiero abbiano registrato.

Come abbiamo già visto, Aristotele attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto il valore scientifico dell’universale, al quale si giunge mediante l’induzione; ecco qual è il giudizio del grande filosofo greco, giudizio particolarmente autorevole in quanto Aristotele è, tra l’altro, autore del massimo sistema di logica che sia mai stato concepito  (ne parleremo nel cap. IV): «Due sono le scoperte che si possono giustamente attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione universale; scoperte, queste, che costituiscono la base della scienza» (Metafisica, IV, 1078 b 25-30). Riguardo poi  all’universale, Aristotele – che riconosce a Socrate il merito di averlo per primo messo in luce – è del parere che Socrate non abbia commesso quello che sarebbe stato l’errore di Platone,  ossia di passare dal piano logico al piano metafisico, attribuendo al concetto  universale o idea delle cose una realtà a sé stante, separata dal mondo dell’esperienza umana; Socrate, invece di postulare la trascendenza delle Idee rispetto alla realtà dal mondo – come avrebbe fatto il suo discepolo Platone – ha indicato la strada per servirsi delle idee (definizioni della natura delle cose) come strumento adeguato alla comprensione del mondo stesso: «Socrate – scrive Aristotele – non separava le definizioni dalla cose particolari; e faceva benissimo a non separarle. La ragione sta nelle conseguenze che derivano da tale separazione: infatti, da una parte, senza l’universale è impossibile avere una qualsiasi conoscenza certa; d’altra parte, la separazione dell’universale dalle cose è la causa di tutte le difficoltà nelle quali cade la dottrina delle Idee» (Metafisica, IX, 1086 b).

Più che spunto per un discorso metafisico, la dottrina socratica degli universali sembra essere stata un sistema di logica al servizio di una missione morale e religiosa; Senofonte, infatti, scrive: «Egli ragionava sempre delle cose umane, considerando quale sia l’essenza della pietà e dell’empietà, dell’onestà e della disonestà, della giustizia e dell’ingiustizia, della saggezze e della pazzia, della fortezza e della viltà; e così pure cercava quale sia l’essenza dello Stato, della politica, del potere, dell’autorità e così via. E tutto questo per lui era importante perché riteneva che dal conoscere queste cose dipendesse il poter diventare uomini valorosi e onesti, invece di acquisire una mentalità da schiavi» (Detti e fatti memorabili di Socrate, I, 1). La “mentalità da schiavi” della quale parla Socrate (gli schiavi erano a quei tempi le persone ritenute di natura o condizione inferiore agli uomini liberi) è la situazione penosa degli uomini che non conoscono la propria vera natura e la propria dignità. Per Socrate l’uomo non si può considerare come un essere materiale soggetto al determinismo della natura fisica attraverso un complesso di esigenze sensibili; a torto i Sofisti avevano voluto distinguere l’uomo dagli animali bruti solo per certe particolari doti (di forza organizzativa e tecnica, di astuzia pratica, di linguaggio comunicativo, di immaginazione) con le quali si può dominare e sfruttare in qualche modo la natura fisica e anche la comunità politica. Per Socrate non è questo il motivo né il senso per il quale l’uomo può essere considerato “la misura di tutte le cose”: l’uomo è superiore alle cose inanimate e agli animali bruti perché la sua natura (l’umanità) è dotata dell’anima, che è  spirituale, quindi capace di intendere l’universale e di sopravvivere alla morte corporale. Platone attribuisce questa certezza a Socrate quando, nel Fedone, fa dire al maestro (in risposta alla domanda del discepolo Critone: «In che modo dobbiamo seppellirti?»): «Non riesco o amici, a persuadere Critone che io sono Socrate, questo qui che ora sta ragionando con voi e ordina una per una tutte le cose che dice; ed egli invece seguita a credere che Socrate sia quello che tra poco vedrà cadavere e, naturalmente mi domanda come ha da seppellirmi. E quello che io mi sono sforzato di dimostrare tante volte da tanto tempo, che dopo bevuto il veleno, io non sarò più con voi, ma me n’andrò via lontano di qui, beato tra i beati; questo è come se io dicessi così per dire, quasi per consolare voi e al tempo stesso anche me… Ora voi mi dovete far garanzia, disse, di fronte a Critone: ma una garanzia contraria a quella che egli mi fece davanti ai giudici: ai giudici egli garantì sulla fede sua che io non sarei fuggito; e voi dovete garantire a Critone sulla fede vostra che dopo morto io non sarò più qui, e me ne andrò via lontano. […] Così, vedendo il mio corpo bruciato o sepolto, non si affliggerà per me… e non dirà nel funerale che è Socrate ad essere esposto lì, né che è Socrate ad essere portato via o seppellito… È solo il mio corpo che voi seppellite; e trattandosi solo del mio corpo, seppellitelo pure come vi pare e piace e come pensate sia più conforme alle leggi comuni».



