Unioni di fatto: una pesante ipoteca ideologica.

Pubblichiamo una dichiarazione dell’Arcivescovo di Pisa, Mons. Alessandro Plotti, sulla deliberazione del Comune riguardante i criteri per l’istituzione di un elenco delle unioni civili. Da L’OSSERVATORE ROMANO, Domenica 13 Luglio 1997.

Dietro una millantata tutela dei diritti una pesante ipoteca ideologica

Appena ho avuto fra le mani il testo della Deliberazione del Consiglio comunale di Pisa, n. 58 del 7 luglio 1997, relativa alla fissazione dei criteri per l’istituzione di un elenco delle unioni civili, ho cercato di leggerlo e interpretarlo con equilibrato atteggiamento e spirito sereno, al di là di tutte le enfatizzazioni e le contrapposizioni ideologiche e politiche che detta Deliberazione ha provocato.

Dopo questa attenta lettura, mi pare di poter osservare quanto segue:
La prima cosa che salta all’occhio è il fatto che ben 15 consiglieri erano assenti al momento della votazione.
Davanti ad una decisione di tale portata che tocca la convivenza tra cittadini e muta l’assetto e lo spirito dei rapporti tra le persone, la latitanza di un così cospicuo numero di consiglieri preoccupa e allarma per la manifestazione di scarso spirito di corresponsabilità e di partecipazione. La Delibera è passata con 19 voti favorevoli, 6 contrari e 1 astensione. Se fossero stati in aula tutti 40 membri del Consiglio comunale forse questa decisione avrebbe avuto altra sorte.

Nella premessa alla Delibera si dice che le «unioni civili» o «unioni di fatto» trovano un sicuro fondamento costituzionale negli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, in quanto l’unione civile non si pone in contrasto con la famiglia così come è riconosciuta e garantita dalla Costituzione all’art. 29 e «pertanto nel riconoscere e sottolineare il valore e l’importanza della famiglia non esclude all’evidenza il sorgere o l’esistenza di atti e formazioni sociali (previste e tutelate dall’art. 2 della Costituzione) le cui finalità siano ritenute meritevoli di tutela».

Alla luce di questa premessa, nella Deliberazione si qualificano come «formazioni sociali», e quindi riconosciute e garantite dall’art. 2 della Costituzione, i legami non «legali» (matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela), ma costituiti solamente da due persone coabitanti o per «vincoli affettivi» o «per motivi di reciproca assistenza morale e/o materiale».

Ritengo questa interpretazione dell’art. 2 della Costituzione assai ambigua e pericolosa, perché non mi sembra di ravvisare in queste coabitazioni «affettive» gli estremi per la costituzione e il riconoscimento di una «formazione sociale» così come la prevede la Costituzione.
Siamo di fronte alla legalizzazione di un involucro senza fondo in cui tutto è possibile, in un contesto di assoluta genericità e alla mercé di strumentalizzazioni incontrollabili, dove non è più possibile distinguere un vero «status» personale e di coppia.

Le formazioni sociali, secondo l’interpretazione di molti costituzionalisti, riguardano le associazioni, i gruppi, le aggregazioni che abbiano carattere di stabilità, di solidarietà e di difesa della libera espressione delle persone in un clima di autentica e democratica libertà.
I vincoli affettivi non possono, per la loro stessa natura, certamente esprimere elementi costitutivi di un diritto inalienabile di libertà e di democrazia.

Qui, purtroppo, si nasconde la volontà di aprire la strada della legalità, prevalentemente, a quelle unioni civili basate sul sesso, mettendo di fatto in pericolo la fondamentale e primaria «formazione sociale» che è la famiglia, società naturale fondata sul matrimonio. Nel mare delle possibili convivenze, alternative alla famiglia, si introduce un principio inaccettabile di riconoscimento civile, e quindi di eventuali provvidenze e tutele concesse dal Comune, a coppie che convivono, spesso nella precarietà e mutevolezza dei sentimenti, su vincoli basati soltanto su imprecisati e ambigui rapporti affettivi.

È gravissimo dare, attraverso l’iscrizione all’elenco delle unioni civili, riconoscimento a questo genere di convivenze, che, secondo la Delibera del Comune, potrebbe essere cancellato, anche dopo un anno, dall’elenco con procedimento d’ufficio, o dietro richiesta di uno e entrambe le persone interessate.
Mi sembra questa prassi, sinceramente, affidata agli umori o agli arbitrii di chi pretende solo diritti, calpestando forse i doveri inviolabili.
Desidero quindi, come Vescovo di questa città, manifestare tutta la mia riprovazione per questa Deliberazione del Comune di Pisa, che, oltre a sfruttare ambiguamente la responsabilità della pubblica Autorità, concede ampia e autorevole liceità civile a scelte personali discutibili e palesemente libertarie.
Ancora una volta si ha l’impressione che dietro l’apparente difesa e promozione della autodeterminazione degli individui e la millantata tutela dei diritti inalienabili dell’uomo, si voglia far trionfare una pesante ipoteca ideologica.