Santa Agostina Livia Pietrantoni (1864-1894)

Vergine della Congregazione delle Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret


 


Una fede forte ed una carità ardente vissute nel generoso servizio ai sofferenti


di PIETRO GARLATO


Vescovo di Tivoli


 Con il cuore colmo di gioia e di gratitudine al Signore, sorgente unica di ogni santità, Padre amoroso che fa risplendere nei suoi figli prediletti un raggio della sua carità che ama e che dona, perché l’umano pellegrinare conosca sorrisi di Cielo, accogliamo con esultanza da Giovanni Paolo II la decisione di iscrivere nell’albo dei santi – il 18 aprile, III domenica dopo Pasqua – la Beata Agostina Pietrantoni (Livia) che questa diocesi tiburtina si onora di avere per figlia.


Suor Agostina, nata a Pozzaglia Sabina, da umile famiglia di contadini, era entrata ancora molto giovane nella Congregazione delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida, spinta dal desiderio di servire Cristo nei fratelli sofferenti e ammalati. È quanto fece con abnegazione ed entusiasmo evangelico nell’ospedale romano di Santo Spirito.

È nella corsia di quell’ospedale che il 13 novembre 1894 il folle gesto di un violento ne stroncò nel sangue la vita generosa che così consumò la sua perfetta oblazione sull’altare della carità.


Con la Chiesa tutta esultiamo unendoci al coro dei santi e degli Angeli che rendono gloria a Dio che ha fatto risplendere in lei la luce della sua grazia. Il 18 aprile 1999, giorno della canonizzazione della Beata Agostina, è per noi un evento di grande gioia e di festa, che


vogliamo preparare nel cuore e nella vita con la preghiera alla nuova santa, perché ci ottenga la forza della sua fede, l’ardore della sua carità, la freschezza della sua speranza per saperla imitare nella virtù.


La Beata Agostina nella sua breve vita, poco più di trent’anni, ha trascorso la maggior parte della sua esistenza nella diocesi di Tivoli, consumando a Roma solo gli ultimi otto anni del suo generoso servizio agli ammalati. È un dato significativo e importante che deve farci riflettere. Dice a ciascuno di noi che la santità cresce, si sviluppa e si consolida nell’adempimento quotidiano del proprio dovere, fedeli ai principi cristiani, come figli di famiglia, figli della Chiesa, a servizio dei fratelli nella società.


 


«La carità evangelica è caratterizzata dalla concretezza», sottolinea l’ultimo documento pastorale della CEI per gli anni ’90. «L’amore, se è tale, si fa gesto e storia – come nella vita di Gesù e sulla croce -, raggiungendo l’uomo sia nella singolarità della sua persona, che nell’interezza delle sue relazioni con gli altri uomini e con il mondo…» (ETC 23).


È quanto abbiamo avuto il piacere di ascoltare anche in questi giorni di preparazione al grande evento, nella tavola rotonda del 20 marzo scorso, dai chiari relatori invitati per l’occasione. Il suo primo biografo scriveva nel 1895: Livia, la futura suor Agostina, «tutta data alle cose di Dio, apprendeva e recitava con molta devozione le preghiere… sentiva una speciale attrattiva per la Chiesa e le sacre funzioni… Cresciuta negli anni e applicata al maneggio delle faccende domestiche e ad altri lavori, fece… risplendere le non ordinarie virtù… e specialmente quella bontà e tenerezza di cuore, che doveva farne col tempo un’eroina della carità».


Già dalla fanciullezza mostrava un forte desiderio di Dio. Trascorse una fanciullezza e giovinezza apparentemente ordinarie, ma che già mettevano in luce il rispetto che Livia Pietrantoni aveva verso tutti. Questo grande desiderio troverà il suo coronamento nella consacrazione al «Dio solo», di santa Giovanna Antida, fondatrice della Congregazione delle Suore di Carità, che vanta la sua benefica presenza, fin dalle origini, nella nostra città di Tivoli con l’Istituto di San Getulio.