3. Chi fu veramente Socrate?


Secondo lo storico Giovanni M. Bertin, la figura di Socrate, proprio per la mancanza di testi cui fare preciso riferimento, ha offerto una grande varietà di sviluppo alle interpretazioni degli esegeti. Queste tendono a oscillare tra due estremi opposti: da un lato, si pensa a un Socrate dall’ispirazione mistico religiosa, che troverà la sua vigorosa espressione concettuale nel sistema di Platone; dall’altro lato, si concepisce un Socrate razionalista, che porta alle estreme conseguenze la dialettica Sofistica, facendone principio di uno scetticismo fermo nella posizione della ricerca. Tra i due estremi oscilla l’interpretazione moralista. Ecco quanto scrive il Bertin: «L’interpretazione religiosa è particolarmente sostenuta dal Burnet e dal Taylor. Questi autori, respingendo la fonte aristotelica e quella senofontea, considerano come attendibile solo la fonte platonica (comprendendo in essa però tutti i dialoghi di Platone nei quali Socrate occupa una posizione di primo piano, e non solo i primi come il Maier), e trovano in essa la figura di un Socrate mistico e asceta, che ammette la teoria della reminiscenza e dell’immortalità dell’anima. Tale è anche, all’incirca, il Socrate di Martinetti, il quale si basa sull’esistenza del dualismo ascetico, vigoroso nell’Apologia, nel Gorgia, nel Fedone, e, soprattutto, sul concetto socratico di un’anima dotata di ragione, e quindi, come tale, di natura divina; l’atteggiamento ironico di Socrate è valido solo verso le superstizioni della fede popolare e verso l’elemento mitologico e teurgico dell’orfismo. L’interpretazione moralistica di Socrate, in genere basata sulla fonte senofontea, attraversa anch’essa varie fasi: si passa da un Socrate predicatore e apostolo di morale a un Socrate riformatore sociale e politico. […] L’interpretazione meno unilaterale è quella che tiene fermo sia lo sfondo storico-culturale in cui si delineano e si esprimono l’opera e il pensiero di Socrate, sia la singolarità della sua personalità quale essa può valere per sé stessa, al di fuori di ogni limitazione storica. In questa direzione si incontrano, o meglio si scontrano, la prospettiva idealistica e quella esistenzialistica nello studio di Socrate: quella di Hegel e quella di Kierkegaard. Socrate rappresenta, secondo Hegel, il momento storico-ideale in cui la razionalità si pone nella forma della soggettività: non la soggettività individuale che è pura arbitrarietà, come per la Sofistica, ma la soggettività come universalità; non l’uomo posto nella immediatezza della propria singolarità, di fronte all’immediatezza assoluta del costume, ma l’uomo che si eleva alla forma razionale dell’eticità e quindi urta tragicamente (come simboleggia il destino stesso di Socrate) contro l’obbiettività morale cristallizzata nella polis. Kierkegaard accentua invece il momento della singolarità di Socrate: Socrate denuncia, nell’ironia del proprio atteggiamento, che ha un senso fondamentalmente etico, la falsità e l’inconsistenza del sapere obbiettivo e il suo fatale risolversi in una serie infinita di negazioni. Oltre tale posizione c’è, come limite, la coscienza cristiana dell’antinomicità e della paradossalità dell’esistenza, da cui il senso greco della vita trattiene ineluttabilmente Socrate. L’ironia socratica è valorizzata anche da Nietzsche, quando ci presenta un Socrate che sovverte e distrugge la vanità dei valori tradizionali; ma, al contrario che in Kierkegaard, essa è vista come mezzo per costruire un mondo della ragione, nemico deciso del mondo della tragedia e quindi della vita stessa e della sua potenza dionisiaca, poiché, secondo Nietzsche, il sapere è plebeo e nemico dell’aristocrazia, della potenza e dell’arte. Con tali interpretazioni si è, evidentemente, trapassati dal Socrate storico al Socrate ideale, dalla significazione dell’opera di Socrate in funzione di una determinata e circostanziata situazione storica alla sua significazione come momento ideale, come simbolo di un processo di cultura o come simbolo di una verità soprastorica ed esistenziale. Il loro merito principale è di far valere, di fronte alle precedenti interpretazioni razionalistiche e moralistiche, il principio della problematicità come motivo centrale dell’insegnamento socratico, considerato nel suo concreto rapporto con la personalità e l’opera di Socrate. […] La coscienza della problematicità del mondo razionale, sperimentata prevalentemente nella direzione etica, assume infatti, in Socrate, due aspetti fondamentali: l’uno negativo, per cui essa respinge qualsiasi certezza acquistata dogmaticamente, sia sul piano teorico, sia su quello pratico (donde la visione di un Socrate sofista e scettico), l’altro positivo, per cui tale problematicità è proposta come esigenza di una razionalità, in incessante processo di superamento dei propri limiti, nell’apertura al limite dell’universalità, sia sul piano teoretico che su quello pratico. La dimensione religiosa sta ad indicare la struttura problematica della personalità di fronte alle proprie limitazioni empiriche ed il conseguente superamento di ogni filisteismo e conformismo. Essa offre inoltre nell’accettazione serena della morte irrefutabile testimonianza della propria validità, ma anche assicura, nell’eudemonismo, garanzia contro qualsiasi deviazione ascetica. Vita, discorso, morte di Socrate stanno ad attestare all’uomo che l’attuazione di un mondo razionale rappresenta un compito infinito, offerto alla volontà creatrice dell’umanità tutta, e che tale attuazione trova nella coscienza della problematicità dell’esistenza la condizione della propria possibilità e nella coscienza di un suo fondamento religioso la fede nella sua intima validità»[2].



