Sant’ALBERICO CRESCITELLI (1863-1900)

Padre Alberico Crescitelli fu martirizzato in Cina nel 1900, durante la rivolta dei Boxers. Nato ad Altavilla Irpina (Avellino) nel 1863, a 17 anni era entrato nell'allora Pontificio seminario dei Santi Pietro e Paolo per le missioni estere. Raggiunta con un viaggio avventuroso la Cina, si dedicò ai cristiani del fiume Han e di altre località, suscitando molte conversioni. Durante la tempesta contro i missionari venne ingiustamente accusato di essere un artefice delle privazioni alimentari che la popolazione subiva. Il malcontento si sfogò contro di lui e venne torturato, ucciso, fatto a pezzi e gettato nel fiume. È santo dal 2000.

Questo missionario, martire in Cina, nacque ad Altavilla Irpina (Avellino) il 30-6-1863, quarto tra gli undici figli che il farmacista Beniamino ebbe da Degna Bruno, modello di sposa e di madre. Alberico crebbe per temperamento incline alla pietà. Essendo dotato di sufficiente ingegno e di molta buona volontà, dopo le elementari fu iniziato agli studi secondari classici. Fin d'allora, attratto dalla grazia, sentì il desiderio di rinunciare al mondo per darsi a Dio nella vita missionaria.
A quindici anni il beato fu indirizzato da un predicatore pallottino, Don Domenico Porrazzo, al seminario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, iniziato a Roma nel 1871, con il permesso di Pio IX, da Don Pietro Avanzini, fondatore degli Acta Sanctae Sedis, e incorporato nel 1926 da Pio XI all'attuale Pontificio Istituto delle Missioni Estere di Milano. Il Crescitelli, come si rileva dalle lettere che scrisse alla famiglia, propose subito di corrispondere con impegno alla sua vocazione. Di lui scrisse Mons. Pio Giuseppe Passerini, prima suo compagno di studi e poi suo superiore come Vicario Apostolico: "Ho sempre scorto e ammirato in lui un bel modello di regolare osservanza in tutto, spinta talora quasi fino allo scrupolo".
Durate i sette anni da lui trascorsi in seminario, studiò filosofia all'Archiginnasio Gregoriano, e teologia alla Pontificia Università Lateranense, nell'antica sede di Sant'Apollinare, e alla Gregoriana, conseguendo con onore i gradi accademici. Nel corso degli studi ebbe il dolore di perdere il padre e una sorella a causa di un tortissimo terremoto che, nel 1883, distrusse quasi totalmente Casamicciola. Il beato fu ordinato sacerdote nella basilica lateranense il 4-6-1887. Nella festa della SS. Trinità scrisse alla mamma: "Stamane ho cantato la mia prima Messa. Dio mi dia la forza di celebrarla sempre con fervore in tutta la mia vita".
Prima di partire per la Cina, si recò in famiglia per dare l'ultimo saluto ai parenti. Essendo scoppiata in paese un'epidemia di colera, che fece molte vittime, Don Alberico, con il permesso dei superiori, protrasse la sua permanenza ad Altavilla per assistere i colpiti dal morbo. Furono tanti gli esempi di abnegazione e di carità da lui dati, che meritò di essere decorato con una medaglia di bronzo.
Il Crescitelli partì da Marsiglia l’8-4-1888 per il Vicariato Apostolico dello Shensi, nella Cina meridionale, al quale era stato assegnato. Durante il viaggio, che si protrasse per trentasei giorni, scrisse molte lettere ai familiari e ai superiori, dalle quali affiora costantemente lo spirito suo missionario. Da Porto Said scrisse alla madre: "Prego il Signore che mi dia tutte le virtù che mi sono necessario per essere buon missionario".
Appena giunto in Cina, cercò di adattarsi al modo di vestire e di vivere del popolo. Per raggiungere da Hankow la missione dello Shensi dovette affrontare un viaggio di circa 2.000 chilometri sul fiume Han, sopra una barca che male lo difendeva dalle intemperie. Quando occorreva andar contro corrente o affrontare le rapide, i mozzi scendevano a terra e con funi di bambù trainavano la barca costeggiando il fiume a passo lento e cadenzato. Nei tratti più pericolosi i viaggiatori preferivano scendere a terra e camminare a piedi dietro i tiratori protesi in un sforzo immane sotto il sole o la pioggia.