Alle soglie del Terzo Millennio, in prossimità del Grande Giubileo del 2000, dobbiamo sentirci maggiormente spinti a intensificare il nostro impegno cristiano per essere degni figli di una diocesi che ha dato alla Chiesa e all’umanità intera una grande schiera di martiri e di santi, una delle glorie più pure e più fulgide tra le tante altre che pur nobilitano questa terra tiburtina.


I santi non sono mai mancati in questa diocesi e non mancheranno certo nel futuro». Essi sono vivi tuttora perché inseriti e partecipi del mistero di Cristo risorto, il Vivente nei secoli. Essi, come Gesù, non sono stati inghiottiti dalla storia, ma ogni cristiano può con amore invocarli e sentirsi con loro in rapporto di contemporaneità.


I santi, immagine viva della presenza di Dio, testimoniano il suo amore fedele per l’uomo, un amore che non viene mai meno. Questa tenerezza dell’amore di Dio per ogni creatura, la certezza che forse manca di più alla nostra epoca, desideriamo risvegliare e animare in un mondo che vive il dramma più lacerante della solitudine. Prima che appello ad amare, vogliamo essere annunzio del grande amore di Dio che non se ne sta in un’aureola dorata, ma come Padre premuroso scende nella polvere, si china a lenire le ferite e asciugare le lacrime, facendosi compagno di strada di un’umanità che vaga solitaria.


L’impegno singolo e comunitario, in preparazione al grande dono della canonizzazione della Beata Agostina, illumini il cammino della nostra comunità diocesana, chiamata a seguire la via della santità.


Affidiamo alla futura santa, figlia della nostra terra, il compito di accompagnarci sulla strada di questo impegno, per ripetere a chi incontriamo nel nostro cammino le parole dell’amore e testimoniare nel vissuto quotidiano la concretezza della carità che si fa gesto e storia.


 


Paolo VI: «Duplice corona di vergine e martire»


 di RAFFAELLA PERUGINI


Il 13 agosto 1887 quaranta giovani novizie delle Suore della Carità, con rito solenne, ricevono l’abito religioso dal Cardinale Lucido Maria Parocchi, Vicario di Leone XIII. Preghiera, riflessione, dolce incanto interiore creavano l’atmosfera degli eventi importanti. La Maestra delle novizie, dopo il rito, riunisce le quaranta neo suore per l’addio al Noviziato: «Siete quaranta – dice loro – come i quaranta martiri di Sebaste. Siate fedeli come lo furono quei bravi soldati di Cristo. C’è qualcuna tra voi che è pronta ad imitarli nel martirio?». Un attimo di silenzio poi ecco una voce esile ma sicura: «Io!».


Era suor Agostina Pietrantoni, la più umile e semplice del gruppo. Emozione del momento? No, è un lampo di luce che illumina e fissa un programma di vita; è anche un’eco viva e audace dell’intuizione di qualche anno prima quando, ancora adolescente, in un incontro di preghiera aveva confidato alle sue amiche della nativa Pozzaglia: «Vorrei morire martire per testimoniare il mio amore al Signore Gesù».


Non a caso, perciò, dallo stesso Cardinale Parocchi, nel novembre 1894, dinanzi alla salma della giovane suora uccisa nel suo servizio di carità si udranno parole come queste: «La vita di suor Agostina è stata una continua vigilia di preparazione tale che ci dà ragione del perché ella fu degnata del martirio».


Le consorelle che la ebbero in familiarità poterono affermare che quella «vigilia» era fatta di obbedienza, semplicità, umiltà, candore, intimità con Dio e accettazione gioiosa di ogni tipo di sacrificio. Il campo ravvicinato del «gran finale» fu l’ospedale «Santo Spirito» di Roma. In questo luogo nato dal grande cuore di Papa Innocenzo III, da qualche decennio serpeggiava l’odio contro la Chiesa, le persone e le cose sacre. Vi si respirava un’aria ostile, una violenza latente, la negazione di Dio e la proibizione assoluta di nominarlo presso i malati.