Dalla logica all’etica


Aristotele mette ben in evidenza il nesso essenziale che, nel pensiero di Socrate, lega la dottrina dell’universale logico alla dottrina sulle virtù che l’uomo sapiente deve praticare. Scrive infatti lo Stagirita: «Socrate trattava argomenti etici e non si occupava affatto della natura del mondo fisico; ma nelle questioni etiche egli cercava di individuare l’universale, e così fu il primo che prestò attenzione al problema di come definire le cose» (Metafisica, I, 987 b 1-3). Infatti, attraverso la chiarificazione dell’essenza di ogni valore morale (che cosa sia la virtù, che cosa sia la felicità, che cosa sia il bene della città) Socrate mirava a far emergere nella coscienza degli interlocutori la consapevolezza della norma etica, quella vera, quella rispondente alla natura dell’uomo, alla sua felicità eterna e al bene comune della città. Socrate spendeva tutte le sue energie nell’opera di chiarificazione concettuale perché era convinto che la consapevolezza della verità circa il bene fosse già predisposizione alla pratica della virtù: chi conosce il vero bene non può non praticarlo. Secondo la testimonianza di Senofonte, Socrate «diceva che anche la giustizia e ogni altra virtù sono sapere. Infatti, le azioni giuste e ogni altra azione realizzata con la virtù sono belle e buone, e coloro che ne sono consapevoli non potrebbero mai scegliere di fare il contrario, mentre coloro che ne ignorano il valore non potrebbero mai realizzarle: anche se ci provassero, non ci riuscirebbero, come avviene per ogni azione bella e buona, che i sapienti possono realizzare mentre gli ignoranti non lo possono, e se ci provano falliscono» (Detti e fatti memorabili di Socrate, III, 9). Questa impostazione della morale in chiave esclusivamente razionale – con l’identificazione tra conoscenza e virtù – viene chiamata “intellettualismo etico”, ed è la caratteristica di quasi tutte le teorie di tipo razionalistico che sottovalutano il ruolo della volontà libera e delle “passioni” nella scelta etica; troveremo infatti impostazioni analoghe, non solo nei sistemi filosofici dell’antichità pre-cristiana (Platone, gli Stoici) e anti-cristiana (Plotino) ma anche nella filosofia razionalistica dell’età moderna, da Descartes e  Spinoza  fino all’Illuminismo e a  Kant. Non va però attribuito a Socrate un ingenuo intellettualismo, inadeguato all’esperienza morale che rivela chiaramente come spesso le persone che ben conoscono i valori cadano poi in comportamenti immorali. In realtà Socrate non identifica né tanto meno confonde, la scienza con la virtù; Socrate vuole far riflettere sulla condotta umana, a partire dal principio innegabile che l’uomo fa delle scelte libere e responsabili allorché percepisce chiaramente il valore dell’azione che sta per compiere; diversamente agirebbe a caso e la sua azione non sarebbe razionale, ossia umana, ma meccanica e incosciente. Ma l’esperienza ci dice che l’uomo, quando è maturo e prende posizione di fronte alla vita,  non si assume delle responsabilità senza sapere quello  che fa e perché lo fa, senza valutare che cosa possa derivare a lui stesso e agli altrri dalle sue azioni. E in questo tutti i filosofi che hanno studiato l’uomo e la sua vita morale sono d’accordo: «Nihil volitum nisi praecognitum [ = Nulla è voluto se prima non è conosciuto]» e «Omne agens agit propter finem [ = Chiunque agisce, lo fa in vista di un fine]», insegnerà a proposito Tommaso d’Aquino circa sedici secoli dopo. Su questa base, Socrate sente di avere una missione, quella di illuminare la coscienza dell’uomo attraverso la  piena conoscenza delle verità universali; esse rappresentano già di per sé dei valori morali, perché comprendendole l’uomo non può non amarle,  e amandole non può non agire in conformità di esse, cioè virtuosamente: la verità del pensiero si converte nella bontà della volontà, la sapienza determina la virtù. Ecco perché, secondo Socrate,  l’ignoranza è la prima causa del male morale, del vizio e dell’immoralità.