Quel viaggio durò ottantun giorni perché i barcaioli, scrive il missionario, "con le 75.000 sapeche ricevute anticipatamente a Hankow comprarono mercanzia, e a nostra insaputa ne caricarono la barca e con bugie e vani pretesti si fermavano a lungo nelle città a far mercatura". Quando poté lasciare quella prigione galleggiante e abbracciare i confratelli, il beato confidò alla madre: "II Signore ci ha assistiti e non abbiamo avuto disgrazie: la barca ha resistito all'urto di tanti scogli… Credo che senza l'aiuto del Signore non avremmo potuto giungere qui sani; ma Egli ci ha usato misericordia e ci ha salvati, perché ci siamo affidati a Lui".
Il Vicariato dello Shensi meridionale abbracciava un'estensione di 89.000 Km. con una popolazione di 5.000.000 di abitanti. I primi cattolici del paese furono due laici, Chang e Wang, i quali, trovandosi a Pechino per ragioni di lavoro, avevano ricevuto il battesimo per le mani del P. Matteo Ricci SJ. (+1610). I due ardenti neofiti, tornati in patria, si erano fatti banditori del Vangelo e avevano ottenuto così numerosi consensi che i Gesuiti ritennero opportuno inviarvi alcuni missionari (1625). Tra di loro si distinse per zelo e santità di vita il servo di Dio P. Stefano Lefèvre (+1659), che fu in benedizione persino presso i pagani. Ad essi nel 1704 subentrarono i Francescani. Quando lo Shensi fu diviso in due vicariati, quello meridionale venne affidato al Pontificio Seminario Romano dei SS. Apostoli Pietro e Paolo.
All'arrivo del Crescitelli, il primo Vicario Apostolico, Mons. Gregorio Antoniucci, non aveva ancora preso possesso della sua sede. I fedeli ammontavano a otto mila ed erano distribuiti in cinquantadue cristianità. Il beato imparò il cinese e si addestrò all'apostolato prima nella prefettura di Hanchungfu e poi a Funkiain. Il vicario generale, P. Pierbattista Galea, lasciò scritto di lui che aveva dato a vedere fin dall'inizio della vita missionaria di essere fornito di tutte le virtù proprie dell'apostolo. Incaricato di prendersi cura del distretto di Sikiayng, già dissodato dal P. Lefevre, il beato si adoperò perché i cristiani che vivevano sparsi in sette villaggi ritornassero all'osservanza dei precetti della Chiesa e alla preghiera.
Il missionario non limitò le fatiche al migliaio di cristiani affidati alle sue cure. Un suo confratello attestò difatti: "Fu uno dei primi che si diede a fare dei catecumeni e dei cristiani; in questo compito era zelantissimo".
Il popolo non era ancora disposto a farsi cristiano. Le conversioni erano difficilissime a causa dell'indifferenza generale. Tanti all'invito del beato di farsi cattolici rispondevano: "La vostra religione è buona; quello che mi avete detto è vero; ma siccome tutte le religioni insegnano a fare il bene, preferiamo restare nella nostra". Confessò egli stesso: "Nell'interno del mio cuore, io, benché indegnamente, pregavo il Padre delle misericordie di fare sì che questo popolo vedesse la gran luce che Egli mandò al mondo… eppure pensando al modo di convertire questi idolatri, non sapevo che cosa fare. Vedendo di non potere fare quasi nulla, mi si stringeva il cuore. Tuttavia cominciai ad inculcare di continuo ai cristiani di esortare i loro amici, i loro vicini e altri di cui si poteva sperare la conversione". Egli era tanto convinto della bontà di questo metodo che in data 5-5-1890 scrisse a Mons. Antonucci: "E certo che i cristiani sono quelli che devono aiutarci a fare i catecumeni. Senza di loro poco o nulla si può fare".