Questo fu l‘habitat quotidiano di suor Agostina per otto anni, questo le faceva affrettare il passo nel suo servizio al povero e al malato, in cui ella vedeva il volto stesso di Cristo sofferente; questo è l’impegno di ogni giorno: vivere in una corsia di tubercolotici, senza cautele per se stessa, senza le terapie che furono scoperte un decennio più tardi.


Che importa a suor Agostina quando si scopre minata dal contagio della stessa malattia? Non penserà ad un po’ di riposo finché le ginocchia non le si piegheranno senza la forza di rialzarsi.


Quando la Superiora della comunità vuole sostituirla con un’altra infermiera, ella che ha sempre e in tutto obbedito, si rifiuta. La sua voce di rifiuto, certamente, non è quella di una donna comune, ma è la stessa voce della Carità: «Madre mia, se lei manderà un’altra consorella tra quei malati, sarà contagiata anch’essa, tanto vale che ci rimanga io che sono già malata».


La Carità risponde alla Carità: «Bene, figliola mia, ritorni al suo servizio». Tutto riprende come prima, con pazienza, sorriso, garbo con gli sgarbati, accortezza cristiana con i moribondi, sfide coraggiose, pur nel rispetto, agli atteggiamenti atei.


Ma il pericolo era nell’aria e si addensava nella persona di un ammalato, minaccioso, insinuante negli atti, nelle parole e sempre pieno di odio con tutti, in particolare per chi vedeva all’altra sponda della sua personalità: la suora. «Suor Agostina, lasci la corsia – le dicevano le consorelle e altre benevole persone – chi glielo fa fare a prodigarsi senza tregua, senza precauzioni, né distinzioni di tipi?». «E la carità, dove la mettiamo?» – rispondeva sorridendo.


Perfino il Direttore dell’ospedale, professore Achille Ballori, esponente massonico del positivismo, le raccomandava: «Attenta, suor Agostina, si guardi dal Giuseppe Romanelli: potrebbe farle del male».


«Ma Signor Direttore – rispondeva – non posso vivere nella paura perché la paura fa perdere tempo ed io… ne ho tanto poco». Così ella si giustificava con chi non le era lecito parlare di carità. Invece la protagonista di tutto il suo stile di vita era proprio la Carità nel senso giovanneo: «Deus caritas est».


Come poteva avere paura e limitare la dedizione ai sofferenti, lei che si era consacrata al Dio-Carità? Aveva fatto la Professione religiosa da pochi mesi e dinanzi all’altare del Dio-Amore aveva proclamato: «Io, alla presenza di Dio e di tutta la Chiesa… faccio voto di castità, povertà, obbedienza e di impegnarmi nel servizio spirituale e temporale dei poveri, per sempre».


«Come posso dimenticare questo voto? – diceva suor Agostina – sono consacrata alla Carità e, poiché la Carità è Dio stesso sono pronta a morire per testimoniare la mia fedeltà». E la morte venne il 13 novembre 1894. Il mattino di quel giorno, dopo la Santa Messa, la giovane Religiosa, nel suo bell’abito bianco di suora infermiera è diretta verso la corsia dei suoi malati. Indugia un attimo in cucina: prende un cordiale per un povero che ne aveva bisogno e col bicchiere in mano entra nel corridoio che la divide dal luogo del suo servizio. All’improvviso le si staglia dinanzi la figura minacciosa del Romanelli con un coltello in mano, pronto a colpire. La suora si ferma; potrebbe tornare indietro, chiedere aiuto e salvarsi ma sembra che una forza invincibile la spinga ad avanzare.


Una donna consacrata alla Carità non deve fuggire, non può fermarsi, deve riprendere il suo cammino perché i malati l’aspettano. Ma la furia omicida la colpisce sette volte finché non la vede immersa nel sangue.