Interpretata così, in questi termini che sono puramente di principio (ossia, senza considerare poi la debolezza della volontà umana e le contraddizioni della condotta di ciascun uomo), la morale socratica non è astratta e ingenua: è un giusto e doveroso ottimismo metafisico, che si contrappone al pessimismo scettico dei Sofisti, e che può essere integrato anche in una visione cristiana dell’uomo, che però non ignora l’esperienza universale del peccato e l’insegnamento di san Paolo sulla lotta interna tra coscienza del bene e inclinazione al male (ritroveremo una forma analoga di ottimismo antropologico in Germania, ben venti secoli dopo, nel pensiero morale del filosofo razionalista Leibniz, il quale, pur essendo cristiano, non teneva conto della dottrina biblica del peccato originale e della conseguente fragilità della natura umana, incline al peccato).


La morale socratica si basa sulla nozione di ordine metafisico, dal quale si deduce anche l’esistenza di Dio.


Pregio indubbio della morale socratica, infatti, è la coscienza chiara del fine dell’uomo, ossia delle virtù che l’uomo deve praticare in vista di poter realizzare con pienezza la propria natura spirituale; il dinamismo morale è la risposta dell’uomo all’ordine delle cose voluto da Dio, e per questo Socrate intende la virtù non solo come coscienza del  bene ma anche e soprattutto come possesso gioioso della verità, come felicità dell’ordine e dell’armonia che devono regnare tra gli altri uomini e  con Dio. Perciò Dio, quale fonte di ordine e di armonia, a cui l’uomo tende attuando il bene per mezzo della vita virtuosa, costituisce il fondamento razionale del sistema socratico, che – come saranno poi quello platonico e quello aristotelico – è un sistema morale di tipo teleologico ma  anche teologico. L’ordine finalistico (la teleologia)  del sistema socratico è ben messa in luce da Platone, il quale  – fa dire a Socrate nel Gorgia: «Piacere [¢hdonh] e bene [agaton] non sono la stessa cosa. Bisogna cercare il piacere in vista del bene, e non il bene in vista del piacere. Piacere è quella cosa per la cui presenza godiamo, bene quella cosa per la cui presenza siamo buoni. Ma siamo buoni  – noi e tutte le altre cose che si dicono buone – per la presenza di qualche virtù. Ora il pregio di ciascuna cosa (di un arnese di lavoro, di un corpo, di un’anima, di un qualunque essere) non è certo opera del caso, ma di un ordine, di una regola, di un’arte, che è diversa per ciascuna di queste cose. Dunque la virtù di ciascuna cosa consiste in alcunché di ordinato e regolato. Un certo ordine, dunque, presente in ciascuna cosa, quell’ordine che di ciascuna cosa è proprio, rende buona ciascuna delle cose esistenti. Quindi, un’anima che abbia l’ordine che le è peculiare, è migliore di quella disordinata, è appunto un’anima ordinata e sapiente. Dico dunque che se l’anima sapiente è quella buona, l’anima che non ha la sapienza è quella cattiva; e questa è l’anima stolta e sfrenata, di cui si parlava. Perciò il sapiente farà sempre tutto ciò che è doveroso, sia verso gli dèi, sia verso gli uomini; difatti, se non facesse ciò che deve, non sarebbe un sapiente. E, facendo ciò che deve, verso gli uomini farà cose giuste e cose pie, e così sarà necessariamente un uomo giusto e pio. E sarà necessariamente anche coraggioso; poiché non è proprio dell’uomo sapiente cercare e fuggire il contrario di ciò che si deve, ma fuggire e cercare proprio ciò che si deve  (uomini, piaceri e dolori), e fermamente perseverare in ciò che si deve. Cosicché è assolutamente necessario ammettere, o Callicle, che il sapiente, come abbiamo visto, essendo giusto, coraggioso e pio, sia un uomo compiutamente buono; così come bisogna ammettere che l’uomo buono vuole sempre – in ciò che fa – il buono e il bello, e che chi agisce bene deve essere beato e felice, mentre chi è malvagio e agisce male deve essere infelice. Quest’ultimo è colui che è nella condizione contraria al sapiente, cioè il vizioso di cui tu facevi l’elogio. Io, dunque, così sostengo che stanno queste cose, e affermo che questa è la verità. E se la verità è questa, chi vuole essere felice deve, a quanto pare, cercare e praticare la saggezza, e fuggire a tutta velocità la sregolatezza, e procurare soprattutto di non avere per nulla bisogno di castigo; ma, se ne avesse bisogno, o lui stesso o qualcuno dei suoi familiari, sia un privato sia una città, deve volere la pena, imporre il castigo, se vuole davvero esser felice. Questo, mi pare è il punto al quale bisogna tenere fisso lo sguardo nella vita e tendere tutte le forze proprie e quelle della città, perché abbia in sé giustizia e saggezza, chi vuole esser felice, e così operi; e non bisogna già essere visiosi, lasciando sfogare senza freno le proprie passioni, e poi, per aver dato loro sfogo (questo è un male senza termine!), vivere la vita di uno scellerato. Un uomo siffatto non sarebbe amico né a un altro uomo, né a Dio; poiché egli non può avere rapporti con alcuno; e chi non ha nessuna relazione, non può avere amicizia. E dicono i saggi, o Callicle, che cielo e terra e dèi e uomini sono tenuti insieme dai vicendevoli rapporti dall’amicizia, dall’armonia, dalla compostezza e dalla giustizia, e perciò esse, o amico, chiamano “cosmo” l’universo, e non già “disordine” o “caos”».

