S. PIO X (1835-1914)

Giuseppe Melchiorre Sarto nacque a Riese (Treviso) il 2 giugno 1835. Fu ordinato sacerdote a 23 anni (settembre 1858) e subito nominato cappellano a Tombolo (Padova). È uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a Papa. Fu eletto Papa il 09/08/1903. Difende l’integrità della dottrina della fede, avvia la riforma della legislazione ecclesiastica, si occupa della Questione romana e dell’Azione Cattolica, cura la formazione dei sacerdoti, fa elaborare un nuovo catechismo, promuove la riforma liturgica e il canto sacro. Morì a Roma il 21 agosto 1914.

E' chiamato, a buon diritto, "il papa dell'Eucaristia", ed è considerato "il martello del modernismo". Egli nacque a Riese, nella diocesi di Treviso, secondo dei nove figli che Giovanni Batt. Sarto, cursore del municipio e proprietario di sei campi che non seppe sfruttare a dovere, ebbe da Margherita Sanson, di vent'anni più giovane di lui e sarta di professione Al fonte battesimale gli furono imposti i nome di Giuseppe e Melchiorre, ma anche da papa i suoi familiari continuarono a chiamarlo Bepi.
Un compagno del santo depose nel processo: "Era il più bravo della classe, ma molto vivace". I vecchi del paese, dicevano di lui, con una certa arguzia: "El xe cussi birbo, che el diventerà papa". Effettivamente anche il vicedirettore del seminario di Treviso affermerà: "Bepi non soltanto aveva un'indole vivacissima, ma era un vero biricchino nel senso un po’ cattivo della parola; quindi insolente, e anche inclinato a qualche scherzo se non positivamente immorale, certo poco corretto". Di questo difetto a poco a poco si correggerà alla scuola dei genitori, ferventi cristiani, del parroco Don Tito Fusarini, che lo ammise ai primi sacramenti, e soprattutto del suo coadiutore, Don Pietro Jacuzzi, con il quale manterrà una nutrita corrispondenza.
Al termine delle elementari, per quattro anni Bepi frequentò a piedi le scuole comunali secondarie di Castelfranco Veneto, distante 6 Km da Riese. Soltanto al martedì e al venerdì poteva usufruire del carretto tirato da un asinello di cui si serviva il babbo per il trasporto della posta in qualità di cursore del comune. Nonostante i quotidiani disagi, i suoi progressi nello studio furono costanti. Difatti, negli esami finali sostenuti nel 1850, si qualificò primo tra i 43 candidati. Oltre che studioso cresceva anche pio. Poco lontano dal paese sorgeva il santuario detto delle Cendròle. Ne era devotissimo. Uno dei suoi compagni di scuola attestò: "Sovente ci invitava ad andarvi in sua compagnia. Egli vi si recava non per diporto, ma per un sentimento di pietà, e se il sacerdote tardava qualche volta a venire, il Sarto intonava le Litanie".
Con l'età Bepi sentì crescere in sé il desiderio di farsi prete. Alla vocazione del figlio, oltre il padre, pare che si sia opposta anche la madre a causa delle ristrettezze economiche. I compaesani, che sapevano quanto fosse esuberante nel gioco, quanto poco volentieri tollerasse le riprensioni delle sorelle quando strappava i vestiti, quanto fosse pronto a imporre perentoriamente la propria volontà, appena seppero che voleva farsi sacerdote ne fecero le meraviglie. Eppure, per interessamento del Card. Jacopo Monico (+1851), patriarca di Venezia e suo conterraneo, nel novembre del 1850 ottenne di entrare gratuitamente nel seminario di Padova, per il quale S. Gregorio Barbarigo (+1697) aveva steso la Regula Studiorum, monumento di saggezza pedagogica, e accanto al quale volle che fosse allestita una tipografia per la stampa di libri in greco e nelle lingue orientali.
Negli 8 anni che vi rimase il Sarto si preparò al sacerdozio distinguendosi tra i compagni per devozione e disciplina, per le delizie che trovava nello studio e nella lettura degli scritti dei Padri della Chiesa, nonché nella pratica della musica sacra. Più tardi il santo considererà gli anni trascorsi in seminario come i più belli della sua vita, anche se non gli fu concesso di seguire i corsi accademici di teologia come aveva desiderato.