Al richiamo terrorizzato di un uomo che da poco lontano ha assistito alla scena, accorre tanta gente: si sentono grida contro l’assassino, si invoca il nome di suor Agostina.


La Superiora le si inginocchia vicino, sente che la moribonda invoca Maria e le chiede con ansia: «Suor Agostina, perdona il suo uccisore?». Un sorriso luminoso fu la risposta e la sua ultima testimonianza alla carità evangelica. Quel sorriso non significava soltanto «perdono» ma era anche il suo «grazie» al Signore perché l’aveva resa degna di dare la vita per gli altri.


La città di Roma ebbe come un improvviso risveglio dalla sonnolenza religiosa iniettata dai nemici di Dio. Capì immediatamente il significato dell’accaduto e intorno alla salma della Religiosa e durante il passaggio del lunghissimo corteo per le vie della città non esitò ad invocarla a voce alta «Martire della Carità».


Per la Chiesa di Roma fu un evento di grazia. Il popolo, senza paura, dimostrò di saper pregare ancora e di ricordare il Vangelo. Il martirio per la propria fede ha un linguaggio e un messaggio molto eloquente anche per chi non conosce le profondità teologiche.


Durante il corteo funebre, ad una bambina di dodici anni che chiedeva il significato della parola «martire» la mamma rispose: «Il martire è colui che scrive le cose di Dio con il suo sangue» (testimonianza della signora A. Mattogno).


Dopo una settimana dalla morte di suor Agostina, Leone XIII invitò alla Santa Messa privata la Superiora del «Santo Spirito», suor Irene Buzio e la sua Assistente, suor Leontina Vandel.


«Egli – racconta suor Irene – ci diede l’Eucaristia poi ci ammise all’udienza. Riguardo alla nostra suor Agostina ci disse che non dovevamo rimpiangerla ma piuttosto ringraziare il Signore di averci dato una Sorella martire il che è di sommo onore e di grande vantaggio per la nostra Congregazione».


Ma la conferma più splendida, esplicita e dolcissima ci viene dall’omelia durante il Rito della Beatificazione, il 12 novembre 1972, dalla voce viva e commossa del grande Pontefice Paolo VI.


Egli, dopo avere chiamata l’umile Agostina «vittima inerme del proprio quotidiano servizio», aggiungeva: «Conoscete la barbara storia che intreccia sul suo capo la duplice corona di vergine e martire. Ritornano alla mente le celebri parole di s. Ambrogio in onore di s. Agnese: “Oggi è il giorno natalizio di una vergine: seguiamone la purezza. Oggi è il giorno natalizio di una martire: offriamo il nostro canto al Signore”».


Per le Suore della Carità il sacrificio di Agostina Livia Pietrantoni è un modo audace di vivere l’insegnamento della loro Fondatrice, santa Giovanna Antida Thouret: «Sono figlia della Chiesa, siatelo anche voi con me».


 


Morì perdonando l’uccisore


M. CHIARA ROGATTI


La breve storia di suor Agostina Livia Pietrantoni, si colloca in ambienti molto diversi: ventidue anni a Pozzaglia, tra i monti della Sabina (1864-1886), nella serenità di una famiglia che dalla fede trae le ragioni per affrontare le non poche difficoltà, e nella fatica di un duro lavoro che tempra la sua volontà e la sua capacità di farsi dono nel quotidiano non sempre facile. Poi otto anni a Roma (1886-1894) di cui sette all’Ospedale «Santo Spirito».