Il Crescitelli dai superiori e dai confratelli era considerato "un vero modello del fervente missionario", anche se le sue virtù non erano accompagnate dal corteggio di carismi particolari. Notevole era il suo spirito di sacrificio e di distacco dal mondo. Quando a Torino, nel 1893, morì suo fratello Bruno, ufficiale del genio, la mamma avrebbe desiderato un temporaneo suo rimpatrio, ma egli, benché sentisse il distacco dai familiari, se ne schermì adducendo per motivo i doveri del ministero. Ogni anno difatti aumentavano le cristianità da assistere. Doveva perciò abitualmente trasferirsi da un centro all'altro a dorso di mulo o di cavallo, in barca oppure in lettiga a trazione animale o umana essendo ancora sconosciuti i treni e le automobili.
Il Crescitelli, pur essendo inabile al cavalcare per un difetto congenito e per una spiccata tendenza alla pinguedine, affrontava anche questo sacrificio per non lasciare senza assistenza le anime affidate alle sue cure. I disagi dei viaggi erano allora accresciuti dalla povertà degli alloggi. La missione, per mancanza di mezzi, non possedeva in proprio neppure una modesta residenza nelle varie cristianità. Il missionario molte volte doveva chiedere ospitalità a famiglie pagane perché i cristiani che vivevano in montagna erano poverissimi. Una volta gliela offerse il sindaco del luogo in "un retro bottega divenuto inservibile, oscuro e molto affumicato, diviso dal resto della bottega da semplici graticci incartati, con la compagnia di una miriade di bestioline". Un'altra dimora, così venne descritta dal beato a un amico: "Una camera di paglia, divisa in mezzo, serviva per me e per il catechista; in un'altra, più affumicata, bisognava dire la Messa; nella terza abitava l'intera famiglia del padrone e serviva da cucina. I cristiani, che venivano da lontano, la notte dormivano nella camera che serviva da cappella… Aggiungi galline, buoi, una scrofa con dodici porcellini e pensa se era un bei rito". Il beato possedeva in grado eminente il senso di adattamento. Dalle sue lettere traspira sempre un'aria di serena tranquillità anche in mezzo alle fatiche apostoliche. Nel settembre del 1896 scrisse: "In qualunque paese si viva, la Provvidenza proporziona i nostri patimenti alle nostre forze per sopportarli. Si sta sempre bene quando si sta dove Dio ci vuole". Una delle prove più sensibili alle quali va soggetto il missionario è quella della sterilità e apparente inutilità delle proprie fatiche. Il Crescitelli reagiva pregando e pensando: "Ciò che si fa per la salute delle anime non è mai troppo". Ad Hanyangpin eresse una chiesa e per riunire i cristiani troppo dispersi pensava di istituire delle colonie agricole.
Per tutti i dodici anni di vita missionaria il beato godette sempre di un'ottima salute fisica, che lo spingeva a moltiplicare le iniziative per la conversione dei cinesi. Leggiamo difatti tra i suoi scritti: "Bisognerebbe che neppure un giorno della nostra dimora qui andasse perduto per quanto riguarda l'evangelizzazione". Nel 1900 gli furono affidati i distretti di Mienshien, Lioyang e Ningkiang, situati nella parte più occidentale e povera del Vicariato. Prima di partire scrisse al Vicario Apostolico: "Chi sa come l'andrà in quel lontano distretto: comunque sia, la vita e la morte stanno in mano di Dio: non cade foglia che Dio non voglia". L'11-3-1900 scrisse alla madre: "Sta' di buon animo e non prenderti pensiero di me. Io sono nelle mani di Dio e sono contento. Spero di fare la sua volontà e null'altro desidero… Se Dio vorrà che mi accadano delle avversità, ciò avverrà perché in me si verifichi il detto: "Beati coloro che piangono, perché saranno consolati".
Dopo cinque mesi di fatiche il Crescitelli poté scrivere al fratello Luigi: "Qui per grazia di Dio vi è stato uno straordinario movimento di conversioni: sono ormai 260". Quasi alla vigilia del martirio poté annunciare al Vicario Apostolico di avere raggiunto il numero di 560 catecumeni, appartenenti a 168 famiglie diverse.