Alla morte del padre (+1852), il disagio della famiglia Sarto si aggravò. C'erano 8 figli da mantenere, il più piccolo dei quali non aveva che 4 anni. La mamma li sfamò affittando i campi e tenendo scuola di cucito per le ragazze del paese. Bepi continuò gli studi, e maturò molto rapidamente nello spirito dopo il lutto familiare. Era volontà di Dio che, prima di diventare "il successore del maggior Pietro", ricoprisse tutti gli uffici della vita ecclesiastica, a cominciare da quelli più umili. Per aiutare la famiglia avrebbe preso con sé 2 o 3 sorelle, e avrebbe mandato ogni tanto qualche lira alla madre (+1894), senza tuttavia esimere tanto lei quanto le figlie dalla legge del lavoro.
Il santo ricevette tutti gli ordini minori e maggiori da Mons. Giovanni Farina (+1888), trasferito nel 1860 da Treviso alla sede di Vicenza a causa della sua intransigenza. Dopo l'ordinazione sacerdotale, che ricevette il 18-9-1858 nel duomo di Castelfranco Veneto, Don Beppe fu destinato a fare il cappellano nella borgata di Tombolo. Alla madre disse: "Il paese non mi piace perché cattivotto, nondimeno devo ubbidire e vi andrò". Poté così sviluppare subito quelle capacità apostoliche di cui avrebbe dato splendidi esempi da vescovo e da papa. Alla scuola del parroco, Don Antonio Costantini, imparò a predicare con chiarezza e semplicità, tanto che a poco a poco diventò un ottimo oratore. I tombolesi, in maggioranza contadini e mercanti di bovini, erano persone loquaci e turbolenti, facili alla bestemmia. Don Sarto li conquistò con il suo zelo, con l'esercizio della carità verso i poveri e i malati, con l'insegnamento del canto e con la scuola serale che aveva aperto per gli adulti onde essere in grado di aiutare la mamma. Mons. G. B. Prevedello, decano del capitolo di Treviso, attestò nel processo canonico: "Talvolta arrivava al punto di adoperare le mani, specialmente con i giovanotti discoli e anche con gli adulti". E questo avveniva quando li udiva bestemmiare nel più volgare dei modi. Ciò nonostante era amato da loro perché sorrideva a tutti, giocava con i fanciulli, era riservato con le ragazze, celebrava la messa con molta devozione e trascorreva lunghe ore in confessionale specialmente a Natale e a Pasqua.
A trentadue anni Don Sarto fu nominato arciprete di Salzano (1867). Nei nove anni che vi rimase, a detta di chi lo conobbe, fu "modello di sacerdote". In parrocchia promosse con zelo la frequenza ai sacramenti, aprì un ricreatorio, insegnò con premura il catechismo ai fanciulli dispensando loro, all'occorrenza, qualche scapaccione per abituarli alla disciplina, e spiegò in forma tanto attraente agli adulti la dottrina cristiana che la chiesa era sempre piena di gente desiderosa di ascoltarlo.
Nel mese di maggio, dicono i testi, "faceva ogni sera un piccolo discorso, ma così bello che non solo gli abitanti di Salzano, ma anche quelli dei paesi limitrofi si riversavano in chiesa per sentirlo". Il vizio della bestemmia, però, continuò a inquietarlo fino al parossismo. Una domenica, dopo la lettura del Vangelo e alcuni avvisi, si scagliò con fiere parole contro alcuni uomini che la notte precedente avevano pronunciato orrende bestemmie sulla piazza prospiciente la canonica. Don Giuseppe Luise, suo cappellano, attestò: "Lo scatto fu così violento che ne ebbi paura. Gettò via il berretto, gettò via il libro delle pubblicazioni matrimoniali con tale violenza che, scivolando sul pavimento, andò a cozzare contro la balaustra. Continuò a celebrare la Messa senza spiegare il Vangelo dicendo: E basta!".