Quando il 4 agosto 1887, dopo diciassette mesi di preparazione trascorsi nella Casa Madre delle Suore della Carità, ai piedi dell’Aventino, suor Agostina entra al Santo Spirito, non conosce la ricca storia dell’ospedale voluto dal papa Innocenzo III nel 1200. Non sa che la ricostruzione, avvenuta tra il 1471 e il 1476 per volontà di un altro Papa, Sisto IV, esprime nella bellezza e nell’armonia, lo stesso principio che ha guidato la costruzione della cappella che da lui prese il nome di «Sistina»: «onorare Cristo nella persona del suo vicario, onorare Cristo nella persona dei malati nei quali Egli stesso si è identificato – ero malato e mi avete visitato…». Forse sa appena che tanti santi, nel corso di otto secoli, ne hanno fatto il luogo dell’esercizio della loro carità. Lei viene per questo, ma non immagina che vi troverà l’occasione di consumare, giorno dopo giorno, il suo martirio in un servizio fedele, coraggioso e sereno; non immagina la fatica che un ambiente carico di tensioni e di ostilità le richiederà.


Se molti hanno donato al Santo Spirito tesori di arte e di scienza, di bontà e di dedizione, suor Agostina, dopo aver servito, gli donerà la vita. Il travaglio sociale e politico creato dalla «questione romana» ebbe anche qui la sua ripercussione dolorosa: l’opposizione settaria, motivata e mascherata da interessi politici, aveva preso di mira principi ed istituzioni religiose. Al Santo Spirito la parola d’ordine era «laicizzare». Nel 1889, due anni dopo l’entrata di suor Agostina, vennero allontanati i religiosi Concezionisti che vi svolgevano il servizio infermieristico. Ci fu l’ordine di eliminare il Crocefisso e tutte le immagini religiose. Sotto la cupola del Palladio, posta al centro della corsia Sistina, venne murata una lapide con la scritta: «libertà di coscienza».


Solo per timore dell’impopolarità si soprassedette all’imposizione di allontanare le religiose, ma si proibì loro di far pregare gli ammalati e di parlare loro di Dio. Si cercavano tutti i modi per costringere le suore ad andarsene spontaneamente.


Suor Agostina destinata dapprima al reparto dei bambini, passò in seguito alla sezione delle malattie infettive, poi in quello dei tubercolosi. Si trattava di sei sale con duecento posti letto destinati unicamente agli uomini. Il reparto era notoriamente turbolento. Il tipo di malattia, la segregazione, l’isolamento, accentuavano fino all’esasperazione l’irrequietezza, il malumore, la scontrosità di questi malati. La volgarità del linguaggio e degli atteggiamenti erano la nota caratteristica del reparto.


Testimoni dell’epoca affermano che «il contegno di questi uomini viziosi e volgari rendeva penosa fino alla nausea, la missione della Suora della Carità accanto a loro…» ma suor Agostina scrive: «Sono qui per grazia speciale di Dio… Questi uomini non sono cattivi, sono soltanto ammalati.. Quanto mi conforta il pensiero che in essi servo Gesù Cristo».


«Mi sento infiammata di carità per tutti, pronta a sostenere qualunque sacrificio, anche a spargere il sangue per la carità…». Qualche sorella, traumatizzata dalla dura esperienza, teme che possano anche arrivare ad uccidere.. E suor Agostina afferma: «Non c’è sorte migliore che versare il proprio sangue nell’esercizio della carità. Dobbiamo aspettarci di tutto. Del resto Gesù Cristo fu trattato così». «Resto tranquilla al mio posto, benché sia certa che quando essi troveranno il momento opportuno, mi uccideranno… Invidio la sorte dei martiri: sarei contenta di morire come loro…».


Si tratta di amare perché Cristo ci ha amati, si tratta di amare come Lui ci ha amati… per questo: «Non dobbiamo trascurare il nostro dovere di carità per sfuggire il pericolo, dovesse pure costarci la vita… io non temo nulla: il Signore ci pensa per me…».


Quando la minaccia da parte di colui che l’avrebbe uccisa si fa palese, Agostina continua a servire «più che come infermiera, con la tenerezza di una madre» (dai processi di beatificazione). Essa stessa malata di tubercolosi contratta nel servizio, spontaneamente rimane nel reparto per evitare che un’altra sorella si ammali, sperando, con questo tipo di malattia, di «poter servire fino alla fine…».