Le conversioni furono ostacolate dalla cosiddetta "rivoluzione dei boxers", una società segreta cinese, sorta nello Shantung per opporsi ad ogni infiltrazione politica e culturale europea. Nel mese di maggio 1899 ebbero inizio i primi atti di barbara violenza contro i cinesi convertiti al cristianesimo e contro le missioni cattoliche. Il movimento, protetto dall'imperatrice Tse-Hsi, prese proporzioni tali da provocare nel 1900 un intervento armato delle potenze occidentali. Alcuni fanno salire a 30.000 i cristiani massacrati dai "boxers" nelle varie province dell'impero, tra cui 5 vescovi, 39 missionari europei, 7 missionari cinesi, 5 seminaristi indigeni e 7 suore europee. Ultimo martire in ordine di tempo fu il nostro missionario.
In diverse province, come nello Shensi, la rivoluzione fu ostacolata da saggi governatori. Quanto accadde a Yentzepien, nella sottoprefettura di Ningkiang, fu un episodio isolato, organizzato da una banda di facinorosi locali, nemici del missionario. In quell'anno infieriva in tutta la provincia una terribile carestia. La corte, per sopperire alle necessità del popolo, aveva fatto delle elargizioni, ma alcuni mandarini del distretto in cui si trovava il Crescitelli, avevano escluso i cristiani dalle distribuzioni di grano e riso perché, secondo loro, avevano rinnegato la patria aderendo alla religione degli stranieri. Il beato protestò contro quella ingiustizia, ottenne soddisfazione, ma i suoi nemici giurarono di vendicarsene uccidendolo.
Avendo saputo che il decreto imperiale del 1° luglio 1900 autorizzava lo sterminio degli europei e dei cristiani, i caporioni di Yentzepien cominciarono con il sospendere le sovvenzioni di frumento ai cristiani. La loro congiura divenne presto manifesta, ma il missionario ricusò di mettersi in salvo nella vicina provincia de Sechwan per proteggere i fedeli. Nel pomeriggio del 20 luglio 1900, in seguito alle loro suppliche, risolse di rifugiarsi nella vicina borgata di Yanpinkwan, ma ormai era troppo tardi.
Il beato si diresse allora alla dogana per prendere la via dei monti, ma ne fu astutamente sconsigliato dal capo con il pretesto che centinaia di uomini vi erano appostati per ucciderlo. Nel frattempo egli fece avvertire gli organizzatori della congiura della presenza del missionario nel suo ufficio. Costoro accorsero alla dogana con una folla armata di fiaccole, bastoni e coltelli. A gran voce reclamava il prete europeo. Il capo della dogana disse allora al ricercato: "Vedi quanta gente si è radunata qui contro di te? Mi è impossibile difenderti; l'unica via di scampo è quella porta segreta che vedi là, in fondo, che mette sul monte". Nel dire così lo spinse fuori e chiuse la porta.
La folla, furente, circondò immediatamente il missionario che si inginocchiò per terra e pregò. Poi si alzò e disse: "Perché fate così? Che male vi ho fatto? Se avete qualche cosa da dirmi, parlate, se avete qualche cosa da farmi, conducetemi dalle autorità". Non aveva ancora finito il suo dire che uno dei presenti con un colpo di spada gli staccò quasi il braccio sinistro dal tronco, mentre altri lo trafiggevano con coltelli infilati in canne di bambù. Il beato, grondante sangue, fu poi trasportato sulla piazza del mercato, sospeso mani e piedi a un grosso palo. Per tutta la notte rimase esposto ai furori della plebaglia. In mezzo ai tormenti non gli uscì di bocca una sola parola di risentimento o di rimprovero. Quando riprendeva i sensi non faceva altro che pregare sommessamente.
Nella mattinata del 21 luglio il Crescitelli fu condannato a morte e quindi trascinato, agonizzante, sulla sponda del fiume, con una corda legata ai piedi. Il carnefice con un coltellaccio usato per tagliare il foraggio lo colpì ripetutamente al collo nel tentativo di decapitarlo, ma non essendovi riuscito, lo finì servendosi di quello strumento a modo di sega. Di quella barbara azione fu ricompensato con il cavallo del missionario. Il corpo del martire fu fatto a pezzi e gettato nel fiume. Nel 1904, mentre si parlava di un altro eccidio di cristiani, si vide, sul posto della spiaggia dove il martire era stato ucciso, un gran numero di luci e di soldati in giubbe rosse. I settari, impauriti da quello spettacolo, desistettero dalla strage. Il Crescitelli fu beatificato da Pio XII il 18-2-1951.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 7, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 213-219
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