Nonostante ciò i parrocchiani continuarono ad amare molto il loro pastore perché era avveduto amministratore del beneficio, abile presidente della congregazione di carità, diligente sovrintendente delle scuole elementari comunali, difensore dei fittavoli, padre dei poveri, consolatore degli afflitti. A chi si trovava nel bisogno dava via tutto, anche a costo di privarsi del necessario per sé e le sorelle. Nel 1873 a Salzano infierì il colera. Il santo fu visto allora correre sempre, di giorno e di notte, al letto degli ammalati, benché avesse le ossa rotte dalla stanchezza. Vedendolo impallidire sempre di più, le sorelle gli raccomandarono un giorno la moderazione, ma egli le rassicurò dicendo: "Non abbiate paura, il Signore aiuta".
Quando Mons. Federico Zinelli, vescovo di primaria importanza durante il Concilio Ecumenico Vaticano I (1870), nominò Don Giuseppe Sarto, benché sprovvisto della laurea di prammatica, canonico della cattedrale di Treviso, cancelliere vescovile, maestro di religione e direttore spirituale dei seminaristi (1875), il santo lasciò Salzano con una spina nel cuore: di non esser riuscito ad estinguere i debiti che vi aveva trovato e che aveva dovuto accrescere per lavori necessari. In quello stesso anno era sorta a Firenze l'Opera dei Congressi con l'intento di tenere unite le forze cattoliche in difesa degli interessi politico-religiosi della Chiesa italiana. Tuttavia, la loro ripresa sarà ostacolata dal non expedit, conservato con troppa insistenza fino al pontificato di Benedetto XV (+1922).
Nelle tre vacanze della sede trevigiana il Can. Sarto rivestì pure la carica di Vicario Capitolare di cui approfittò per togliere molti abusi tra i canonici e risanare la cattiva amministrazione del seminario. Al responsabile del dissesto economico, in preda allo sdegno, non seppe fare a meno di dare un pugno e un calcio chiamandolo "traditore". Qualche piccolo malinteso e screzio sorse pure tra il vescovo Mons. Giuseppe Apollonio, succeduto a Treviso a Mons. Giuseppe Callegari (+1906), trasferito a Padova, e il suo cancelliere. Il primo era lento nell'agire e serio nel comportamento, l'altro invece era molto svelto nel lavoro e gioviale nella conversazione. Nel tempo libero dalle occupazioni, il santo coltivava lo studio e la lettura in funzione della predicazione, alla quale si dedicava con passione non solo nella diocesi di Treviso, ma anche in quella di Vicenza, in seguito agli inviti che riceveva da Mons. Farina. Fu allora che strinse amicizia con i fratelli Scotton, prima a Bassano del Grappa dove erano nati, e poi a Breganze, dove Don Andrea era stato nominato arciprete e aveva fondato, con l'aiuto degli altri due fratelli, La Riscossa per la Chiesa e per la Patria, con intenti ultraconservatori.
A Treviso il canonico Sarto godeva fama di essere un sant'uomo, ma non ancora giunto all'eroismo nell'esercizio di tutte le virtù "in conseguenza del suo diverso modo di trattare con persone che erano interessate nella stessa cosa", e per la facilità con cui faceva ricorso alle restrizioni mentali. Per questo veniva accusato di essere poco sincero. Quando fu eletto vescovo di Mantova, Mons. Callegari al suo antico collaboratore fece dono di una "bugia", cioè di un piccolo candeliere facilmente trasportabile, dicendogli: "Le dono una "bugia" in compenso delle tante che ha dette quando era cancelliere". Il Sarto si manterrà in relazione con Mons. Callegari anche dalla diocesi di Mantova, alla quale Leone XIII lo destinò nel 1884 in premio della sua bontà, laboriosità e destrezza. In data 21-12-1892 gli scrisse di sé: "Insomma bisogna contentarsi di scrivere una riga; perché la volpe perde il pelo, ma non il vizio, e Sarto è capace di fare cento propositi, mille promesse e non tenerne mai una. Non per niente si è meritato quel famoso soprannome, che è bello tacere". I testi dei processi ne ricordano più d'uno, come "Mons. Bugia", e "Mons. Prometti" e ancora "il Card. Prometti dell'Ordine di San Giocondo". Egli raggiungerà l'autentica santità soltanto a Roma, a più diretto contatto delle pesanti chiavi di S. Pietro.