«Beate noi se potremo versare il nostro sangue per Cristo Signore!». Qui si trova il segreto della sua pace inalterabile che non manifestava reazioni di risentimento, di sfiducia, di tristezza: soffriva e taceva, era offesa e perdonava. Quotidianamente, per sette anni. Poi un giorno, incominciato come tanti altri, il 13 novembre 1894, getta tutti nello sgomento: Agostina è colpita a morte da sette pugnalate: muore perdonando. L’uccisore è uno dei suoi malati. Tutta Roma ne è sconvolta. La voce del popolo, i giornali di ogni tendenza, la definiscono «martire della carità».


 


Le tappe del processo che hanno portato alla canonizzazione


 


Il 12 novembre 1972 Paolo VI, procedette al rito della beatificazione della serva di Dio Agostina Pietrantoni.


Dopo aver tanto goduto di questa solenne proclamazione le Suore della Carità, parte attrice della presente Causa, desiderose di far conoscere al mondo intero il meraviglioso messaggio d’amore dato dalla Beata Agostina, decisero di avanzare verso l’esaltante traguardo della canonizzazione. Il miracolo riguardava la guarigione del giovane Patrick Ciaparra da neoplasia maligna del tronco cerebrale con emiplegia destra, emiparesi sinistra, paralisi dei nervi cranici, coma profondo e di lunga durata, neurofibromatosi di Recklingausen di 1° tipo.


Da questo impressionante quadro morboso Patrick guarì il 18 aprile 1986, godendo poi sempre di buona salute. Rapido e molto fausto si è rivelato l’iter canonico seguito a Roma: all’unanimità la consulta medica riconobbe l’inspiegabilità scientifica del caso il 17 aprile 1997, stesso esito ebbero il congresso peculiare il 7 successivo ottobre e la sessione ordinaria dei Cardinali il 20 gennaio 1998. Dopo che il decreto su questo miracolo è stato letto il 6 aprile dello stesso anno, Giovanni Paolo II, nel concistoro del 9 gennaio ’99, annunciò che avrebbe elevato agli onori degli altari, decorandola del titolo di santa, l’umile suora della Carità Agostina Pietrantoni.


ANDREA AMBROSI


 


La Congregazione fondata dalla santa francese Giovanna Antida Thouret


Giovanna Antida Thouret (nata il 27 novembre 1765 a Sancey-le-Long, in Francia, e morta a Napoli il 24 agosto 1826) fonda le Suore della Carità aprendo una Piccola scuola per le fanciulle povere di Besançon l’11 aprile 1799, oggi presente in 24 Paesi del mondo.


Fino al 1810 la nuova Congregazione conosce un rapido sviluppo in Francia, in Savoia, in Svizzera. Anche in Italia, pur nelle difficoltà, l’opera mette radici e si espande. Nel 1844, Gregorio XVI domanda le Suore della Carità per l’ospedale Santo Spirito in Roma. Nel 1868, le religiose raggiungono Malta.


Con l’inizio del Novecento le suore arrivano in Inghilterra, in Libano, in Egitto e in Siria.


Nel 1932 viene aperta a Milwaukee la prima casa negli Stati Uniti d’America. Due anni più tardi la Congregazione invia quattro suore nel Laos. Nel 1940 si apre la prima comunità in Algeria, nel 1960 nella Repubblica Centro Africana e nel 1962 nel Tchad. L’impulso dato dal Concilio Vaticano II spinge le Suore della Carità a raggiungere nel 1965 la Libia, nel 1967 il Paraguay, nel 1968 l’Argentina, nel 1980 l’Indonesia, nell’82 il Pakistan, nell’84 il Sudan, nel ’90 il Camerun. Il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo aprono la Congregazione verso due Paesi dell’Est: la Romania nel ’91 e l’Albania nel ’92. Le ultime fondazioni avvengono in Bolivia nel ’95 e in Brasile nel ’96. Nel Bicentenario di fondazione è imminente l’apertura di una comunità in una delle regioni più povere dell’India.