La morale socratica, dunque, fa  capo alla nozione di Dio come provvidenza del mondo e come autore della legge morale: anche in Socrate la certezze del senso comune si compendiando e si perfezionano nella coscienza morale e in quella religiosa. Ecco allora che acquistano particolare importanza le parole che Platone mette in bocca  a Socrate : «Dio, l’Essere trascendente; l’uomo conoscendolo lo ama e lo venera, non solo tributandogli culto, sacrifici e preghiere, ma anche e specialmente con le opere, cioè agendo moralmente e tendendo a Lui con la certezza incrollabile di fruirne il completo possesso dopo la morte del corpo. Per raggiungere questo fine è necessario, dunque, agire sempre moralmente: la vita morale infatti, è vita razionale e cosciente, non solo di ciò che si fa ma anzitutto del fine ultimo in vista del quale si agisce; e il fine ultimo per Socrate è appunto Dio.  Egli tutto vede, tutto ordina e dispone con mirabile armonia. Vede, ordina e provvede sia il mondo cosmico-sensibile che il mondo dello spirito, cioè l’anima umana, la cui ansia per il Dio è fecondata e illuminata da un demone, cioè da un misterioso influsso divino che, quasi fiaccola arcana, addita e illumina il sentiero razionale della vita terrena. «Il Dio supremo – dice Socrate nei Detti memorabili di Senofonte – dirige e sostiene l’universo, in cui è contenuto tutto il bene e tutto il bello, e tutto lo preserva in vigore e perenne giovinezza, e lo costringe a obbedirgli; più veloce del pensiero, è occupato infallibilmente in grandi cose e non lo vediamo. […] Si deve riconoscere la sublimità di Dio, tale che tutto vede in un solo sguardo, tutto intende [onniscienza], è presente dovunque [trascendenza onnipresente], avendo cura di ogni parte dell’universo nello stesso istante [provvidenza]».