Mons. Sarto non fu entusiasta della sua nomina a vescovo di Mantova perché godeva fama di essere una diocesi cattiva. La sera precedente la presa di possesso, nel seminario di Treviso fu udito gemere e sospirare in camera. Al rettore, accorso per rendersi conto di quello che gli succedeva, confidò che era molto preoccupato perché riteneva di non avere le forze adeguate ai gravosi compiti. Per lui Mantova e specialmente il seminario costituiranno una "croce" continua. Difatti, tra i sacerdoti più colti regnava con il liberalismo il rosminianismo, e a causa delle numerose apostasie di preti politicanti e dei moti-presocialisti tra il popolo regnava l'indifferenza, i sacramenti erano poco frequentati e i cattolici erano divisi in modo troppo accentuato tra intransigenti e conciliatori. Nell'ottobre del 1886 Mons. Sarto poté scrivere all'amico Callegari: "Qui siamo in partibus infìdelium. Si immagini che in una parrocchia di 3000 anime alla Messa del vescovo giorni fa c'erano 40 donne, delle quali otto fecero la comunione generale; e alla Dottrina Cristiana vi saranno stati cento fanciulli e un centinaio di curiosi". Aveva quindi ragione di dire a Mons. Andrea Ferrari, vescovo di Guastalla, che in occasione del centenario della morte di S. Luigi Gonzaga (+1591) aveva organizzato due pellegrinaggi a Castiglione delle Stiviere: "Ecc.za, faccia suonare ancora più forte le trombe dei suoi guastallesi, perché queste marmotte dei miei mantovani si abbiano a svegliare".
Per attendere più speditamente alla cura del suo gregge, il santo vendette i poderi che i Sarto avevano ereditato a Riese dal padre e poi, per nove anni, lavorò indefessamente per stimolare il clero allo zelo, riorganizzare la catechesi, celebrare il sinodo, riordinare il seminario in cui volle fare scuola di teologia morale e di canto, visitare ogni due anni la diocesi, opporre alla propaganda anticlericale le opere di beneficenza e di assistenza sociale.
Leone XIII volle premiare lo zelo di Mons. Sarto elevandolo alla dignità cardinalizia il 12-6-1893, e nominandolo Patriarca di Venezia quando la dottrina della sua enciclica Rerum Novarum cominciava a generare un'azione economica e sociale differente dalla precedente, spiccatamente caritativa. A Venezia il santo si preoccupò di organizzare meglio il seminario nel quale istituì una scuola di canto; di formare meglio il clero; di far partecipare i fedeli alla polifonia e al canto gregoriano bandendo dalle chiese gli arrangiamenti musicali con la collaborazione del maestro Lorenzo Perosi (+1956); di provvedere al buon funzionamento delle scuole di catechismo e dell'Opera dei Congressi, diretta dall'Avv. Giov. Batt. Paganuzzi (+1923), della diffusione della stampa cattolica e delle opere economico-sociali. Favorì la collaborazione tra cattolici e moderati per una corretta amministrazione comunale, e fu deferente verso le autorità civili e lo stesso re d'Italia Vittorio Emanuele III quando prese parte alla benedizione della prima pietra per la ricostruzione del campanile di San Marco che era crollato improvvisamente nel 1902.
I veneziani si affezionarono subito al loro patriarca perché parlava con bonaria semplicità, non disdegnava di ricordare le sue umili origini, portava con molto decoro la dignità episcopale e, soprattutto, perché dava a vedere che sentiva grande compassione per le loro miserie. Essi non ignoravano che egli, austero verso di sé, buono verso gli altri, indossava la veste pontificale del suo predecessore, e che ogni tanto impegnava il suo orologio d'oro per alleviare la povertà altrui. Un giorno egli stesso confidò ai suoi intimi: "A Mantova sono sempre stato povero, ma qui sono diventato un vero mendicante". Francesco Saccardo, benemerito del movimento cattolico veneto, affermò che il Card. Sarto “era veramente adorato dal popolo ed era amato dal clero. Se in esso vi fu qualche divergenza, questa dipese certamente dal modo rigido con il quale esercitava il suo ministero episcopale. Meritò, difatti, l'epiteto: "Mano di ferro coperta di guanto di velluto". Tuttavia, fino alla morte egli fu fedele al suo detto che ripeteva sovente: "Con me nessuno deve stare a disagio"”.