Il socratismo come filosofia dell’educazione


Socrate è stato considerato il padre della pedagogia, intesa come arte dell’educazione ai valori umani; in realtà,  la sua stessa vicenda biografica – tutta incentrata sulla sua  missione sapienziale – è un chiaro indirizzo pedagogico: più che elaborare una teoria pedagogica, Socrate è un esempio vivente di un amore per la verità che diventa servizio all’educazione degli uomini nella verità.  Punto di partenza della prassi pedagogia socratica è la convinzione di non dover offrire agli educandi le verità belle e fatte, ma di doverli scuotere dalla distrazione e dalla superficialità, dalla presunzione di sapere e di non dover più riflettere, e così  aiutarli a cercare la verità che già è presente in loro stessi. Socrate infatti ritiene che l’uomo abbia da sempre dentro di sé la verità: ma i sensi e le passioni da una parte, e la vana presunzione dall’altra, gli impediscono di intuirla e di viverla; compito dell’educatore, perciò, non è tanto di insegnare una verità che sarebbe fuori (nella realtà materiale, nel maestro) quanto di aiutare a scoprire la verità che ognuno ha già dentro. Ogni uomo concepisce la verità nel suo cuore, nella sua mente: si tratta di portarla alla luce, proprio come fa un’ostetrica che aiuta la donna a partorire il figlio che essa ha concepito e porta in grembo. Quest’arte è chiamata da Socrate  (che si ricollega con questa metafora alla professione della madre) “maieusiV ([maiéusis] = opera della levatrice)” o anche “maieutikh tecnh ([maieutikè téchne] = arte della levatrice)”. Ecco come si esprimeva Socrate secondo il racconto di Platone: «Sono figlio di una levatrice molto brava e rispettabile […], e io esercito lo stesso mestiere […].  Il mio mestiere di ostetrico presenta quasi in tutto gli stessi caratteri della tecnica  delle levatrici […]. Mi serve per aiutare nel parto gli  uomini […], assecondare la generazione delle anime e non dei corpi […], vagliare infallibilmente se l’intelletto del giovane generi fantasma ed errore, oppure la verità e la vita» (Teeteto).

Il primo procedimento di questa arte consiste nel portare l’interlocutore a vergognarsi della propria superficialità e ignoranza. Da questa vergogna nasce l’ansia di rivestirsi della vera scienza, cioè di autoconoscersi per agire bene: per questo i discepoli di Socrate non considerano come crudeltà mentale ma anzi avvertono come un vero aiuto  l’abilità con la quale il maestro fa loro scoprire quanto sono ignoranti. Come dice ancora Socrate,  sempre nel dialogo platonico, «quelli che amano stare con me, se da principio appaiono perfetti ignoranti (alcuni almeno), poi […] col progredire della nostra conversazione ne traggono gran profitto […]. In realtà essi non imparano mai nulla da me: sono essi stessi, con le proprie forze, a scoprire e generare molte e belle verità […]. Ora,  nessuna di queste cose faccio per malevolenza, ma solo perché non mi è assolutamente lecito consentire all’errore e nascondere il vero» (Teeteto). Con lo stesso metodo dell’educazione all’autoconoscenza, Socrate procede alla scoperta dell’oggetto, di ciò che ci circonda; partendo dall’osservazione degli aspetti particolari e sensibili delle cose, far risalire l’educando alla visione della verità concettuale di esse; in ciò consiste l’induzione, o processo logico con cui dagli aspetti particolari si risale al concetto universale. Ma il concetto universale della verità e l’ansia di attuarla sono valori intimi e nascosti che costituiscono l’essenza umana; perciò l’opera dell’educatore, come si è detto, è quella di preparare il terreno, sgombrandolo dagli sterpi delle false opinioni.

Socrate educatore, dunque, non è il maestro che enuncia princìpi e dottrine provandone l’evidenza con argomenti che si impongono: è l’umile indagatore delle anime, che con estrema modestia rivolge domande elementari intorno a fenomeni, eventi uomini e cose, senza mai correggere le risposte errate degli interrogati, ma insistendo con domande sempre più incalzanti, che mettono gli interrogati nell’imbarazzo e li gettano nel dubbio; imbarazzo e il dubbio che, se da una parte sconcertano gli interlocutori, dall’altra suscitano in loro il bisogno di liberarsene, cercando la via di uscita proprio in sé stessi. A questo sforzo laborioso dello spirito segue la luce interiore che genera la visione della realtà, la verità delle cose, la verità dell’io  e la verità di Dio. Questa umiltà, questa modestia, di cui Socrate si serve come metodo efficace per attuare la sua pedagogia maieutica, è appunto quella che comunemente viene chiamata “ironia socratica”, dal termine greco “eironeia [eironéia] = discorso fatto apposta per provocare una certa risposta)”; l’ironia socratica consiste  nell’interrogare e nel chiedere spiegazioni in modo da mettere allo scoperto le contraddizioni, l’ingenuità e in definitiva l’ignoranza dell’interlocutore: è il momento negativo, la “pars destruens” della maieutica stessa, e grazie ad essa l’educando si libera dalle false opinioni. Al momento negativo della maieutica succede quello positivo, la “pars construens”, cioè l’epilogo maieutico in cui l’educando viene a rigenerarsi, dandosi una nuova vita, la vita razionale che prima era latente, la vita come coscienza dei valori per i quali merita di vivere e di impegnarsi. Questo aspetto dell’insegnamento socratico sarà studiato e sviluppato, tanto secoli dopo, dal pensatore danese Soren Kierkegaard, il quale è autore di un saggio intitolato appunto Sul concetto dell’ironia con particolare riguardo a Socrate (1841). 