Alla morte di Leone XIII (+1903), il Card. Sarto, che si era sempre fatto una regola di uscire il meno possibile dalla sua diocesi, anche perché aveva molta paura di viaggiare in treno, dovette recarsi a Roma per prendere parte al conclave. Dopo l'esclusione del Card. Rampolla del Tindaro (+1913) da parte dell'Austria a causa della sua francofilia, il sacro Collegio si accordò sul Patriarca di Venezia, come fin dall'inizio aveva fatto il Card. Andrea Ferrari, arciv. di Milano. Da tutti era desiderato un papa più "buon pastore" che "buon politico". Su di lui si concentrarono i voti della maggioranza dei cardinali perché, piangendo, diceva loro: "Sono indegno, sono incapace, dimenticatemi". Il 4-8-1903, alla rituale domanda del decano dei cardinali rispose: "Se non è possibile che questo calice passi da me, sia fatta la volontà di Dio. Accetto il pontificato come una croce".
Papa Sarto volle chiamarsi Pio a ricordo dei suoi predecessori che avevano sofferto di più. Come Segretario di Stato scelse il trentottenne Card. Raffaele Merry del Val (+1930) perché poliglotta e al corrente di tutti i problemi che agitavano vari paesi del mondo. Gli disse: "Lavoreremo insieme e insieme soffriremo per l'amore e l'onore della Chiesa".
Due mesi dopo la sua elezione, Pio X scrisse nella sua prima enciclica: "Appoggiati alla virtù di Dio, proclamiamo di non avere nel nostro pontificato altro programma se non questo: "restaurare ogni cosa in Cristo, perché Cristo sia tutto e in tutti… Gli interessi di Dio saranno interessi nostri, per i quali siamo decisi di profondere tutte le nostre forze e la vita stessa". In modo brusco Pio X venne a contatto dei problemi nuovi e delle lotte violente suscitate contro la Chiesa dalla massoneria imperante. Tuttavia, la lunga esperienza personale, l'innato buon senso che lo contraddistingueva, l'intuizione dei problemi, l'amore alla giustizia, la fede nei disegni della divina Provvidenza lo resero inflessibile difensore dei diritti di Dio e dell'indipendenza della Chiesa.
Il pontificato di papa Sarto fu essenzialmente religioso. Esordì con due costituzioni di valore storico: una per comminare la scomunica maggiore a chiunque ardisse presentare nel conclave il veto, e l'altro per disciplinare lo svolgimento dell'elezione del sommo pontefice. Convinto che "per far regnare Gesù Cristo nel mondo nessuna cosa è più necessaria quanto la santità del clero", Pio X concentrò i seminari romani in quello lateranense, fondò quelli regionali e mandò visitatori apostolici a controllarne la disciplina e gli studi. A Roma affidò ai Padri gesuiti l'Istituto Biblico da lui voluto per lo studio e la difesa della S. Scrittura, e incaricò i benedettini della revisione della Volgata. In tutte le scuole impose lo studio della filosofia di S. Tommaso per avere un clero più colto e più amalgamato. Conoscendo per esperienza quanto fossero tristi le conseguenze dell'ignoranza religiosa, nel 1905 emanò sapienti disposizioni per il catechismo ai fanciulli e agli adulti, ordinò nel 1912 la promulgazione del testo unificato, incoraggiò i convegni per l'apostolato catechistico e volle fare egli stesso ai romani, per un po' di tempo, catechismi domenicali nel cortile del Belvedere.
Il santo pontefice fu soprattutto sempre molto vigile riguardo alla purezza e alla integrità della fede. Nel 1907 condannò con innegabile successo il cosiddetto movimento modernista, "sintesi di tutte le eresie", col decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi. I provvedimenti presi dall'intransigente pontefice infransero la forza di conquista e di espansione del movimento agnostico, che erigeva la coscienza religiosa individuale a giudice della rivelazione e della Chiesa, e considerava i dogmi come meri simboli mutevoli della verità religiosa inconoscibile in se stessa.
Il modernismo regredì molto rapidamente per l'allontanamento dei suoi principali esponenti dalle cattedre o addirittura per l'abbandono della Chiesa da parte dei suoi principali difensori. Giova ricordare il Sac. Alfredo Loisy (+1940), professore di esegesi nell'Institut Catholique di Parigi; il sac. Alberto Houtin (+1927), professore nel seminario di Angers; il P. Giorgio Tyrrel (+1909), teologo inglese convertito ed ex-gesuita; Don Romolo Murri (+1944), democratico cristiano; Don Salvatore Minocchi (+1943), biblista toscano; e Don Umberto Fracassini (+1950), professore di S. Scrittura nel seminario di Perugia.
Per amore della verità occorre dire che la repressione ecclesiastica a volte fu troppo violenta e indiscriminata per mancanza di idee larghe in coloro che si ritenevano obbligati a imperla per ufficio. E così essi furono più solleciti a dare ascolto alle delazioni del Sodalicium Pianum, istituito dal perugino Don Umberto Benigni (+1934) a difesa della più rigorosa intransigenza; alle false insinuazioni del fratelli Scotton fatte con il loro settimanale; o alle volgari calunnie propalate da Don Giovanni Cavalcanti, direttore dell'Unità Cattolica di Firenze, contro il Card. Ferrari di Milano, il suo clero e i suoi seminari, anziché dare ascolto alle molto pertinenti ragioni adottate a difesa della sua diocesi dallo stesso interessato. Il ven. Card. Ildefonso Schuster (+1954), arcivescovo di Milano dal 1929, nella sua relazione scritta sulla fama di santità e le virtù del B. Andrea Ferrari dice: "Pio X era un sant'uomo, ma i suoi due bracci, destro e sinistro, i cardinali Merry del Val e Gaetano de Lai… ponevano troppo del loro spirito duro nel servirlo. Forse fecero anche qualche vittima". Basti dire che il seminario di Milano in pochi anni fu sottoposto a ben tre visite apostoliche!
Per far vivere in grazia di Dio il gregge che gli era stato affidato, il papa ritenne necessario promuovere la pratica della comunione frequente e quotidiana (1905) e ammettere i bambini alla prima comunione non più a dodici anni, ma all'uso di ragione (1910). Per alimentare la devozione nel popolo diede somma importanza al decoro delle funzioni sacre introducendo nel canto corale le melodie gregoriane al posto della musica teatrale. Riformò il breviario per dare modo al clero di recitare nella settimana tutto il Salterio, e il 19-4-1904 nominò una commissione di cardinali perché imprimesse unità e praticità al codice della legislazione ecclesiastica. L'ardua impresa fu portata a termine dal Card. Pietro Gasparri (+1934) il 27-5-1917, ma essa, al dire di Pio XII, rimane "il capolavoro del pontificato di Pio X". Altre riforme, come quella della riorganizzazione della curia, della pinacoteca e della specola astronomica vaticana furono portate a termine con l'energia che lo distingueva senza badare alle recriminazioni dei collaboratori. Dal tempo del Concilio di Trento nessun papa aveva studiato e attuato tante riforme.
Da vescovo e da cardinale Pio X aveva sempre protetto l'Azione Cattolica partecipando a convegni e a congressi. Quando, però, da papa avvertì che l'Opera dei Congressi non riuniva più le associazioni cattoliche italiane in una concorde azione per la difesa dei diritti e degli interessi religiosi e sociali del popolo, nel 1904 la sciolse, dando origine all'Unione Popolare, all'Unione Elettorale, all'Unione Economico-sociale, alle quali aggiunse nel 1910 l'Unione Femminile Cattolica. Confermò il divieto dei suoi predecessori ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica della nazione, ma diede ai vescovi la facoltà di permettere ad essi l'accesso alle urne quando le coalizioni dei partiti estremisti costituivano una minaccia all'ordine costituito.
Con i laici e in particolare con il movimento cattolico l'opera di Pio X non ha goduto di molta simpatia perché, per una eccessiva intransigenza, i suoi documenti furono quasi sempre interpretati come un freno, e non uno stimolo alle loro iniziative. Egli voleva che i cattolici fossero virtuosi, colti e operosi, ma alla completa dipendenza della S. Sede. Non era propenso a concedere loro una autonomia politica nel modo con cui veniva propugnata da Don Murri (+1944), che scomunicò nel 1909.
Riuscirà nell'intento Don Luigi Sturzo (+1959), fondatore a Roma nel 1919 del Partito Popolare Italiano sotto il pontificato di Benedetto XV.