4. Le cosiddette “scuole socratiche.


Con l’opera di Socrate si può dire che la filosofia per la prima volta assume con chiarezza come oggetto le certezze del senso comune  – mondo, uomo e Dio –, e per suo merito tale indagine resterà a fondamento della storia del pensiero. Ma l’insegnamento socratico non poteva trasmettersi integro, sia perché era stato esclusivamente orale, sicché non sempre poteva esser compreso e interpretato nel giusto senso, sia perché non tutti potevano essere all’altezza d’intuirne la profondità. Perciò vi furono di coloro che, formati alla scuola di Socrate, ne sviluppano qualche aspetto, travisando e sacrificando la visione d’insieme, tanto cara al maestro, e giungendo a posizioni opposte al pensiero socratico e contrastanti tra loro. Da qui abbiamo la formazione di alcune scuole, comunemente chiamate “scuole socratiche minori” (ma alcuni le chiamano “scuole pseudosocratiche”, in quanto nessuna di esse rispecchia la dottrina e lo spirito di Socrate); se ne contano quattro, delle quali due sono poco più che dei nomi (la Scuola di Elide, fondata da Fedone, e la Scuola di Eretria, fondata da Menedemo), mentre delle altre tre possiamo fornire qualche cenno.

 

Scuola di Megara


La Scuola di Megara (o “megarica”) fu fondata da Euclide, nato verso il 430 av. Cr. (da non confondersi con l’Euclide matematico, vissuto circa due secoli dopo). Euclide di Megara era stato discepolo di Parmenide e rimane parmenideo anche dopo aver seguito Socrate con tanta passione. Si narra che i megaresi non potevano accedere in Atene, a causa dell’odio mortale che divideva le due città; Euclide vi entrava di notte, vestito da donna, per ascoltare Socrate. Dell’insegnamento socratico egli si serve per approfondire quella che era la Metafisica di Parmenide; il sapere e il bene di Socrate sono identificati con l’essere eleatico, che per Euclide è Dio, mentre i concetti non sono altro che inutili finzioni. «O Euclide – gli diceva Socrate, quando il megarese si ostinava a difendere la posizione con argomenti zenoniani – tu potresti star bene con i Sofisti, ma giammai con uomini».

 

Scuola Cinica


Gli esponenti della Scuola Cinica, aperta nei pressi di un sobborgo ateniese denominato “Cinosargo”, sono il fondatore Antistene e il suo discepolo Diogene.

Antistene, nato verso il 436 e morto verso il 372 av. Cr., era stato prima discepolo di Gorgia e poi di Socrate, ma rimane più legato alla Sofistica che alle dottrine socratiche. Nega l’universalità dei concetti e riafferma Sofisticamente che la realtà è fatta solo di enti individuali  sensibili. L’uomo è libera affermazione di sé, autosufficienza, «autarchéia», con la quale raggiunge l’«adiaforìa», cioè la completa indifferenza, sprezzando uomini e cose. «O Antistene  – gli gridò un giorno il condiscepolo Platone osservando il suo mantello pieno di buchi, mentre Socrate cercava di frenare pazientemente i suoi eccessi estrosi di misantropismo –, vedo il tuo orgoglio attraverso i buchi del tuo mantello». Il pensiero rivoluzionario di Antistene, partendo da una critica negativa alle dottrine socratiche, si preoccupava dunque di accentuarne l’aspetto teologico; inoltre raccoglie i motivi mistici del naturalismo presocratico, il cosmopolitismo di Democrito e il soggettivismo dei Sofisti, concludendo con la demolizione di tutti i valori metafisici, antropologici e sociali. Delinea una disordinata visione di Dio come forza cosmica che dirige uomini e cose, con leggi di ordine e di uguaglianza. Quindi la famiglia, le classi sociali, la differenza di popoli e di civiltà sono innaturali, sono inutili e dannose sovrastrutture prive di senso: unico valore è l’uomo-natura, la natura-legge e la legge-Dio. L’uomo dunque è figlio e cittadino dell’intero universo, libero da ogni legame, dipendente solo da Dio e dalla sua natura autosufficiente.

Diogene nacque a Sinope nel Ponto verso il 413 e morì a Corinto nel 313 av. Cr.; fedele discepolo di Antistene, cerca di attuare i princìpi rivoluzionari del maestro, considerandosi investito dagli dèi della missione di riformare la società. Il suo insegnamento è basato sull’esempio della vita povera che conduceva, presso Corinto, in un boschetto vicino al tempio di Afrodite: lo chiamavano il «Socrate pazzo», ma la sua parola ardente costituì, per la prima volta, la speranza degli oppressi e degli umili, la condanna dei potenti e dei ricchi. Per Diogene Dio è realtà eterna e unica: è uguale a sé stesso e per questo tutti gli uomini devono essere uguali; è immateriale e per questo gli uomini devono vivere staccati dai beni della materia. La nuova società, dunque, deve consistere in un livellamento in cui ogni differenza deve esser bandita come causa di tutti i mali; si deve realizzare una vita di armonia e fratellanza, che alla sete di ricchezza e di potenza (che sono la vera miseria) sostituisca l’ansia della ricchezza dello spirito, intesa come sprezzo e disgusto per tutto ciò che è benessere economico e potenza politica. Al suo insegnamento dovettero accorrere non solo gli umili, ma anche gli aristocratici; si sa infatti di Cratete, nobile tebano che si sia privato delle sue ricchezze e, con la moglie Ipparchia, abbia trascorso il resto della vita mendicando e predicando la povertà e l’uguaglianza.

 

Scuola di Cirene


Questa scuola fu fondata da Aristippo, nato a Cirene verso il 435 av. Cr. e discepolo di Socrate; si dice che abbia scritto molte opere, tra le quali anche una specie di storia della filosofia (Vite, dottrine e sentenze di filosofi illustri), ma nulla ci è pervenuto, giacché i frammenti delle sue opere possono attribuirsi ad un altro Aristippo, suo nipote, figlio cioè di Arete la quale aveva trasmesso al figlio sia il nome che il patrimonio del di lei padre. Il pensiero di Aristippo consiste in un edonismo  etico, inteso come conclusione del suo scetticismo che richiama quello dei Sofisti; il piacere dei sensi, il godimento dell’attimo e l’ansia di afferrarlo sono i soli princìpi costitutivi della filosofia. Alla stessa scuola appartengono: Teodoro l’Ateo, il quale nega ogni divinità nonché il concetto di essa; Egesia, soprannominato “avvocato della morte”,  poiché afferma pessimisticamente l’inesistenza della felicità, per cui il sapiente deve avere indifferenza verso tutto, perfino verso sé stesso; Anniceride, che supera l’edonismo e il pessimismo dei precedenti, insegnando che unica realtà è il vincolo di amicizia che ci lega al prossimo, cioè alla famiglia, alla patria e specialmente agli amici.

Come si vede, nessuna di queste scuole seppe impersonare la visione socratica: Socrate aveva gettato un fascio di luce sulle tenebre di quella crisi culturale, morale e sociale che si andava diffondendo in tutta la Grecia e che andava penetrando sensibilmente in Atene, a causa delle lotte contro Sparta, eterna rivale, con le guerre del Peloponneso (431-404 av. Cr.); Atene riceve da Sparta il colpo finale, con cui perde per sempre il prestigio politico e il primato morale. Gli pseudo-socratici si riallacciano ai Sofisti; perciò la loro opera è piuttosto espressione di quell’atteggiamento scettico e pragmatistico che caratterizza sempre i periodi storici di crisi o di decadenza. Chi raccoglie la grandezza luminosa di Socrate e assicura ad Atene il primato storico della filosofia è Platone; e Platone, insieme ad Aristotele, costruirà con il materiale fornitogli da Socrate l’edificio concettuale all’interno del quale opereranno i pensatori di tutti i secoli futuri.


[1] Vedi, su questo aspetto, Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, II ed., Casa Ed. Leonardo da Vinci, Roma 2003.

[2]  Giovanni M. Bertin, Socrate e le scuole socratiche minori, in AA. VV., Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano 1963, vol. II, pp. 144-147). Per  trovare ulteriori spunti di riflessione circa le diverse interpretazioni di Socrate si veda il saggio di  Maria Adelaide Raschini, Interpretazioni socratiche (Ed. Marsilio, Venezia 2000), notevole per l’acutezza dell’indagine e l’aggiornamento della letteratura scientifica.