Pio X anche sotto l'aspetto politico-ecclesiastico fu un intransigente nel sostenere i diritti della Chiesa contro le mene dei governi anticlericali del tempo. Sotto il suo pontificato, in Francia scoppiò repentina la catastrofe della separazione dello Stato dalla Chiesa, nonostante il concordato concluso nel 1801 da Pio VII con Napoleone I. Fu voluta dalla sinistra repubblicana dominata dal ministero di Emilio Combes (+1921), infastidita dalla corrente cattolica rimasta favorevole alla monarchia nonostante i ripetuti ammonimenti di Leone XIII. All'inizio del XX secolo il governo francese vietò a tutti gli istituti religiosi l'attività didattica, e ordinò la chiusura di circa 10.000 scuole entro dieci anni per la completa "laicizzazione" dello stato e della società. Tuttavia, la scintilla che il 9-12-1905 provocò la definitiva separazione della Francia dalla S. Sede fu la denuncia da parte di Pio X della visita che il presidente della Repubblica Emilio Loubet (+1929) fece a Roma nel 1904 a Vittorio Em. III, contrariamente alla consuetudine invalsa tra le nazioni cattoliche dopo la presa di Roma (1870). L'amministrazione del patrimonio della Chiesa e degli edifici di culto doveva essere affidata ad Associazioni Cultuali sotto il controllo statale. Pio X nel 1906 rigettò la legge di separazione tra Chiesa e Stato con l'enciclica Vehementer, vietò le Associazioni Culturali con la Gravissimo e diede ai vescovi il compito di creare una organizzazione adatta. Benché ridotta al rango di società privata, la Chiesa di Francia, spoglia dei suoi beni, ricuperò credibilità tra il popolo, e lo spirito religioso aumentò sensibilmente nelle maggiori città e specialmente tra la gioventù. Il papa fu libero di nominare i vescovi, e i vescovi furono liberi di nominare i parroci senza interferenze dello Stato.
Pio X ebbe pure molto da soffrire da parte del governo portoghese dopo la destituzione nel 1910 del re Manuel II (+1932) ad opera dei militari e la proclamazione della repubblica. I nuovi dirigenti soppressero subito gli Ordini religiosi, scacciarono i Gesuiti, ne confiscarono i beni e il 20-4-1911 proclamarono in forma molto aspra la separazione tra Chiesa e Stato. Nel 1913 Pio X protestò con l'enciclica Iam Dudum. In compenso, nel 1913, il governo radical-massone del Portogallo interruppe i rapporti con Roma.
Un duro colpo alla salute del papa fu la prima guerra mondiale, scoppiata tra l'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe (+1916) e la Serbia in seguito all'uccisione a Sarajevo, nel 1914, dell'arciduca ereditario Francesco Ferdinando da parte di un gruppo di patrioti. All'ambasciatore austriaco che, dopo avergli dato notizia dell'avvenuta dichiarazione di guerra, gli chiese la benedizione per le truppe austro-ungariche, Pio X rispose: "Dite all'imperatore che io benedico la pace, non la guerra".
Nato povero, vissuto povero in compagnia di due sorelle, volle morire povero. Il "guerrone", che aveva presentito, gli fiaccò la robusta fibra. Morì di bronchite il 21-8-1914 in fama di santità, assistito dal Card. Merry del Val. In vita operò miracoli, ma quando i graziati gliene parlavano egli li attribuiva sempre al "potere delle chiavi". Pio XII ne riconobbe l'eroicità delle virtù il 3-9-1950, lo beatificò il 3-6-1951 e lo canonizzò il 29-5-1954. Le sue reliquie sono venerate nella basilica di San Pietro sotto l'altare della Presentazione di Maria SS. al Tempio.
Negli ultimi giorni di vita il Card. Schuster così commentò la canonizzazione di S. Pio X: "Non tutti gli atti del suo governo si dimostrarono in seguito pienamente opportuni e fecondi. Altra cosa è l'incidenza più o meno felice sul piano storico di un governo ecclesiastico, altra cosa è la santità che lo anima. E certo che ogni atto del pontificato di S. Pio X fu mosso esclusivamente da un puro e grande amore di Dio.
E alla fine ciò che conta per la vera grandezza della Chiesa e dei suoi figli è l'amore!".
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 234-24
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